Antoniazzi Elsa
“Pronta a tornare se i fratelli talebani lo vorranno”
2021/10, p. 35
Per ricevere notizie e testimonianze dalle suore che erano in Afghanistan, la prima telefonata è stata fatta a padre Matteo Sanavio, rogazionista, presidente dell’associazione Pro Bambini di Kabul (PBK), un’associazione di religiosi, voluta da Papa Giovanni Paolo II che invitò ad occuparsi dei bimbi afghani, soprattutto disabili. Il progetto coinvolge diverse congregazioni che hanno unito la disponibilità di suore a vivere in una comunità intercongregazionale a Kabul con turni di alcuni anni e l’impegno economico degli istituti.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
"Pronta a tornare se i fratelli talebani lo vorranno"
Per ricevere notizie e testimonianze dalle suore che erano in Afghanistan, la prima telefonata è stata fatta a padre Matteo Sanavio, rogazionista, presidente dell’associazione Pro Bambini di Kabul (PBK), un’associazione di religiosi, voluta da Papa Giovanni Paolo II che invitò ad occuparsi dei bimbi afghani, soprattutto disabili. Il progetto coinvolge diverse congregazioni che hanno unito la disponibilità di suore a vivere in una comunità intercongregazionale a Kabul con turni di alcuni anni e l’impegno economico degli istituti. E comprendiamo bene che la vita in comune non poteva essere semplice né immediata, come non lo è in situazioni di normalità, e ha richiesto impegno da parte di tutte.
Il motivo di questa scelta era legato all’impegno gravoso di una comunità a Kabul e sarebbe stato troppo grosso per lasciarlo a una sola congregazione. Non basta decidere, bisogna riuscire a stare in un contesto del genere, a partire da poter padroneggiare la lingua.
Sappiamo che in una comunità così non è facile vivere per le ovvie abitudini legate a consuetudini, a linguaggi, alla condivisione di una medesima spiritualità; il primo dislocamento per vivere una partenza difficile.
Negli ultimi tempi c’erano suor Shahnaz Bhatti, pakistana, delle suore di S. Giovanna Antida e suor Teresia Crasta, indiana, della congregazione delle suore di Maria Bambina. La loro vita, anche nel periodo precedente, era comunque carica di tensioni e doveva avere mille attenzioni: non fare proselitismo, radicarsi nella società senza dichiarare esplicitamente di essere religiose, ma è chiaro che la loro identità non poteva rimanere segreta. Due mamme dei bimbi accuditi, senza sapere di essere sentite, si confermavano nell’idea che “dovevano essere cristiane, perché solo loro fanno certe cose”. E poi la normale tensione negli spostamenti e movimenti esterni che dovevano avvenire sempre sotto scorta.
Padre Matteo ha compreso l’importanza di ascoltare voci che non fossero legate ad analisi geopolitiche, ma entrassero un po’ di più nella storia umana di quel popolo, per farci capire cosa c’era dietro a quelle scene strazianti dell’aeroporto preso d’assalto da afghani che speravano di uscire dal paese.
Tuttavia il padre non ha avuto tempo perché impegnato a collocare le diverse famiglie che sono arrivate in Italia con le suore.
Già questo ricorda che quel dramma non è stato chiuso, neppure per chi è arrivato qui. I profughi hanno comunque perso tutto e devono ricominciare, ma da dove? come? L’aiuto che ha potuto darci il presidente dell’associazione è stato quello di metterci in contatto con suor Shahnaz Bhatti, che è restata sino ai primi giorni di settembre. Le loro parole scritte è come ci avessero fatto entrare in un ciclone. Non solo hanno soddisfatto le nostre domande, ma hanno espresso la speranza che qualche comunità si aprisse all’accoglienza.
Abbiamo ripreso la sua testimonianza, data ad Asia News: la prima cosa che stringe il cuore è l’affermazione fatta dalle suore in luglio, quando si pensava che il governo afghano reggesse dopo la partenza delle forze occidentali, cioè la loro forte determinazione a restare a Kabul.
Non si prevedeva il pericolo dei mesi successivi, ma rimanere era già un gesto impegnativo, anche perché le donazioni cominciavano a scarseggiare dopo la notizia della partenza degli americani, e non solo.
Poi da luglio a settembre le cose sono cambiate totalmente. Il governo e l’esercito afghano si sono sciolti come neve al sole, e gli operatori occidentali e i religiosi sono stati oggetto di rappresaglie da parte dei talebani. A questo punto le suore, come i padri, sono diventati ricercati. Se sono sopravvissuti è stato in forza di quella casualità, di quella “fortuna” che accompagna le vicende personali durante le guerre, e anche grazie alla solidarietà della popolazione; così, per esempio, è accaduto al gesuita responsabile del Jesuit Refugee Service.
La violenza ha sempre accompagnato la vita di Kabul, ma a quel punto era semplicemente esplosa. Retate talebane facevano venire il cuore in gola con la consapevolezza che nascondersi non sarebbe servito a nulla.
Restare sarebbe stato solo esporsi a morte certa e chissà forse anche caricare un peso agli amici della comunità. Non restava che partire.
Le scene che tutti abbiamo visto in televisione bastano per farci comprendere la partenza drammatica. C’è una frase nelle ultime testimonianze di sr. Shahnaz: “non ho mai pensato di partire da sola, non ho lasciato la comunità di suore e neppure quel minuscolo gruppo di cristiani afghani.”
In quel clima di violenza assurda pensare “si salvi chi può” diventava pericoloso; e anche il gesto non naturale, ma cristiano, dello stare con chi soffre è pericoloso.
Non riusciamo a sapere nel dettaglio quali siano state le occasioni per lei e per altri operatori, come padre Giovanni Scalese, responsabile della Chiesa Cattolica, ma sappiamo che ogni occasione era preziosa, ed era una scelta forte non coglierla.
La partenza definitiva è infatti avvenuta dopo numerosi rinvii da parte delle diverse organizzazioni internazionali presenti, perché la situazione non era per nulla sicura.
Così aspettare di poter partire insieme è divenuto radicale dedizione di sé .
Alla fine saranno i talebani stessi, a scortare suor Shahnaz, padre Giovanni, le suore di Madre Teresa, i disabili che vivevano con loro, con altri cristiani e collaboratori. Forse per liberarsi di presenze senza danneggiare la propria immagine.
Dopo lo strazio di aver scritto lettere credenziali che molti chiedevano al PBK, ma che si prevedevano inutili, ora resta solo il cuore lacerato per la separazione. Il pensiero va a chi non è potuto partire: i volti più vicini di chi frequentava la scuola e di chi in diversi modi ha costruito quel tessuto vitale in cui le suore si sono inserite, di cui si sono messe a servizio. Poi la preoccupazione per la notizia, registrata da Vatican News, che i bambini spariscono ancora e che moriranno di fame.
Ora il gruppetto afghano di suore e volontari resta unito per seguire i profughi, mentre custodiscono nel cuore la possibilità di tornare, come ha dichiarato sr Shahnaz a Radio Vaticana il 3 settembre: "Pronta a tornare se i fratelli talebani lo vorranno".
ELSA ALBERTAZZI