Cozza Rino
Restituire spazi alle «domande» che nascono dalla vita
2021/11, p. 22
Veniamo dal tempo in cui si pensava fossero le «risposte» a dover essere privilegiate, mentre invece, specie in tempo di cambiamento d’epoca, sono le «domande» che lavorano a costruire una via.

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PER UNA VITA RELIGIOSA ANIMATA DALLO SPIRITO
Restituire spazi alle «domande»
che nascono dalla vita
Veniamo dal tempo in cui si pensava fossero le «risposte» a dover essere privilegiate, mentre invece, specie in tempo di cambiamento d’epoca, sono le «domande» che lavorano a costruire una via.
Con il Concilio avrebbe dovuto iniziare il tempo di riscrivere tante cose a partire innanzitutto dall’accumulo di tradizioni e di quel saputo ideologico che nel passato non aveva richiesto riposizionamenti. Ma per la VR non è stato così, perché la preoccupazione prevalente è stata quella di continuare a dare «risposte» al riparo, più che sospinti dal vento della storia.
Finalmente però oggi sta crescendo la consapevolezza che è solo «connettendosi con le domande» del tempo presente che si mette l’agire sui sentieri di senso, per cui il male maggiore che ci potrebbe capitare è di non averne più. Quando si tolgono queste, hanno il sopravvento gli adattamenti di acquiescenza, con il risultato di «trovarci forestieri, quando non addirittura dei corpi estranei, all’interno di una cultura che noi abbiamo contribuito a creare».
Il futuro dunque sarà reso possibile con il liberarsi da tutto ciò che vuole la vita religiosa fedele ad una immagine di sé che non tiene più, per aver privilegiato le «risposte» colte da quel tempo in cui si pensava non ci fosse bisogno di riformabilità.
Da qui l’esigenza di dover fare spazio a varie «domande» di religiosi e religiose, ai quali per l’età appartiene il futuro, e che da esso hanno ancora la capacità e la voglia di farsi interrogare.
Riporto alcune di queste domande.
«Non sarà che la VR è vittima del peso della memoria che la porta a dare risposte alle domande nuove, traendole da un repertorio preesistente, considerato irriformabile punto di arrivo?» p. G.N.
Il card. Martini in riferimento alla Chiesa e non meno alla Vita Religiosa, si poneva la domanda: «Non ci stiamo forse limitando mediante i vincoli dell’istituzione che sa di burocrazia e per nulla di profezia?». Non è solo lui a pensarlo e a dirlo riflettendo sulla Chiesa percepita stanca e accomodata ideologicamente e istituzionalmente. Ad affermarlo sono coloro che dopo essersi messi di fronte al fatto, si pongono anche di fronte a domande generatrici di nuove possibilità chiedendosi quali siano i presupposti sottesi ai nostri codici giuridici, etici e di pensiero, che noi per troppo tempo lasciamo pigramente invecchiare, senza verifiche, sotto la polvere delle abitudini.
La sapienza di coloro che sanno «vedere oltre» è quella di saper leggere i fatti con categorie bibliche al posto di categorie logore, visioni corte, istituzionali, tradizionali o solo confessionali nel senso di chiuso. Costoro le risposte non le traggono da qualche libro ma dall’analisi attenta degli eventi, consapevoli che in questo momento di grazia non ci sono solo commemorazioni da celebrare, ma «segni dei tempi» da cogliere, e frammenti da raccogliere, perché niente si perda. Quanto poi intravisto lo trasmettono per risvegliare la coscienza e la memoria di altri attorno a loro per farli uscire dalla loro falsa sicurezza, sollecitando, interrogando, inquietando, aprendo finestre per arieggiare gli ambienti.
Nella seconda metà del ‘900 le voci profetiche non sono mancate, ma oggi sono tanto rare che quando una di esse si spegne, ciò che risalta non è più la profezia nella Chiesa, ma la sua mancanza.
Il card. Martini durante la messa esequiale di uno dei suoi più cari amici, don L. Serenthà, si fece invito a «procedere per una più grande scioltezza nella Chiesa, per una più grande libertà di spirito, per una più grande creatività. E nel febbraio 1992, presiedendo alle esequie di p. Turoldo, ebbe a dire: «la Chiesa riconosce la profezia troppo tardi».
Le stesse esequie del card. Martini, sono state la celebrazione di una vita che è stata una sintesi mirabile tra condizionamenti e sogni, e nello stesso tempo “celebrazione” di tante silenziose attese di una Chiesa vera, credibile, amabile. Si era trovato a vivere in un tempo in cui ogni questione posta dal vortice di una storia che ogni giorno si incontrava e scontrava con problemi sempre più delicati aveva trovato la disponibilità e il dono di un pensiero libero. Ha mostrato come la fede in Gesù sia, alla fine, la gioia di poter pensare “oltre”, senza paure e senza restrizioni mentali, sapendo affrontare le contraddizioni.
Mentre la sua persona fisica si indeboliva per la malattia, il suo spirito si faceva sempre più aperto e audace, fino al coraggio di riaprire questioni e problemi considerati già risolti dalla Chiesa con chiusure e sentenze definitive, il tutto con la potenza della parola di Dio, che non si afferma con sentenze fuori del tempo ma che cammina nella storia dell’umanità in un incessante percorso verso la verità tutta intera.
Dunque la storia della Chiesa e della VR, in quanto storia di salvezza, non è data dalla fossilizzazione delle sue espressioni storiche e delle sue formulazioni dottrinali, ma è data dall’essere un organismo animato dallo Spirito che cresce e si arricchisce in comprensione, strada facendo. Ma a questo fine servono coloro che vigilano sulla linea del mattino e scommettono sull’avverabile, sapendo intercettare in anticipo gli orizzonti della storia. Serve gente che sa esporsi al crogiolo del cambiamento in un discorso non asserragliato nella visione del mondo, proprio di un particolare momento storico, pena la stasi, la stagnazione, la morte.
Il teologo B. Secondin, nel ’92, invitato a parlare all’assemblea annuale dei padri generali (USG), li metteva in guardia dall’aprire la strada a una deriva allora incipiente, invitandoli al «coraggio di abitare gli orizzonti e non i cespugli».
«Guardando le comunità e le opere dei religiosi, si vede il vigore di un ideale, oppure la forza e le tattiche di una impresa?» Sr.L.Z
Se la VR è nata dal proporsi come «immagine» che dovrebbe rimandare al modo d’essere e operare di Cristo, allora la questione della sua «figurazione» non può essere considerata come secondaria.
Infatti «può accadere – è detto nell’istruzione “Scrutate” - che col tempo le esigenze sociali convertano le risposte evangeliche in risposte misurate sull’efficienza e la razionalità «da impresa». Può allora accadere alla vita consacrata di perdere l’autorevolezza, l’audacia carismatica, perché attratta da luci estranee alla sua identità».
Lo conferma l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (n.63), con il dire che in vari settori della Chiesa «c’è un predominio dell’aspetto amministrativo su quello pastorale». Ciò è dovuto al fatto che nei momenti di anemia spirituale, come l’attuale, si è portati inevitabilmente a investire in rassicuranti elementi organizzativo-istituzionali, ritenuti inaugurali di nuove possibilità, quali quelli sottesi ad alcune logiche di «impresa» e di «mercato» tendenzialmente invadenti specie in campo religioso, da prendere il sopravvento sull’elemento più vivo, relazionale, umano, storico. Ed è per questo che la cultura manageriale di impresa nella vita religiosa sta diventando una ideologia pervasiva, portata a investire tutte le sue risorse nella gestione strumentale delle risorse, mettendole a frutto attraverso forme di terziariato, entrate più che mai nelle prospettive dei religiosi/e. Ma dietro a certe scelte, solo in apparenza risolutive – a meno che non siano un vero passaggio di carisma a quei laici che in questo sono cresciuti – non c’è tanto la forza di una idea quanto la debolezza di chi è spaesato.
L’aspetto positivo potrebbe essere che tutto ciò porti a capire che le nuove prospettive nasceranno soltanto da una situazione inedita, poiché in una situazione di vita così radicalmente mutata dal tempo veloce, non esistono soluzioni codificate in grado di far generare l’inedito.
«Quali sono i motivi che portano non pochi religiosi/e dai trenta ai cinquant’ anni, a lasciare l’Istituto»? Fr. Z V
È questa la fase della vita in cui oggi, più che nel passato, le persone prendono di peso l’inquietudine dovuta alla fatica di non trovare ciò che soprattutto vanno cercando.
Innanzitutto vari abbandoni, sembrano essere motivati dal ritenere che l’«uscire» sia l’unica risposta per la soluzione di situazioni relazionali divenute insopportabili all’interno di comunità che non sanno rispondere alla concezione della persona ripensata alla luce dell’attuale cultura, per la quale «la chiusura e l’isolamento creano sempre un’atmosfera asfittica e pesante, che prima o poi finisce per intristire e soffocare.
A soffrirne è anche la vita di quei religiosi e religiose che ad un certo momento si ritrovano estranei in casa propria, come quando, per fare funzionare al meglio un’opera, non sembra possibile altra soluzione che estromettere la comunità religiosa dall’esserne «cuore», innescando così nei religiosi/e un processo di esclusione che porta i singoli a pensare di essere ormai portatori di una cultura residua, sbiadita che fa sperimentare d’essere sempre più prigionieri di un presente angusto.
C’è anche chi esce a motivo di varie deculturate funzioni storiche della vita religiosa, portate oggi a evolvere, ai fini della sopravvivenza, con risposte misurate sull’efficienza e la razionalità di impresa tralasciando le logiche di servizio maggiormente tipiche della vocazione religiosa. Per questi, la scelta di uscire è data dal rifiuto che sui sentieri dei fondatori passeggino preferibilmente i “ragionieri” e i “vigilantes”».
C’è inoltre rigetto quando un Istituto non ha il coraggio di andare per le strade che la novità di Dio offre, finendo per portare la VR a essere un tesoro nascosto sotto il grigiore delle frasi fatte, in funzione di una vita troppo artificiale per essere evangelica, specie se ricondotte a essere subordinate al funzionamento delle istituzioni, tutte prese dalla custodia del proprio sistema organizzativo.
Propensi all’abbandono sono anche coloro che in comunità si ritrovano nei panni di chi è spettatore/trice di una continua, progressiva chiusura di opere, da avere la sensazione di trovarsi su un «binario» che porta al deposito, per cui viene loro da pensare che l’unica soluzione sia quella di scendere dal «treno», avendo ancora un’età che consente loro di riformulare una diversa ipotesi di futuro.
Portati allo stesso esito sono anche non pochi di coloro che hanno vivo il desiderio di qualcosa che soddisfi la sete di significato in ciò che fanno, le cui istanze di novità, in questi ultimi decenni, hanno covato e gridato nel loro profondo, senza mai essere state istituzionalmente aiutate – se non verbalmente – a trovare i modi sociali in cui esprimersi: religiosi/e che paradossalmente sperimentano che per loro, i luoghi meno ospitali sono le proprie comunità.
A ispirare l’abbandono può essere anche il servizio dell’autorità di un sistema quasi sacralizzato, categorico, tendente talvolta a quell’ «autoritarismo che lede la vitalità e la fedeltà dei consacrati per il fatto che – è detto in «Vino nuovo in otri nuovi» – specialmente in campo religioso, non è accettabile ciò che viene presentato in termini imperativi, normativi, inglobanti o autoritari». Situazione questa che «favorisce infantilismi pericolosi e potrebbe impedire la maturazione globale della persona».
Non sono pochi inoltre coloro che escono perché consapevoli che la vita evangelica è altra cosa dall’essere mantenitori di una spiritualità compassata e cupa vigilanza ascetica, erede di forme destoricizzate, ripetute acriticamente in funzione di un profilo di vita che gira attorno a se stessa. Persone che preferiscono una vita, che per essere evangelica debba far trasparire una fraternità aperta in cui sia possibile restare figli e figlie del proprio tempo, della società e della cultura in cui si è immersi, per far emergere nella propria esistenza il modo evangelico d’essere, proprio di ogni vita cristiana.
Infine non si può escludere che tra coloro che scelgono di uscire non ci siano anche coloro che anni dopo si sono ritrovati in un progetto di vita che non era il proprio, per una scelta, fatta in buona fede, nell’adolescenza o giovinezza, con una non esatta percezione della propria identità vocazionale.
Rino Cozza csj