Gaetani Luigi
Come restare umani rispetto al nuovo che sta accadendo
2021/11, p. 1
La LXI Assemblea Generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (CISM), (Torino-Valdocco, dall’8 all’11 Novembre 2021) – avendo coscienza che il Covid-19 ha provocato una pandemia che, in modo insidioso, sta coinvolgendo tutti mettendo in crisi le nostre sicurezze e le nostre forme di vita – ha puntato la sua riflessione su: “Pandemia e rivoluzione della vita fraterna. Come dare forma al nuovo che sta accadendo”. L’intento è quello di avviare una riflessione sulle trasformazioni in atto, sia nell’ambito della conoscenza di sé come nei contesti delle comunità e della vita degli Istituti religiosi. Il presidente nazionale della CISM, padre Luigi Gaetani, ci consegna alcuni risvolti ricchi di esiti fecondi.

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PANDEMIA E RIVOLUZIONE DELLA VITA FRATERNA
Come restare umani
rispetto al nuovo che sta accadendo
La LXI Assemblea Generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (CISM), (Torino-Valdocco, dall’8 all’11 Novembre 2021) – avendo coscienza che il Covid-19 ha provocato una pandemia che, in modo insidioso, sta coinvolgendo tutti mettendo in crisi le nostre sicurezze e le nostre forme di vita – ha puntato la sua riflessione su: “Pandemia e rivoluzione della vita fraterna. Come dare forma al nuovo che sta accadendo”. L’intento è quello di avviare una riflessione sulle trasformazioni in atto, sia nell’ambito della conoscenza di sé come nei contesti delle comunità e della vita degli Istituti religiosi. Il presidente nazionale della CISM, padre Luigi Gaetani, ci consegna alcuni risvolti ricchi di esiti fecondi.
Ci sono dei momenti nella vita che portano come su una frontiera e rappresentano la prova della verità di chi, lasciandosi alle spalle molte cose, l’attraversa. Non è semplice questo passaggio perché è prova del valore della vita, del senso che essa ha rispetto al dolore, ai fallimenti, al frantumarsi delle relazioni che contano. Questo esodo è duro, è una migrazione difficile, un passaggio critico, un grido di disperata speranza, in mezzo a tanto bisogno di chiarezza.
I religiosi, come ogni uomo, affrontano questo passaggio con fatica e, in alcune circostanze, sono tentati di occultare o di mettere in piazza le esperienze del veloce declino, forse nel timore di ripensare il modello vincente entro cui sono stati formati e di cui questo tempo è immagine (avere successo, essere in forma, essere efficienti…), oppure esibendo sulla “bancarella dell’usato” i reperti di una vita che non c’è più. Non poche volte, ascoltando le voci della vita religiosa oggi, si ha la sensazione che coloro che non rientrano in queste due tipologie di vita siano fuori dalla realtà, come se non fosse possibile dare forma al nuovo che sta accadendo. Eppure, è bastato un virus a sfidare le nostre instabili sicurezze e a ricollocarci su quella frontiera della vita che esige il coraggio di ritornare «liberi a percorrere, a piedi nudi, le strade del mondo, abbattendo i reticolati di queste città-lager dove ognuno è cintato dal sospetto perfino del fratello…» (Davide Maria Turoldo, Più non abitate conventi, da O sensi miei, Poesie 1948-1988), prendendo atto delle esistenze ridotte a giare vuote, nonostante la sete di tanta parte dell’umanità. Il Covid-19 ha piegato la cultura della potenza dentro la consapevolezza del limite, della precarietà, della morte, ma quel virus impercettibile ha svolto anche una funzione rivelativa: ha gettato una luce sulla vita umana, ha svelato chi siamo come persone e come comunità, ha posto sfide nuove.
La pandemia, allora, non è solo un dramma, ma anche un risveglio da un torpore per tutti coloro che avevano pensato, almeno qualche decennio fa, di avviare un ripensamento della vita religiosa, delle opere, del rapporto con il laicato ma che poi, non avevano avuto la forza di operarlo; per coloro che avevano tentato di guadare il fiume della storia ma che poi si erano lasciati congelare il coraggio, smettendo di osare ogni attraversamento della vita. È bastato un virus, un agente esterno e non calcolato, per riaccendere grandi interrogativi e mettere tutti dinanzi ad una realtà che, per la natura dell’evento, ha portato una accelerazione globale, facendo considerare che nulla è come prima, dove occorre prendendo atto che i cambiamenti non li generano solo gli uomini e non sono loro a determinarli, sebbene possano orientarli.
La pandemia, in questo senso, non è una maledizione a tutti i costi o una visione bellica della vita, un tempo buio segnato dalla paura e dalla solitudine perché, chi tratta l’umano come valore, come esperienza di stupore, come capitale reale e non funzionale, riconosce che questi sono anche tempi di grazia e di condivisone, una sorpresa, un’opportunità per coltivare una nuova filosofia dell’abitare, per generare un nuovo modello di sviluppo, favorendo il modo di stare nel mondo, magari a partire dalla fragilità assunta, dalle ferite che abitano tanta parte di umanità, come attenzione e impegno a cogliere il senso delle cose che accadono. Forse, proprio in virtù di questa lettura sapienziale, il perdente è colui che vince e nella debolezza si nasconde la forza e la vittoria.
Tutti siamo consapevoli che non ci troviamo dinanzi a cambiamenti di facciata ma che siamo chiamati a riscoprire l’umano nascosto nel cuore, vero ornamento e bellezza dell’esistere (1Pt 3,3-4), perché c’è un umano, un desiderio di attenzione, di cura e di recupero dell’essere famiglia – Fratelli tutti, direbbe papa Francesco – presente nell’intimo di ogni persona, soffocato dalla paura e dagli interessi. Consentire a quest’umano di emergere, far “ritornare i volti” (Italo Mancini, Tornino i volti, Marietti 1989), le narrazioni personali e collettive è urgente, se vogliamo scrivere un futuro possibile per l’umanità e la vita religiosa.
L’esperienza di ogni giorno tesse le paure della pandemia con quelle della povertà e della trasmigrazione dei popoli. Di fronte a questo volto dolente di tanta umanità, si tenta di assopire l’umano con forme di populismo e di falso buonismo, mentre si gettano milioni di vaccini non utilizzati e milioni di uomini e di donne ne restano privi, si generano sacche di opulenza dinanzi ad una evidente esplosione della povertà globale, si prediligono verbi come affondare, distruggere e respingere mentre scorre il dramma esodale di un mondo che è divenuto una carovana umana.
Urgenza di recuperare l’umano
Come religiosi, che custodiscono la memoria di chi ha navigato dentro le pieghe dell’umanità, lungo le storie del dolore, affermiamo oggi l’urgenza del recupero dell’umano, lasciandoci interpellare dall’umanità di Gesù che ha fatto sua la condizione del lebbroso (Mc 1,40-45), della donna peccatrice (Lc 7,11-17), di tutta una umanità sfigurata e stanca (Mt 25,31-46) per aprirci, lasciarci interpellare, modificare, ridefinire dall’umanità fragile dell’altro, aprendoci al futuro di Dio con discernimento e coraggio profetico, orientando il nostro modo di umanizzare il mondo, dando forma di famiglia alla nostra vita fraterna in comunità. Sì, è proprio il nuovo che sta accadendo che rivoluziona la forma obsoleta della vita fraterna in comunità conferendogli una forma semplice, dialogica e familiare, abilitandoci ad una capacità generativa e di responsabilità verso noi stessi e gli altri, costruendo relazioni più umane e familiari, vivendole nell’ottica della misericordia accogliente e familiare di Dio e della reale e familiare appartenenza comunitaria.
Come dare forma al nuovo che sta accadendo? La vita religiosa si impegni a costruire e lasciare per il futuro un mondo nella laetitia della domus, in quella intimità familiare dove le persone rinascono, dove ha origine l’identità di ciascun uomo. Prendiamoci cura delle persone, trasformiamole in vere esperienze di comunità-famiglia, perché sono queste le vere scuole del domani, spazi di libertà, centri di umanità, laboratori di umanizzazione, luoghi dove si potrà riservare debito spazio alla preghiera personale e comunitaria, all’impegno sociale e alla costruzione della “civiltà dell’amore” (Paolo VI).
L’abitare (Francesco, Amoris laetitia, n. 172) ha a che fare con il modo in cui si sceglie e si permette ai corpi di stare gli uni accanto agli altri. La comunità, quando non è uno spazio privato e limitato, quando non è una casa-dormitorio in cui ci si ritrova solo per degli sterili atti comuni, per dei pranzi che riempiono solo il corpo, in cui ci si ritrova per un tempo contingentato perché il resto lo passiamo davanti ad una TV e agli smartphone, è la forma ed il luogo teologico ed esistenziale dove si impara ad essere veramente uomini e donne attraverso la convivenza con il diverso, sentendosi padri e madri, figli e fratelli, famiglia (G. Salonia, Odós. La via della vita. Genesi e guarigione dei legami fraterni, EDB 2007).
Resta vero, in questa prospettiva, quanto papa Francesco ha detto al n.141 di Amoris laetitia: «Infine, riconosciamo che affinché il dialogo sia proficuo bisogna avere qualcosa da dire, e ciò richiede una ricchezza interiore che si alimenta nella lettura, nella riflessione personale, nella preghiera e nell’apertura alla società». Come a dire che la garanzia di una comunità-famiglia, di una vita fraterna autentica, di una comunità fonte di umanità è data anche dalla cura che ogni persona, ogni religioso dedica al proprio cammino di crescita umana e spirituale. Infatti, educarsi all’interiorità significa essere capaci di entrare in contatto e dialogare con se stessi per assumersi la responsabilità di ciò che dipende dalla propria storia rispetto alla storia degli altri.
Nuova forma della vita fraterna
Vivere in una comunità disumanizzante non significa solo subire i traumi della vita fraterna, come accade in tante storie di abuso e di violenza, ma può significare anche crescere in una casa come in un deserto, senza essere visti nella propria originale bellezza. Solo in una nuova forma della vita fraterna, vissuta come famiglia, si potrà apprendere e mettere insieme unicità e appartenenza, resilienza e calore, identità personale e relazionale, trasformando questa esperienza in una forma di vita che umanizza e irradia bellezza.
Un ulteriore passaggio della nostra riflessione ci porta a considerare che tra questa forma di vita fraterna e il cammino della sinodalità, come cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio, c’è una affinità che trova la sua ragion d’essere nella proposta evangelica della sequela, di “quelli della via” - odós - (At 9,2), perché Gesù è “la via” (Gv 14,6). Vi è un unico cammino di Gesù che abbraccia tutto il suo ministero e coinvolge i discepoli che sono chiamati a seguire insieme la stessa “via”. Urge, quindi, convertirsi ad una forma di Chiesa e di vita che, avendo come riferimento e come orizzonte la comunione trinitaria, si concretizzi in popolo di Dio che «fiorisce dove il Signore lo ha piantato» (Beata Elia di San Clemente, carmelitana scalza).
Il cammino sinodale appartiene all’intima natura della Chiesa nel suo insieme, è l’essere e lo stile, nello stesso tempo, di una Chiesa “in uscita”, ovvero tutta missionaria, dove il Dio di Gesù Cristo rimane il protagonista, ma non senza il sensus fidei, l’ascolto, il discernimento e la corresponsabilità effettiva di ogni battezzato.
Dentro questo percorso sinodale, la vita consacrata non può non sentirsi interpellata, tanto più che la sua forma di vita cristiana plurale (Monaci, Mendicanti, Società di vita apostolica) e le distinte forme di vita fraterna in comunità hanno trasmesso modalità sinodali pluriformi nello stile e nel governo, un modo di essere sinodale finalizzato, dal livello comunitario locale fino al governo generale, alla compartecipazione responsabile di tutti i fratelli al carisma, al governo e alla vita concreta. Non dimentichiamo, infatti, come scrive Evagrio Pontico, che anche il monaco è tenuto a irradiare questa dimensione sinodale del suo essere Chiesa: il «Monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti» (E. Pontico, Sulla preghiera, 125), perché il cristiano non vive mai per se stesso, ma per il Signore (Rm 14, 7-8) e per il suo Corpo, che è la sua Chiesa (1Cor 12,27) e l’intera umanità (Col 3,11). Edith Stein ricorderà questa sinodalità del popolo come capacità di «stare davanti a Dio per tutti».
Sinodalità come stile di vita
La sinodalità è nella natura della vita consacrata, la sinodalità come stile di vita è una esigenza primaria che fiorisce dall’humus della koinonia fraterna vissuta nello spazio teologale dove si sperimenta il primato della mistica presenza del Signore che ricorda che non ci siamo scelti, ma che siamo stati scelti (Mt 18,20). Ma la comunione fraterna come spazio teologale non si dà per automatismo, accade solo se la comunità ha cura di tessere relazioni di fede, speranza e carità sostenute dalla Parola di Dio, dall’Eucaristia e da una vita secondo lo Spirito. Se tutto questo vien meno «c’è il rischio di condurre esistenze giustapposte e parallele, il che è ben lontano dall’ideale di fraternità» (CIVCSVA, La vita fraterna in comunità, n.32) e, di conseguenza, viene appesantito il cammino di sinodalità, poiché, come dimostra la vita, questa non fiorisce spontanea, a meno che non la si riduca ad un atto amministrativo. Non a caso il Documento, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, n.20 (11 maggio 2008) della stessa Congregazione vaticana delinea come un orizzonte sinodale entro cui accade e si sviluppa la forma sinodale della vita fraterna in comunità: «Chi presiede ha la responsabilità della decisione finale, ma deve giungervi non da solo o da sola, bensì valorizzando il più possibile l’apporto libero di tutti i fratelli o di tutte le sorelle. La comunità è tale quale la rendono i suoi membri: dunque sarà fondamentale stimolare e motivare il contributo di tutte le persone, perché ognuna senta il dovere di dare il proprio apporto di carità, di competenza e di creatività».
La sinodalità, come forma poliedrica dei carismi, non solo aiuta a capire la legittimità della comunità-famiglia che cerca, oggi, una grammatica nuova per potersi dire, ma apre alla ri-comprensione delle opere come capacità di dare forme nuove ai carismi, incarnandoli qui ed ora. La ricostruzione del patto educativo globale è una di queste ri-forme che ci spinge, come sottolinea Papa Francesco, a «costruire un villaggio dell’educazione», a investire sul futuro, perché «il domani chiede il meglio dell’oggi»; preparare persone che si occupino di «educare a servire», perché «educare è servire».
Se la pandemia è un dramma che ha intaccato e messo in crisi le nostre sicurezze, facendoci toccare con mano la nostra fragilità, riteniamo che tutto questo vada vissuto con spirito di discernimento, con responsabilità e ad occhi aperti. Ad occhi aperti siamo chiamati a vincere il “virus dello spaesamento” e dello “sradicamento” per riorientare il nostro stile di vita con una ricostruzione delle relazioni di fraternità dentro una comunità-famiglia che sappia ascoltare la condizione umana di ognuno, prendendosi cura dell’altro.
P. LUIGI GAETANI, OCD
PRESIDENTE NAZIONALE CISM