Giudici Giovanni
"...perchè avranno in eredità la terra".
2021/1, p. 22
L’importanza della mitezza nella vita cristiana risulta chiaramente dal discorso della Montagna: la beatitudine evangelica “Beati i miti perché erediteranno la terra” deve essere letta in rapporto alla prima: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli”. Essere poveri nello spirito significa essere umili davanti a Dio, coltivando con cura l’umiltà in se stessi e di fronte agli altri. La mitezza in senso cristiano è un aspetto dell’umiltà...

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«… perché avranno in eredità la terra».
Nella “Imitazione di Cristo”, che ci consegna pensieri di grande saggezza, vi è la frase in cui si ammonisce: «Ama nesciri et pro nihilo reputari» [ama essere non conosciuto e ritenuto un nessuno] (cfr. lib. I, cap. 2, v. 15). Si tratta di uno dei più interessanti e utili inviti alla saggezza: accogliamo con pace i limiti che può incontrare la nostra vita, sia quelli che derivano dalle nostre caratteristiche, sia quelli che ci sono imposti dagli altri, sia che lo sappiano, sia che non se ne rendano conto. Si tratta di una scelta molto radicale: quando nella vita si incontrano condizioni che ti pongono nella situazione di non essere capito, quando ti viene da pensare che non vengono messe in atto, da superiori o collaboratori, delle caratteristiche positive che possiedi, allora ti trovi nella condizione di reagire con gesti o parole che manifestano reazioni di irritazione, oppure si sviluppano atteggiamenti e giudizi di squalifica verso chi pensiamo non ci capisce. Tali reazioni mostrano che la fede in Dio Padre non permea ancora la nostra vita. Proprio l’esperienza dell’umiltà ci mantiene sulla via del Vangelo in queste situazioni. È opportuno considerare che l'umiltà non contraddice l'intelligenza, l'ingegno, l'originalità, il pensiero di colui che si umilia, o viene umiliato perché non vengono riconosciuti doni o caratteristiche della persona. Al contrario rafforza la capacità di tenere in mano la nostra vita, perché mitezza e umiltà mettono al riparo la persona dall'atteggiarsi a quello che sa far bene tutto e che quindi facilmente si convince di avere in tasca la verità e le soluzioni giuste dei problemi. Ricordiamo che Gesù stesso richiama ai discepoli come Lui è vissuto. Al cap. 11 del Vangelo di Matteo, ci invita a imparare da Lui ad essere “mite e umile di cuore”.
Come possiamo descrivere la mitezza e l’umiltà che Gesù vive e ci raccomanda? Si tratta di assenza di ogni durezza, imposizione o violenza: è una particolare forma di moderazione e di calma interiore. L’aggettivo “mite” si riferisce al carattere o al comportamento di una determinata persona che è dolce, mansueta, non arrogante. Una persona è mite perché, non vantando diritti, non si contrappone agli altri, a chi gli è vicino, a chi ha responsabilità su di lui/lei. Non assume l'aria un poco contestatrice di chi si sente più importante di quanto sia riconosciuto.
L'importanza della mitezza nella vita cristiana risulta chiaramente dal discorso della Montagna: la beatitudine evangelica “Beati i miti perché erediteranno la terra” deve essere letta in rapporto alla prima: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli”. Essere poveri nello spirito significa essere umili davanti a Dio, coltivando con cura l’umiltà in se stessi e di fronte agli altri.
La mitezza in senso cristiano è un aspetto dell'umiltà; dato che addolcisce il tratto, l'espressione, il linguaggio, il comportamento globale nei confronti degli altri, e tiene lontano la durezza e la violenza, rende facili, "dolci" e gradevoli i rapporti con gli altri.
Ci possono essere persone che per carattere manifestano tali tratti, ma evangelicamente parlando essa viene dal di dentro, dal cuore, sta nell'anima, è un frutto dello Spirito, quindi è un prolungamento della dimensione della carità. Per questa ragione, come dice Gesù, ci porta a possedere la terra. Nel concetto biblico veterotestamentario la terra era l'eredità che Dio aveva promesso al suo popolo. Nella pienezza della rivelazione di Gesù, la terra come significato acquista la valenza di un'altra terra promessa: la pienezza del regno di Dio.
In questa luce potremmo tradurre la beatitudine in questi termini: “beati coloro che sono ben disposti, con ogni forma di dolcezza, verso gli altri, senza acredine, aggressività, perché costoro portano il frutto dello Spirito e della carità. Essi possederanno la terra promessa del Regno di Dio, e già da ora vivono nella fiducia e nella pace di chi si affida alla forza di Dio e non si ripromette di conquistare nulla, togliendolo agli altri!”
Ritorna l’importanza dell'esempio di Gesù nella indicazione di Matteo 11,28-29: «Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per la vostra vita».
Gesù è il mite per eccellenza. Egli è la carità che non si vanta, è esemplare nel vivere un amore per tutti, amici e nemici; rimane sempre accogliente e dolce anche se alle volte prende posizione contro peccati ed errori. La sua reazione rimane comunque disarmata e inerme; ricordiamo che rovescia i tavoli dei cambiamonete nel cortile del Tempio, e mette in discussione il vendere proprio nell’area sacra gli animali per il sacrificio da offrire al Tempio. C’è indignazione in Lui, ma non violenza contro le persone. Ed è così che seguendo ed imitando Cristo, secondo S. Paolo, «scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, perdonandovi a vicenda gli uni gli altri…» (Col 3,12-13). Il discepolo di Gesù, per realizzare la propria vocazione di cristiano, deve vivere “con ogni umiltà, dolcezza, magnanimità» (Ef 4,2).
Occorre la pazienza per essere perseveranti nella mitezza. Teniamo conto del logorio che induce nella persona la mancanza di attenzione, l’indifferenza o addirittura la durezza aggressiva che gli altri possono avere nei confronti di chi fa parte della comunità o della famiglia, e mantiene uno stile di mansuetudine e umiltà.
Per vivere questa dimensione della vocazione cristiana, occorre “rivestirsi”, come più volte chiede san Paolo, di atteggiamenti nuovi. Si tratta di mettere abiti nuovi al nostro carattere, alla nostra umanità. Sappiamo che umiltà, mansuetudine e pazienza sono frutto dello Spirito. Ma c’è una parte del percorso di rinnovamento interiore che occorre proporsi: avere il coraggio di resistere al proprio io che tende sempre ad imporsi, a prevalere, a prevaricare sugli altri...
Soffermiamoci a contemplare il mistero di Dio che ci crea, ci ama, ci vuole, e, paziente, attende che noi apriamo il cuore alla presenza dello Spirito nella nostra vita. Ci pare di essere incompresi, trascurati, messi da parte? Facciamo silenzio, abbassiamo il capo e impariamo da papa Francesco l’arte del dialogo, dell’ascolto, della preghiera. Arte che nasce da un amore vivo e concreto per le generazioni che si susseguono e per la Chiesa sgorgata dal costato di Cristo. Gesù vide le folle e ne “sentì compassione”, senza la quale a nessuno è dato di dire una parola vera.
GIOVANNI GIUDICI