Matté Marcello
Misure straordinarie, ordinarie, alternative
2020/9, p. 35
La Fase 1 della “chiusura” precauzionale introdotta a livello nazionale l’8 marzo ha provocato un effetto contundente sull’esecuzione penale in genere e sul “sistema carcere” in particolare, accendendo l’innesco di un processo potenzialmente virtuoso, ma non ancora implementato.

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CARCERE – RAPPORTO ANTIGONE
Misure straordinarie, ordinarie, alternative
La Fase 1 della “chiusura” precauzionale introdotta a livello nazionale l’8 marzo ha provocato un effetto contundente sull’esecuzione penale in genere e sul “sistema carcere” in particolare, accendendo l’innesco di un processo potenzialmente virtuoso, ma non ancora implementato.
Il Rapporto Antigone di metà anno Il carcere alla prova della Fase 2. Salute, tecnologie, spazi, vita interna, pubblicato il 10 agosto scorso, esamina con la consueta meticolosa documentazione, aggiornata al 7 luglio, le condizioni di vita durante il periodo della “chiusura”. In un capitolo successivo indaga le condizioni di vita post-Covid19 in 30 istituti tra i più grandi d’Italia alla ricerca di possibili percorsi virtuosi da incoraggiare.
Pandemia Fase 1
Bisognerà considerare in premessa che la prima fase della chiusura ha visto la drammatica coincidenza temporale (tra il 7 e il 10 marzo) delle rivolte che hanno danneggiato – a volte devastato – le strutture e le condizioni di vita in alcune carceri. L’indagine ha rilevato una correlazione tra l’esplosione delle rivolte e il numero di ore trascorse ordinariamente al chiuso delle “stanze di pernottamento” (che tali dovrebbero essere).
Il DPCM “Cura Italia” prevedeva alcune misure rivolte a contenere se non ridurre la popolazione detenuta per contrastare la diffusione del virus agevolata dagli ambienti chiusi e affollati.
Al 31 luglio si registra un apprezzabile calo delle presenze in carcere, iniziato prima della chiusura, consolidato a fine aprile (53.904) e stabilizzatosi in seguito (fine luglio: 53.619).
Il tasso di affollamento resta nella media superiore alla capienza (106,1%; 119,4% un anno fa); in 24 istituti si supera il 140% e in 3 addirittura il 170%. Va però tenuto conto che l’affollamento reale è più alto perché, in seguito alle rivolte e alla pandemia, sono stati chiusi interi reparti rendendo inutilizzabile un certo numero di posti. Per un’osservanza almeno formale delle norme sul distanziamento è necessario scendere almeno sotto le 50.000 presenze totali.
In termini assoluti, le cifre della pandemia in carcere non suscitano allarme (287 positivi in totale al 7 luglio). Hanno perso la vita per causa diretta del Covid19 4 detenuti, 2 agenti di polizia penitenziaria e due medici operanti in carcere. In termini relativi, il tasso di contagio tra la popolazione detenuta supera di poco quello nazionale.
A suscitare un allarme maggiore è l’effetto indiretto sul tasso di suicidi, cresciuto nel periodo della chiusura. «Sono 34 i suicidi che hanno avuto luogo dall’inizio del 2020 fino al primo agosto (l’anno scorso in questo periodo erano stati 26, quando la popolazione reclusa era di varie migliaia di unità in più)». Si deve aggiungere che il tasso di suicidi nelle carceri italiane è stato, nel 2019, di 8,7 su 10.000 detenuti, mentre nel Paese l’indice è di 0,65 su 10.000 abitanti.
Insufficienza delle misure in emergenza
Tra le misure più efficaci introdotte o amplificate durante il periodo di chiusura vi è la possibilità delle video-chiamate, concesse in alternativa ai colloqui familiari inizialmente esclusi e comunque resi difficili dalle norme prudenziali. Il Rapporto insiste sull’opportunità di rendere permanente l’utilizzo delle tecnologie informatiche, sia per i colloqui familiari, sia per i percorsi scolastici. La familiarità con le risorse informatiche ha peraltro una considerevole valenza in ordine alla risocializzazione. «L’analfabetismo informatico è quanto di più distante dalla possibilità di un reale e pieno rientro in società alla fine della pena. Il concetto di reclusione in sé e per sé non implica in alcun modo una limitazione nell’accesso alle nuove tecnologie».
Le misure deflattive introdotte il 17 marzo 2020 hanno avuto un effetto modesto, soprattutto a causa dell’intricato iter burocratico ignorato dalla volontà del legislatore. Il quale prevedeva, tra l’altro, il ricorso a 5.000 braccialetti elettronici, quando, secondo il Garante nazionale, disponibili ve ne erano soltanto 975. Al 20 maggio le persone che hanno effettivamente avuto accesso alla detenzione domiciliare risultano essere 3.379; i semiliberi ai quali è stata concessa la licenza straordinaria sono stati 561. Uso il passato perché queste misure di eccezione hanno terminato il loro effetto il 30 giugno.
Uno sguardo alla composizione della popolazione detenuta mostra che gli effetti delle misure deflattive previste (ma poco applicate) dal DPCM Cura Italia sono state episodiche e non hanno innescato un processo virtuoso in grado di sanare strutturalmente alcune situazioni e dinamiche che conservano al carcere un profilo afflittivo anziché risocializzante, come vogliono la Costituzione e l’Ordinamento penitenziario.
Primo indice: cresce il numero di persone in custodia cautelare. Nonostante la necessità – accresciuta dalla pandemia – di evitare il sovraffollamento nel carcere, continua e anzi aumenta leggermente il ricorso alla custodia cautelare. Le percentuali sollevano più di un interrogativo. A fine aprile 2020, i detenuti non ancora “definitivi” (condannati con sentenza passata in giudicato) costituivano ancora il 31,2% (più dell’anno precedente) benché le misure deflattive del Cura Italia potessero esser adottate soltanto a favore dei definitivi. A fine luglio la percentuale saliva al 33,2%. «In pochi mesi dunque ... continuano a calare i definitivi ma aumentano le persone in custodia cautelare, segno che sono tornati ad aumentare gli ingressi in carcere».
Secondo indice: la durata della pena detentiva. Il DPCM “Cura Italia” agevolava la scarcerazione di condannati in via definitiva a pene brevi. Così che tra marzo e maggio scorsi è cresciuta in percentuale la presenza di condannati per reati gravi. Ciononostante, a fine luglio «il 19,1% dei detenuti ha un residuo pena inferiore ad un anno, il 52,6% deve ancora scontare meno di tre anni... Queste percentuali salgono molto per i detenuti stranieri, arrivando rispettivamente al 26,3% ed al 66,6%». I detenuti stranieri sono in media più giovani degli italiani, sono imputati di reati meno gravi «e per loro la custodia cautelare è più frequente».
Misure alternative
Il dato indica che, a prescindere dalle agevolazioni previste in occasione della pandemia, una buona parte dei condannati definitivi si trova nei termini di legge per chiedere l’esecuzione penale fuori dal carcere (le cosiddette “misure alternative”).
Non esistono automatismi. Perché un detenuto possa chiedere l’applicazione di una misura alternativa (detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali) devono ricorrere alcune condizioni necessarie, come la durata della pena residua, ma non sufficienti.
La concessione di misure alternative è sempre l’esito di una valutazione sul comportamento del condannato, sia dal punto di vista disciplinare (la cosiddetta “buona condotta”), sia quanto alla revisione del proprio passato criminale, sia dalla partecipazione effettiva alle attività orientate alla formazione, al ravvedimento e alla risocializzazione. Questa valutazione è condotta dall’équipe degli “educatori” dell’istituto, dalla Direzione e successivamente dal magistrato di sorveglianza al quale spetta la decisione ultima. È un processo dalla durata variabile, allungato, durante la chiusura, dalle condizioni operative particolarmente onerose.
Risposta alla pandemia,
risposta al crimine
Le misure alternative restano la modalità più efficace e ordinaria sia per ridurre il sovraffollamento sia per migliorare le condizioni di detenzione. Secondo la valutazione del Rapporto Antigone, «posto che un detenuto costa in media 150 euro al giorno circa (costi che comprendono la retribuzione dello staff), mentre una persona in misura alternativa costa dieci volte di meno, si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro» con un ricorso più frequente – restando nei termini di legge – alle misure alternative.
Ma vi sono considerazioni ulteriori, di profilo più alto, anche restando nei termini stretti di una valutazione opportunistica. È noto che, diversamente dall’opinione diffusa, le misure alternative al carcere garantiscono un esito di gran lunga più efficace all’esecuzione penale, certamente quanto alla sicurezza. È opinione diffusa che il carcere sia la risposta al crimine più efficiente in ordine alla sicurezza sociale. I dati, per contro, riportano un tasso di recidiva (ritorno a un comportamento criminale) tre volte inferiore (16-19%) per chi torna in libertà dalla misura alternativa anziché dal carcere (63-67%). Questa opinione “incontrollata” si intreccia e si assomma alla “ideologia” del “buttare la chiave” che giustifica il carcere come strumento punitivo, retributivo, afflittivo, cioè vendicativo. Il carcere non produce per se stesso più sicurezza. Dipende soprattutto da come viene gestito e vissuto il tempo del carcere e, più ampiamente, dell’esecuzione penale, che non coincide in tutta la sua estensione con la reclusione in carcere.
Un’organizzazione diversa
della vita detentiva
Il Rapporto integra una proposta di Antigone «per un carcere costituzionale», rispettoso del principio inalienabile della dignità umana.
«La pena detentiva deve essere riempita di senso e di opportunità allo scopo di dare corpo alle prospettive di risocializzazione previste nella Costituzione e nelle Carte internazionali ... ma anche al fine di garantire la sicurezza collettiva».
«Il miglior modo per valorizzare il difficile, faticoso e importante lavoro di coloro che hanno compiti di sorveglianza nelle carceri consiste nell’affrancarli da una logica meramente custodiale e costruire professionalità integrate». Il personale sarebbe il primo ad esserne gratificato.
«La giornata detentiva va riempita di relazioni e di attività significative», prima di tutte il lavoro. «Come sappiamo nei nostri istituti non è così. I detenuti che lavorano (25,8% dei presenti alla fine del 2019) lo fanno in gran parte per l’Amministrazione penitenziaria, svolgendo prevalentemente attività assai poco professionalizzanti. Solo l’1,5% dei detenuti lavora in carcere per datori di lavoro esterni».
Apertura, conoscenza, inclusione, attività e non-violenza sono, secondo il Rapporto, le piste da percorrere oltre e a prescindere dalle emergenze della pandemia.
Marcello Matté