È quel che (non) è
2020/9, p. 33
Convegni, analisi e studi si sono succeduti negli anni, ma non hanno risolto il «caso
vita religiosa». L’intenzione qui è di muoverci da una prospettiva piuttosto disattesa,
quella ecclesiologico-fondamentale.
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Testimoni
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IL CASO “VITA RELIGIOSA”
È quel che (non) è
Convegni, analisi e studi si sono succeduti negli anni, ma non hanno risolto il «caso vita religiosa». L’intenzione qui è di muoverci da una prospettiva piuttosto disattesa, quella ecclesiologico-fondamentale.
È ridicolo dice l’orgoglio; è avventato dice la prudenza; è impossibile dice l’esperienza; è quel che è, dice l’amore (Eric Fried).
Giovanni Paolo II, invitando la barca della Chiesa a spingersi al largo del nuovo millennio, indicava il Concilio Vaticano II come «sicura bussola» (cf. Novo Millennio Ineunte 1, 57). Senza qui poterci addentrare nel vasto tema della ricezione conciliare, dobbiamo rilevare come per la vita religiosa il Vaticano II abbia piuttosto comportato un disorientamento se non un vero e proprio «scombussolamento»: da un lato il post-Concilio è stato certamente tempo di generoso impegno e aggiornamento, dall’altro ha visto crescere in modo inarrestabile una crisi sia numerica che identitaria, benché accompagnata da una inedita e preoccupata proliferazione di interventi magisteriali.
Convegni, analisi e studi tanto accorati quanto accurati si sono succeduti negli anni, ma non hanno risolto il «caso vita religiosa» (certamente non l’unico nella Chiesa!). Senza alcuna presunzione, ma pur senza rassegnata soggezione, per un approfondimento della questione è nostra intenzione muovere da una prospettiva piuttosto disattesa, quella ecclesiologico-fondamentale, mettendo in luce la indefinizione teologica della vita religiosa, un aspetto facilmente mal-inteso.
Di corto respiro o col fiato sospeso?
La vicenda conciliare della vita religiosa è insieme un fatto noto e un contesto remoto. La vita religiosa, presentatasi al Vaticano II in qualità di status perfectionis adquirendae, ovvero forte di una certa prerogativa sulla santità – ma anche di procura da parte del popolo di Dio –, nell’aula conciliare è stata messa in discussione nel suo plurisecolare fondamento. Il suo inedito inserimento nel De Ecclesia – per la prima volta infatti un Concilio considera la vita religiosa sul piano dogmatico-ecclesiologico e non meramente disciplinare – ha indiscutibilmente contribuito a portare alla ribalta il tema della santità, tuttavia riconoscendo successivamente l’universalità di tale chiamata. Essa è dono e responsabilità di ogni battezzato, non più grazia riservata a coloro che intraprendono la speciale via dei consigli evangelici al di sopra della comune via dei precetti.
Si potrebbe dire che all’interno della tradizionale scansione teologica di fides et mores, la vita religiosa si configurava come elemento verticistico moralmente esemplare, speculare e al tempo stesso funzionalmente strutturale a una forma di Chiesa a forte impianto gerarchico-dottrinale. Non è quindi affatto scontato che nel momento in cui il Concilio procedette ad una riconfigurazione comunionale della forma ecclesiae, la vita religiosa ritrovasse d’emblèe una netta collocazione.
L’acceso dibattito che vide i padri conciliari contrapporsi su posizioni spesso distanti condusse in effetti ad esiti piuttosto incerti. Numerosi i tentativi di far quadrare il cerchio o, come direbbe Papa Francesco, di arrotondare il poliedro ecclesiale (cf. Evangelii Gaudium 236). Nella prospettiva della comune vocazione battesimale si allargarono inclusivamente le maglie dei consigli evangelici, svincolandoli dai precetti e non riservandoli più ai soli religiosi (cf. LG 42). In tal modo si intendeva ribadire l’universalizzazione della santità, ma al contempo si ricorreva ad elementi che di fatto restavano quelli tipici della forma di vita religiosa.
Oppure si definirono i religiosi e le religiose adottando l’uso di comparativi – «per poter raccogliere un frutto più copioso… consacrati più intimamente… imitando più fedelmente» (cf. LG 44) – ma, se è vero che per evitare una nuova esclusività non si introduceva mai il secondo termine di paragone – mai è esplicitato rispetto a chi i religiosi sono/fanno qualcosa di più –, tuttavia parlando di un plus si ricadeva inevitabilmente in quel modello gerarchizzante che il Concilio in realtà faticava ad abbandonare del tutto perché potentemente radicato nella storia del secondo millennio della Chiesa.
Anche sul versante dell’affermazione di una specificità della vita religiosa, timoroso di un suo implicito svilimento, le soluzioni sono di corto respiro. Ad esempio si ricorse ad un «rincalzo» essenzialista attraverso la categoria di consacrazione a speciale titolo (cf. LG 44). La pressante istanza di garantire uno status ontologico alla vita religiosa condusse a relativizzare la più promettente categoria di segno escatologico, ritenuta invece debole e insufficiente a dar ragione del valore di santificazione e redenzione in sé della vita religiosa.
Dall’elaborazione di Lumen gentium, al cui sesto capitolo i padri affidarono la qualificazione teologica della vita religiosa, risulta dunque una sostanziale indefinizione della stessa, tanto che le due affermazioni ecclesiologicamente più incisive (e decisive!) sono espresse in negativo: per quanto la vita religiosa appartenga alla vita e alla santità della Chiesa, essa non riguarda la sua struttura gerarchica (cf. LG 44), lo stato religioso non è intermedio tra quello dei chierici e dei laici (cf. LG 43).
Nel post-Concilio si è cercato in diversi modi di risolvere contenutisticamente questa imprecisione: insistendo in senso identitario sul tema della consacrazione; introducendo la categoria di carisma; provvedendo a che la redazione delle nuove Costituzioni «distillasse» un proprio contenuto spirituale da «instillare» nella vita attraverso dei direttòri applicativi; producendo una teologia più della/sulla vita religiosa che non una teologia dalla vita religiosa.
Sembra a questo punto pertinente provare a percorre un’altra via, ovvero assumere teologicamente proprio quel dato di inevasa indeterminazione contro cui ci si è scontrati fino allo sfinimento. Non è possibile prendere positivamente atto che la costituzione sulla Chiesa non sia riuscita a precisare sul piano dottrinale l’essenza della vita religiosa? La formulazione negativa dell’innesto ecclesiale della vita religiosa non apre piuttosto ad uno spazio di indagine della relazione senza confusione e senza separazione (sempre due negativi!) tra vita religiosa e popolo di Dio? Anziché il sogno infranto di una rilevanza ecclesiale per la vita religiosa, non si tratta di una vera e propria frattura instauratrice?
Per il futuro della vita religiosa vale forse la pena – ma anche la gioia! –, di imparare ad abitare una domanda sospesa.
Un aggiornamento eretico o escatologico?
L’improbabilità di isolare un nucleo incandescente da cui scaturisce la vita religiosa non l’abbandona alla deriva. Una direzione viene tracciata da Perfectae caritatis che, per quanto spesso ritenuto un “figlio minore” del Concilio, si dimostra ben più di un semplice decreto attuativo. Infatti mentre i suoi estensori assumono coscientemente l’indisposizione di una condivisa definizione dogmatica, spostano la riflessione sulla vita religiosa in un terreno più consono e a lei familiare, quello della ragione pratica.
Particolarmente orientativo per il nostro discorso è il paragrafo del decreto in cui è messa a tema l’accommodata renovatio (aggiornamento) della vita religiosa. Adottando un approccio fenomenologico, che non aspira a circoscrivere il contenuto della vita religiosa, viene piuttosto istituito un appassionato processo di riforma che non sarà solamente un ritorno alle fonti e neppure un mero adattamento alle mutate condizioni dei tempi (cf. PC 2): né l’uno né l’altro, ma una forma imprevedibile che prenderà corpo storico in un terzo capace di unire allo stesso tempo (simul) i due movimenti. L’aggiornamento non è pertanto un intento ma un méthodos, un segnavia che si avvale di un doppio principio: ritorno allo spirito primitivo e adeguamento alla contemporaneità avviano il processo di vita religiosa senza più collocarla in uno spazio gerarchico (cf. EG 223).
Difficile, si penserà, tanto a dirsi e quanto più a farsi. Sì, difficile abitare una tensione piuttosto che seguire una risoluzione. La storia dell’attuazione post-conciliare dell’aggiornamento lo testimonia, esposta come è stata alla sottile tentazione di una interpretazione unilaterale e in fondo “eretica” del principio. Per dare un nome a queste lectiones faciliores possiamo infatti richiamarci alle due sottili eresie contemporanee denunciate da papa Francesco: gnosticismo e pelagianesimo (cf. Gaudete et Exsultate, 35-62). Nella prima sembra esser caduto un tentativo di rinnovamento che ha insistito in modo ideologico e archeologico su un ritorno alle fonti garante di una rassicurante ascendenza spirituale.
Una versione «neoreligiosa» dell’eresia pelagiana affiora invece nell’affaccendato adeguamento ai tempi, non esente da un approccio opportunista e idealista: vita religiosa ricca di spirito ma senza carne, la prima; vita religiosa piena di buona volontà ma senza umiltà, la seconda (cf. GE 37, 49). L’una e l’altra opzione eliminano di fatto la tensione generativa dell’aggiornamento, instaurando, come è proprio dell’eresia, una «perfetta» fissità, sia essa gnostica o pelagiana, preferendo cioè una scelta divergente nota invece che convergere in forme di vita altre, simul nova et vetera (cf. Mt 13,51).
Con l’ecclesiologica indefinizione e il metodologico aggiornamento della vita religiosa il Concilio ha indicato, e per quanto possibile delimitato, quello spazio aperto di navigazione in cui soffia l’imprevedibile vento dello Spirito che non si sa da dove viene né dove va, ma a cui si può issare la vela (cf. Gv 3,8). Quindi non uno spazio etereo e garantito di uno status essenziale che sorvola la storia, ma lo spazio, o meglio ancora il tempo (cf. EG 222) di una perseveranza/hypomonè (cf.LG 46) che abita l’elementarietà della vita in uno status tensionis escatologico.
«Escatologia in che senso, o meglio, di che segno?», si chiederà (cf. LG 46). Ma qui si aprirebbe un altro “disorientante” discorso, per non fare rientrare dalla “finestra escatologica” quella superiorità della vita religiosa uscita dalla “porta santa” del Concilio!
fr. Filippo Gridelli ofmcap