Jacques F.
Il coronavirus, quasi una saga…
2021/1, p. 20
Il priore amministratore dell’abbazia benedettina di Saint-Benoît-sur-Loire racconta le vicende vissute nella sua comunità in gran parte contagiata dall’epidemia: i limiti e le costrizioni, l’esperienza della morte di alcuni fratelli e la difficile ripresa dove niente sarà più come prima.

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ABBAZIA DI FLEURY
Il coronavirus, quasi una saga…
Il priore amministratore dell’abbazia benedettina di Saint-Benoît-sur-Loire racconta le vicende vissute nella sua comunità in gran parte contagiata dall’epidemia: i limiti e le costrizioni, l’esperienza della morte di alcuni fratelli e la difficile ripresa dove niente sarà più come prima.
Non sappiamo con certezza come il virus sia entrato, forse da diverse porte. Il 14 marzo 2020, un fratello ha avuto una piccola febbre e si è isolato nella sua cella. Rientrava la sera prima dal dipartimento di Val-d’Oise, già classificato in quel momento come cluster di contaminazione: questo fratello era andato a far visita a suo padre ricoverato in ospedale e poi deceduto. Nonostante tutte le precauzioni del caso, un altro fratello si ammalava il 18, poi altri due il 21, e un altro ancora il 24, con sintomi lievi (38 di febbre, leggera tosse, fastidio ai polmoni) e senza la certezza che fosse davvero il covid. In seguito alla decisa ingiunzione del medico, l’intera comunità si è ritirata in isolamento, ciascuno nella sua cella dal 27 marzo fino al 21 aprile (cinque settimane): niente più vita comunitaria, uffici di preghiera in privato (in «solidarietà»: facevamo risuonare regolarmente le ore sia all’interno sia in chiesa). I pasti, preparati dalla trattoria dell’ospitalità, sono stati serviti su vassoi individuali e portati alla porta delle camere da quattro fratelli «presunti sani», nel senso che non manifestavano alcun sintomo. Divieto di muoversi nel monastero, tranne che all’esterno, in quanto il tempo era bello. Sono stati effettuati sei test, tutti positivi: eravamo un «focolaio» di contaminazione. Nonostante il contenimento, ci sono stati altri casi, con febbre moderata (38,2 era la norma) ma perdurante per più giorni. Alcuni hanno avuto brevi episodi di febbre a 39 e a 40, altri hanno accusato senso di costrizione toracica e di mancanza di respiro, altri (o i medesimi) sono stati infastiditi da un odore insolito, proveniente dalla parte posteriore del naso, una specie di odore di selvatico, accompagnato da una diminuzione o perdita totale del gusto e dell’olfatto, segno caratteristico del passaggio del corona certamente contrariato dal fatto di dover sloggiare.
Da dove poteva venire il contagio visto che tutti erano in isolamento? Nelle cinque settimane di crisi non avevamo avuto i mezzi per pensarci insieme. In seguito abbiamo pensato che forse proveniva dai bagni e dalle docce in comune – le celle non ne sono dotate – anche se due fratelli di turno passavano quotidianamente a disinfettare (Battericida IDOS). Soltanto sei fratelli su ventotto non hanno manifestato alcun sintomo.
Ogni giorno, il padre priore redigeva, da distribuire alla porta di ogni fratello, una Gazzetta di confinamento che riportava indicazioni pratiche (per i pasti, gli uffici, ecc.) riassumendo l’evoluzione delle condizioni di salute in comunità e le notizie esterne, in particolare i messaggi di solidarietà che arrivavano da ogni parte, tra cui un dono generoso del Priore della Grande Chartreuse che aveva inviato cinquanta bottiglie dell’elisir della Chartreuse! La gazzetta riferiva pure dell’impatto della malattia in altre comunità, ripreso da CMF. Grazie ai telefoni interni in ogni cella, il priore contattava ogni mattina i fratelli in fase attiva della malattia per sapere come stavano, come stava evolvendo la malattia, quali cure facevano, di cosa avevano bisogno, come pregavano… Nulla di drammatico era stato segnalato fino all’inizio di aprile, e il solo trattamento era Doliprane e riposo.
Decessi e ricoveri
Il mattino delle Palme, la campana funebre ci ha sorpresi: avevano appena trovato padre Bernard, abate emerito, 93 anni, pacificamente senza vita nel suo letto. Il giorno prima, nonostante una piccola febbre e una difficoltà respiratoria, si considerava in buona salute e passava un biglietto al padre priore per chiedere di uscire dall’isolamento e riprendere la vita comunitaria (pensava di essere l’unico in isolamento!). Le pompe funebri sono venute per deporlo nella bara qualche ora dopo il decesso, dopo averlo messo dapprima in una tela impermeabile, senza abluzione funebre. Sepoltura nel cimitero del monastero il giorno seguente, alla presenza di solo una mezza dozzina di fratelli, senza la possibilità di avere una celebrazione liturgica comunitaria a causa della stretta segregazione imposta dal medico.
Il nostro fratello più anziano, il padre Edmond, 97 anni, è morto nel pomeriggio del Venerdì santo, all’ora dell’ufficio della Croce che ciascuno celebrava individualmente. Era immobilizzato nella sua stanza d’infermeria da sette anni. Lo accompagnavamo, alternandoci, ai suoi pasti. Fu sepolto il giorno successivo, nelle stesse condizioni di padre Bernard.
Altri tre fratelli sono stati seriamente coinvolti e sono dovuti ricorrere all’assistenza respiratoria. Il padre Paul, 85 anni, è stato trasportato il Mercoledì di Pasqua in terapia intensiva in ospedale (risultato positivo al Covid). Già fragile nelle arterie, è deceduto il 28 aprile per emorragia interna, poi sepolto alla presenza di tutta la comunità, finalmente uscita dall’isolamento interno il lunedì 4 maggio. Un altro fratello, ammalato dalla fine di marzo, è stato portato in ospedale il 26 aprile, dove è rimasto, per quarantotto ore, nello stesso reparto di pneumatologia, insieme a padre Paul, tornato lunedì 25 maggio (dopo un mese) per rimanere nell’infermeria del monastero con assistenza respiratoria fino alla fine di agosto.
Il vissuto
Queste settimane di isolamento quasi certosino sono state vissute da molti di noi in modo positivo, come un ritiro, con tempo di lettura e preghiera, la scoperta di un’altra maniera di celebrare la Liturgia delle ore, da soli ma in sensibile comunione con i fratelli, e le campane che non cessavano di annunciare gli uffici. Esperienza di spossessamento del tempo che non ci appartiene. E un nuovo rapporto con la morte, nell’Ora provvidenziale di Dio. Fratel Luca dice di aver vissuto il miglior ritiro dei suoi cinquant’anni di vita monastica. Per alcuni, la prova è stata più dolorosa (solitudine, niente giornali, nessun accesso a internet per i computer comunitari, nessuna uscita), addirittura crocifiggente (nessuna eucarestia, nessun ufficio nella Settimana Santa, ecc.) o, anche, drammatica (angoscia, paura irrazionale). Elemento, questo, che sarà decisivo per l’uscita di un giovane professo solenne all’inizio di giugno.
La sera di sant’Anselmo è ripresa la vita comunitaria. Ma per tre settimane abbiamo indossato delle mascherine ad ogni nostro incontro, compreso all’ufficio per cantare. È un raro piacere: voci filtrate, sensazioni acustiche mutate, nebbia sugli occhiali, umidità sulla barba… Ma, nonostante questi inconvenienti, è possibile cantare. I sei che non avevano avuto alcun sintomo sono stati sottoposti a test sierologico. Si è scoperto che solo due erano negativi. Gli altri erano stati colpiti senza sintomi.
Il giorno di Pentecoste abbiamo aperto la chiesa per accogliere un’assemblea di fedeli rispettando le norme draconiane prescritte per l’apertura al culto. Nella navata della basilica di san Benoît-sur-Loire, che può contenere seicento fedeli, ne abbiamo ricevuti centocinquanta.
E dopo tutto questo?
O meglio: e adesso?
Perché non è ancora finita… In questo tempo di ritorno della pandemia e quindi di nuovi rischi per le comunità indenni, quale insegnamento condividere a partire dalla nostra esperienza di Fleury? Attingendo al suo carisma, la vita monastica ha qualcosa da dire? Il covid-19 non assomiglia ad alcuna malattia conosciuta. I suoi primi sintomi sono diversi, spesso deboli e poco caratteristici per cui è difficile una diagnosi senza test (che lasciano comunque dei dubbi). È molto più contagiosa rispetto alle varie influenze o gastroenteriti che colpiscono a volte le nostre comunità, per cui ne deriva l’insufficienza dei gesti di protezione e la necessità di isolamento totale per i casi accertati o dubbi, in un luogo separato, con doccia e bagno individuali. Si presenta come un agnello quasi inoffensivo, anche «buffo», ed è ciò che si è verificato per i due terzi di noi. Ci si chiede se la febbre lieve o il debole malessere percepito non siano di ordine psicologico, attivato dalla paura o lo stress, si gioca a fare i duri, si resiste all’idea dell’isolamento e durante questo tempo, trasmettiamo il coronavirus al vicino il quale non ci crede troppo nemmeno lui, ma per il quale sarà invece un lupo.
In comunità: dopo il fatto
Abbiamo lottato per riprenderci. Stanchezza persistente fino a metà estate, una sorta di depressione comunitaria che non era tristezza, ma un non detto pesante sull’esperienza e un lutto non vissuto. D’ora in poi occupiamo un posto su due nel coro e al capitolo, e non abbiamo intenzione di tornare come prima, né al refettorio dove siamo passati da un tavolo a quattro a uno di tre. Sperimentiamo il vantaggio di occupare meglio lo spazio lasciato dai posti vuoti. Volevamo fare una rilettura del nostro vissuto, ma ci siamo riusciti solo il 23 settembre con l’aiuto di un esperto di Talenthéo. Una giornata piena e la comunità al completo (o ciò che è rimasto) vi ha partecipato. Questo ha consentito una liberazione della parola e ci ha rimesso in carreggiata per i nostri progetti, in particolare quello del rinnovamento del settore interno di accoglienza che era stato programmato con gli architetti a marzo e che era stato appena riformulato il 13 ottobre con la scelta delle stanze dotate di servizi igienici (doccia e water) – cosa non prevista a marzo – e con solo undici o quattordici stanze al posto delle venti attuali. Questo significa che stiamo pensando ad un altro modo di praticare l’accoglienza. Questo modo di fare non dovrebbe forse essere allargato ad altri ambiti comunitari? come la liturgia, le occupazioni a reddito, i dipendenti laici, volontari o associati, la politica delle donazioni, la gestione delle risorse, la solidarietà tra comunità (CORREF), eccetera?
In periferia
Molte cose non sono più «come prima»: diminuzione della pratica domenicale (ridotta di un terzo o dimezzata), l’affluenza al punto vendita, l’accoglienza, i visitatori, ecc. Altre cose sono in stato di sofferenza sia in comunità (la formazione permanente, gli incontri di gruppi…) sia a livello inter-comunitario (capitolo provinciale, riunioni degli infermieri, degli economi, ecc. annullati o rimandati sine die), ma anche delle nostre congregazioni (capitoli) e della confederazione (Congresso), eccetera.
C’è anche un costo economico dovuto all’isolamento da marzo a maggio (il commercialista ha stimato una perdita o un mancato guadagno di 80.000 euro: erboristeria e accoglienza chiusi, questue domenicali, costo aggiuntivo dei pasti da parte del ristoratore, così pure per i servizi di lavanderia per lenzuola lavate in sacchi idrosolubili, mascherine, gel disinfettanti, spese funerarie…), ma anche per il fatto che la ripresa non è che al cinquanta per cento, quando va bene!
Ma più in generale…
«dopo» non sarà «mai più come prima»?
La scatola delle domande è immensa, e non ho la competenza per aprirla e tanto meno per rispondere, ma papa Francesco si è sforzato di farlo da parte sua sin dall’inizio del suo pontificato e specialmente nelle ultime encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti. Citerò solo alcune frasi di una delle ultime udienze generali: quella del 30 settembre 2020.
Questa crisi sanitaria ha messo «a nudo la grande disuguaglianza che regna nel mondo», ha detto, quella della «disuguaglianza di opportunità, di beni, di accesso alla sanità, alla tecnologia ». «Queste ingiustizie non sono naturali né inevitabili», perché esse « provengono da un modello di crescita sganciato dai valori più profondi ». «E certo non possiamo aspettarci che il modello economico» risolva i problemi messi in luce dalla pandemia. Si tratta di dare vita a «una società partecipativa – dove gli “ultimi” sono tenuti in considerazione come i “primi”». Nella «normalità del Regno di Dio», «l’organizzazione sociale si basi sul contribuire, condividere e distribuire, con tenerezza, non sul possedere, escludere e accumulare». Da questa crisi, gli uomini non potranno uscire «meccanicamente». Se no bisogna aver paura della tecnica o ancora dell’intelligenza artificiale, quest’ultima non potrà mai generare «tenerezza», segno specifico della presenza di Dio. Egli si augura che i fedeli possano continuare a camminare dopo questa pandemia con lo sguardo fisso sul Cristo, coscienti che «ogni creatura ha qualcosa da dirci del Dio creatore» e che essa è voluta da Dio. Dopo questa crisi sanitaria, il Papa invita a «“viralizzare” l’amore» e a «globalizzare la speranza alla luce della fede».
F. Jacques,
Priore amministratore
Abbazia di Fleury