Il Signore sta chiedendo qualcosa di nuovo
2021/10, p. 33
Non bisogna aver paura di lasciare gli otri vecchi, perché i sogni di Dio sono quelli che si insinuano nel profondo dell’umanità e non nelle pieghe istituzionali. Occorre trovare tratti nuovi, rispetto al passato, capaci di ridisegnare continuamente i propri ambiti e i propri fini.
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LA VR HA BISOGNO DI «NUOVE VIE DI NARRAZIONE»
Il Signore sta chiedendo qualcosa di nuovo
Non bisogna aver paura di lasciare gli otri vecchi, perché i sogni di Dio sono quelli che si insinuano nel profondo dell’umanità e non nelle pieghe istituzionali. Occorre trovare tratti nuovi, rispetto al passato, capaci di ridisegnare continuamente i propri ambiti e i propri fini.
La vita religiosa in questo tempo in cui la vita evangelica offre una biodiversità più ampia della VR, ha da trovare il suo specifico, ripartendo dal credere che la «tradizione» è una realtà vivente: è la vita di un principio attraverso tutta la sua storia, per cui la trasmissione della tradizione non è ripetizione ma re-interpretazione - come dice papa Francesco - e che negli incroci più importanti dell’umanità, interpellati dalle inquietudini dell’uomo post-moderno, bisogna essere presenti trovando tratti molteplici e nuovi, rispetto al passato, capaci di ridisegnare continuamente i propri ambiti e i propri fini.
Allora per non farsi catturare le energie dalla gestione del veloce declino, non rimane che accogliere l’invito che lo stesso prefetto card. Braz de Aviz ha così espresso: Il Signore sta chiedendo a voi padri, madri generali […] qualcosa di nuovo; cioè di fare qualcosa che forse non pensavate di dover fare. Richiesta che in «Per vino nuovo otri nuovi» è variamente espresso in termini che invitano a non aver paura di lasciare gli otri vecchi, perché i sogni di Dio sono in particolare quelli che si insinuano nel profondo dell’umanità e non nelle pieghe istituzionali.
Rimane la difficoltà che per un datato sistema istituzionale è ardua impresa cedere il passo a modelli nuovi perché specie il palato dei religiosi/e si è progressivamente «abituato al gusto del vino vecchio», con la conseguenza di perseverare nelle abituali convinzioni.
Oggi alcune nuove attenzioni in grado di dischiudere il futuro della VR sono riposte nella «novità della forma organizzativa» e nella «diversità del “vincolo».
Novità della «forma organizzativa»
Nel tempo di una mentalità multi-prospettica come l’attuale, è poco accettabile il monopolio della vita discepolare esclusivo di una sola forma, quella di impronta monastica risalente al IV secolo (Pacomio, Basilio), connotatasi via-via sempre più clericalmente, i cui paradigmi di vita, in qualche aspetto, sono giunti fino ai nostri giorni.
Oggi «è arrivato il tempo in cui la fraternità della Vita Religiosa ormai non dipende da un solo tipo di vita comunitaria monastico-conventuale». A dirlo è p. C. Maccise dopo una lunga esperienza di governo del suo Ordine. La sua è una espressione che viene a dire che la vita religiosa ed in particolare la sua tipica vita comunitaria, per essere trovata oggi credibile e desiderabile deve riuscire a proporre inediti schemi non «sigillati», aperti a Dio e al mondo, prendendo le distanze da se stessa: da un certo stile, da un determinato linguaggio e da un dogmatico quanto inattuale universo concettuale. È questo che abilita a restare figli/e del proprio tempo, della società e della cultura in cui si è immersi per far emergere nella propria esistenza il modo evangelico d’essere, proprio di ogni vita cristiana.
A fronte di tale situazione, a partire soprattutto degli anni ’60 del 1900, vari cristiani laici e laiche – forti delle nuove emergenti sensibilità evangeliche che specie subito dopo il Concilio si presentavano all’orizzonte – questi laici e laiche, non più disponibili, ad esempio, per una «vita di comunione» definita in prevalenza sul piano formale e giuridico, ma disponibili invece per quella in cui ognuno si fa dono e gioisce del dono dell’altro, diedero inizio a una molteplicità di altre forme di vita evangelica, organizzate sul «versante della laicità», consapevoli che tali erano nate le prime esperienze evangeliche. Lo attesta il fatto che agli inizi, Basilio (IV secolo), per sé e per i suoi discepoli, rifiutò energicamente l’uso di un titolo monastico per voler essere riconosciuti e chiamati, semplicemente «cristiani». Denominazione questa che rimanda a persone attente non soltanto ai richiami del sacro, ma anche e soprattutto ai richiami delle strade, delle case, degli ambienti di lavoro, con la capacità di vivere la trascendenza senza separarsi dal grido e dal gemito che gli altri fanno udire. Dunque con il termine «laico�� si indica il riconoscimento del valore delle realtà terrestri legato alla presa di coscienza che a fianco della rivelazione della Parola vi è una rivelazione che proviene dalle cose, dall’uomo, dai fatti; da qui il doverne tener conto, sia nella presentazione della verità evangelica, sia nella presentazione di tutta la complessità dell’umano, tanto del cuore come della ragione, aiutando a far emergere l’impronta di Dio che è in ogni creatura.
Sono queste le istanze che, specie dopo il Concilio, si incarnarono in forme leggere, non istituzionali, con alla base, quale principio orientatore, la «flessibilità», parola che rimanda alla capacità di sapersi adattare alle variazioni di quantità e qualità della domanda, estendendo la possibilità dell’esperienza carismatica a tutti coloro che lo desiderino.
Anche in queste nuove forme – come nel sistema monastico – l’elemento fondante è la «koinonia», differenziandosi però nell’interpretare l’espressione «una simul» degli Atti degli apostoli, secondo il senso più appropriato di «concordemente», anziché secondo il senso di presenza «locale», in riferimento a un gruppo di eletti che si separano dagli altri per vivere da «conviventi».
È quanto ebbe a dire J.M.Tillard, perito conciliare che si adoperò nella stesura del decreto Perfectae Caritatis: «La koinonia con i suoi assi di accoglienza e di perdono […] non va necessariamente confusa con una perpetua presenza simultanea (almeno per le comunità apostoliche) che realizza la situazione idilliaca di una famiglia dell’epoca premoderna. Essa deve trovare un ritmo in cui i tempi forti di presenza-insieme (non necessariamente quotidiani) assumano la loro importanza e la loro funzione di simbolo. Oggi, non consentire a delineare questi ritmi, significherebbe in molti casi condannare la comunità a vivacchiare in un essere comunitario male articolato. Da qui l’opportunità che la VR passi da una concezione «locale di comunità» (sotto lo stesso tetto), a una «comunionale» (essere fratelli), senza la quale la vita religiosa fallisce la finalità».
E qui una domanda: che cosa rende possibile e vero l’aspetto comunionale?
La risposta l’ha data, oltre dieci anni fa, l’allora card. Bergoglio, quando da vescovo disse ai sui preti: «L’influsso di una parrocchia, in quanto comunità-comunione, si spegne oltre un raggio di seicento metri». Espressioni con le quali ha inteso dire che sia l’identità che l’unità di un gruppo sono dati soltanto da un senso di «reciproca appartenenza» concepibile quale modello di relazioni tra persone con cui sia possibile intrattenere rapporti positivi, una comunicazione diretta, non priva di empatia, cioè con la capacità di rendersi conto di ciò che pensa, sente, vuole, chi mi sta vicino. Tutto questo porta a dire che invece i tessuti comunitari di tipo istituzionale, presentano normalmente una dinamica relazionale così debole da sembrare di avere a che fare soltanto con qualcosa di organizzativo, amministrativo, centralistico che porta a far prevalere la «normatività» sulla «normalità» dei comportamenti.
È stata proprio questa la prospettiva di Chiesa proposta dal Concilio, quella di non configurarsi come una grande organizzazione che porta a confondere comunità con «collettività» multinazionale, anziché di «comunione di comunità», ognuna fatta di persone con rapporti personali attenti al riconoscersi da un volto di benevolenza e volontà di servirsi.
Di quanto fin qui detto, la VR non può non tenerne conto nel ripensare anche la sua forma organizzativa, a partire dal ricordare che Gesù non ha mai pensato a qualcosa di simile a una religione massiva, e nello stesso tempo non ha mai pensato di fondare ristretti gruppi esclusivi sintonizzati sui parametri di una perfezione personale troppo debitrice a modelli astorici – ad esempio quelli degli Esseni – ma persone che interpretino preferibilmente la santità come il meglio di ciò che possono diventare, piuttosto del più che possono «rinunciare». Infatti l’ascesi cristiana non è rinnegare l’umanità, ma è soprattutto rinnegare ciò che impedisce di far fiorire quella fraternità che rende possibile l’incontro fatto di volti umani da guardare con il cuore. È l’essere «veri fratelli» ciò che fa respirare il profumo liberante e consolante del Vangelo, a differenza, dall’essere confratelli o consorelle, «termini – come ebbe a dire il teologo C. Theobald - che richiamano norme e osservanze che possono accompagnarsi a mancanza di spirito di fraternità», per il fatto che il prefisso «con» – in riferimento alla coesione delle persone – ha la stessa fragile consistenza che hanno tanti altri termini quali, ad esempio, con-sociati, con-terranei, con-vicini, con-nazionali, ecc.
Diversità del «vincolo»
Fino al Concilio, dire «vita religiosa» equivaleva a dire «vita consacrata», a cui ci si vincolava con voti pubblici e perpetui, previo un periodo di voti temporanei. Con il Concilio, (cfr Lumen Gentium n 44) sotto la voce vita consacrata si parla non solo di voti ma anche di «altri impegni simili» mettendo così in risalto la centralità della «sequela Christi», anziché la forma del vincolo. Questa maggiore ampiezza concettuale propugnata dal Concilio ha spinto il codice del 1983 a includere nella vita consacrata, gli Istituti secolari al cui interno non poche persone hanno soltanto i voti temporanei; come anche le «società di vita apostolica», per i cui membri non sono previsti i voti.
Ho indugiato su queste indicazioni per dire che già l’ordinamento della Chiesa prevede per la vita consacrata, una molteplicità di «vincoli», i quali fanno intravedere che la «perpetuità» o meno di questi non tocca la sostanza del vincolo stesso.
Dunque oggi il termine «consacrazione», ingloba le antiche ma anche le nuove forme (VC n.12). Queste ultime, nello stesso testo sinodale, (n.62) vengono dette nuove forme di vita evangelica. Ci troviamo dunque di fronte ad un pluralismo di definizioni che vanno a codificare rilevanti diversità organizzative, atipiche rispetto alle canoniche. Forme di vita evangelica, che esprimono una missione forte senza il peso di strutture spesso ingombranti, a differenza delle antiche che ora sono prese dal far «quadrare servizi e risorse spesso a scapito della qualità della vita consacrata».
Se si accoglie quanto fin qui detto, ci si potrebbe non stupire che oggi stia crescendo l’attenzione alla consacrazione «ad tempus», senza che ciò venga visto come diserzione ma piuttosto come opportunità data a molti altri di poter fare l’esperienza di un valore evangelico in grado di orientare, strada facendo, la propria vita. Tale indicazione si trova già nel testo sinodale Vita Consecrata (n. 56) e nella Propositio 33, e inoltre al n.37 dello strumento preparatorio del Congresso mondiale della VR (Roma 2004). All’interno dello stesso congresso, questa riflessione è stata ripresa da p. T. Radcliffe (ex Maestro Generale dei Domenicani) con queste espressioni: «Da secoli gli Ordini religiosi hanno sempre offerto altre forme di appartenenza a chi non desiderava impegnarsi per sempre».
Non si nega che tra le differenti modalità di essere discepoli ci sia una forma che intende vivere la comunione in senso «locale» e stabile, ma altra cosa è dire che soltanto questa sia la forma che oggi meglio visibilizzi lo stare costantemente con il Maestro. Fenomenologicamente esistono delle differenze, ma in ogni caso la differenza tra le diverse espressioni di vita comunitaria non consisterà nella difformità di forma o di vincolo ma nella densità di vita evangelica espressa nell’ampiezza di significazione secondo criteri di leggibilità di un dato momento culturale. Espressioni queste che non intendono mettere in discussione la significatività della perpetuità, essendo le scelte definitive un segno contro-culturale e perciò stesso importante, ma è anche vero che l’impegno temporaneo può non voler dire finché ne ho voglia. P. T. Radcliffe addusse come motivazione anche il fatto «che alcune persone entrano da noi e fanno la professione, ma che un giorno ci lasciano; non vogliamo – disse - che restino paralizzate per sempre da un certo senso di fallimento».
C’è inoltre anche da considerare che la preoccupazione circa la «fedeltà» era anche dovuta al concetto di vocazione intesa come un qualcosa di deterministico anziché il frutto di un continuo «dialogo creatore» tra Dio e la creatura, che conduce a un progetto di vita, a partire da quelle doti, capacità, attitudini che vanno a dire ciò che una persona è nella verità di sé. Era il tempo in cui a un professo perpetuo che successivamente avesse scoperto in sé delle inconsistenze vocazionali, qualche formatore dicesse: «vivi come se avessi la vocazione». Dunque nel passato la preoccupazione della fedeltà materiale sembrava prevalere sulla ricerca sincera e continua della verità, che è una forma più esigente di fedeltà. Penso che questo sia sulla linea di quanto espresso da Fr. Sean Sammon (ex Generale dei Fratelli Maristi) quando disse che se la fedeltà ha come obiettivo la qualità della sequela, «la perseveranza (intesa come continuità della forma) non è necessariamente una buona misura della fedeltà». Perciò l’incontro tra identità e autenticità, è l’unica possibilità dataci per realizzare ciò che siamo e quindi di essere felici. Inoltre se da una parte, oggi c’è la difficoltà ad impegnare il sogno per tutta la vita, dall’altra c’è la difficoltà dell’Istituzione a dare risposte contemporanee alle esigenze dello stesso sogno.
RINO COZZA, CSJ