Cozza Rino
Un possibile ambito di profezia
2020/9, p. 29
Come elaborare un’immagine non svalutata «della condizione di fragilità che possa aprire la strada a una interpretazione della anzianità, non solo in termini di declino e di degrado ma come un diverso modo di essere dell’umanità»?

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L’ANZIANITÀ NELLA VITA RELIGIOSA
Un possibile ambito
di profezia
Come elaborare un’immagine non svalutata «della condizione di fragilità che possa aprire la strada a una interpretazione della anzianità, non solo in termini di declino e di degrado ma come un diverso modo di essere dell’umanità»?
Per rispondere a questa domanda serve un discorso che prenda le distanze dalla mentalità corrente portata a considerare la vecchiaia come prodotto difettoso della società tanto da giustificarne il confinamento, per farne piuttosto un ambito di possibile profezia, contrastando la costruzione di una società che attribuisce l’umanità a certi gruppi, negandola ad altri.
Per la trattazione del tema prendo lo spunto da varie domande (via mail) di religiosi e religiose, giovani e anziani, ai quali rispondo con queste riflessioni che partono dal fatto che oggi il sentirsi appartenenti non proviene in ultima analisi da argomentazioni teologiche ma piuttosto da esperienze concrete di vita evangelica buona e bella.
Si tratta, di fronte all’attuale protrarsi della vita, di prendere atto che le età da vivere si stanno moltiplicando: se si considera che a sessantacinque anni, ancora se ne potrebbero avere da vivere una ventina e più, si può parlare di «vecchi giovani» per i quali rimangono integre le capacità di apprendimento se motivati ad apprendere.
Per papa Francesco - scrive padre.O.V - «la società oggi non si divide in oppressi e oppressori, ma tra inclusi ed esclusi, e i primi di questi sono gli anziani».
Cosa si intende per anzianità?
Per anzianità si intende quel periodo della vita che inizia con l’accorgersi che le conoscenze e le capacità accumulate nel passato stanno perdendo di attenzione e interesse da parte degli altri, per il fatto che l’abilità, diversamente da un tempo, non è data dall’accumulo di esperienze ma da quanti adattamenti uno è capace; dunque dalla duttilità e flessibilità che ad un certo momento della vita non sono più connaturali, per la tendenza a ricorrere piuttosto a conoscenze accumulate in precedenza, anziché ad approcci innovativi.
Ne consegue che il non essere riconosciuti e valorizzati nelle competenze acquisite fa passare a una condizione di identità indefinita, dovuta alla perdita del ruolo produttivo nel quale spesso ci si identificava totalmente, non avvedendosi che questa nuova condizione potrebbe invece trasformarsi in un ambito di profezia, con l’elaborare e praticare una cultura, dentro e fuori casa, che consideri la fragilità, come un aspetto costitutivo della dignità umana.
Come è vista dai giovani e meno giovani
In buona parte, i meno giovani sono visti come eredi di una formazione succeduta al tempo della crescita lineare all’interno di un mondo culturale fatto di verità e di usanze credute intangibili e che attraverso l’interiorizzazione pluridecennale sono diventate una sorta di “super-io”. Questo tipo di certezze li ha resi incapaci di comprendere e di adattarsi ai rapidi cambiamenti, portandoli a rifugiarsi in una qualche figura identitaria del passato, per la quale fedeltà significava “ricalcare” piuttosto che reinventare. Cosa comprensibile per l’istituzione religiosa, avendo forte come riferimento il momento culturale (antropologico, teologico, sociologico) del momento di maggior enfasi – quello delle origini – riferimento oggi accentuato dal fatto che l’età media di questo corpo sociale è sul versante della memoria, che significa difficoltà a liberarsi da quelle storicizzazioni che condizionano la fedeltà all’oggi. Dunque un certo numero di anziani sono visti come figli di una cultura che non c’è più, adeguati a convenzionalismi esterni, incapaci di reagire di fronte all'inaspettato e di liberarsi dai meccanismi abituali e di routine.
Stante questo – chiede fratel E.S - «che cosa si attendono i giovani, dai più anziani?»
Si attendono che non si chiudano in «una certa melanconia collettiva (essendo maggioranza) che si manifesta con sintomi di insoddisfazione, di stanchezza esistenziale, di delusione e disincanto nei riguardi del futuro».
Che cosa fare per combattere tutto ciò? Potrebbe essere utile passare dalla sofferenza all’umorismo che non è soltanto un meccanismo di fuga, un correre via, ma spesso indica che si riconosce l’imperfezione, e si cerca di integrarla positivamente nella vita con un sorriso. In verità colui che possiede la difficile virtù di saper ridere di se stesso e degli altri guadagna in libertà interiore. Quella libertà che consiste nel lasciare che le cose esistano, partendo dal chiedersi: puoi cambiare qualcosa? cambiala! Non puoi cambiarla? lascia che esista! Infatti si soffre molto perché si resiste molto. Libertà inoltre come via al perdono: perdonare non è dimenticare ma slegarsi, accettare tranquillamente il fatto di non essere graditi a tutti.
Tuttavia credo che anche tra i giovani non siano pochi coloro che come fratel F.M. potrebbero ammettere che «ci siano anche molti anziani con cuore di giovani». Anziani che si ritrovano nel dire di R. Garaudy il quale ribadiva che imparare ad essere giovani è un lunghissimo tirocinio. Lo diceva probabilmente avendo in mente il dire di J.H. Lacordaire: «non sono invecchiato, ho solo conosciuto molte giovinezze successive». Sulla stessa linea era J. Guitton, il quale diceva: «suppongo che si chiami vecchiaia l’ultima forma di giovinezza».
Che non si invecchi solo per il passare degli anni, ma soprattutto perché si disertano i propri ideali, si intravede nel dire di chi dichiara: «ho ancora cose da fare, conoscenza di me e del mondo da arricchire, sentimenti e affetti da esprimere nel presente», perché ricambiare affetto non costa fatica, anzi dà riposo e beatitudine.
Dunque l’anzianità non è necessariamente un periodo alienato, ma può essere un tempo di espressività diversa avendo proprie sfide che possono diventare delle opportunità, le quali fanno sì che non si sia anziani finché i rimpianti non prendono il posto dei sogni. Soltanto così è possibile rimanere espressivi anche dopo il mezzogiorno.
Sfide diventate opportunità
«La seconda parte della vita ha proprie sfide che possono diventare altrettante opportunità per una più profonda crescita spirituale, etica, culturale e soprattutto profetica» (fr.M.C.)
È l’età in cui non è sufficiente chiedersi «che cosa non possiamo più fare», ma piuttosto «che cosa possiamo fare oggi» a partire da ciò che gli occhi vedono scrutando in simultanea l’orologio della storia, della Chiesa e del mondo. È un tempo in cui si presenta anche un nuovo modo di vedere la vita, di ripensare i concetti di attività e di passività, di sforzo e di accettazione, di forza e di debolezza, di dignità e di umiltà, di energia e di quiete.
Gli anni in cui si è avuta una funzione sono stati integrati alla propria persona e possono ormai esistere senza attaccarsi a un potere. La loro libertà di cuore e il loro modo di accogliere limiti e debolezze fanno sì che risplendano in quanto persone, anche se con vari cerotti incollati sulle proprie fragilità ma consapevoli che ogni ferita – come scriveva Seneca – è stata una chiamata a uscire dall’illusione di onnipotenza annidata nell’inconscio fin dall’infanzia, quando bastava gridare perché venisse la mamma con il latte.
Un tempo prezioso per sé e per gli altri
Questa parte della vita è anche un tempo «rivelante», in cui assume grande risalto quanto c’è di migliore (e di peggiore) in noi. Potrebbe essere una cattedra, la più vera per sapere che cosa è stato vivere nella vita religiosa e che cosa ne abbiamo tratto; aspetti che per portare frutto hanno necessità che le persone si ritrovino in un contesto di vita – una comunità – che non calcoli soltanto tutto ciò che l’anzianità toglie, ma quanto può ancora dare, per portarsi così ad essere il tempo più prezioso per sé e per gli altri. Per cui se la profezia di cui oggi c’è maggiormente bisogno è vivere e annunciare la misericordia e la tenerezza di Dio, da questo non possono essere esclusi coloro che non solo per «grazia» ma, data l’età, anche per «natura» sono esseri di dolcezza e di misericordia, simboli della compassione e del perdono. Certo, perdite da subire ce ne sono, anche se non uguali per tutti; ma ciò che conta è non portare il lutto di sé, sprecando il dono di vivere con il rimpiangere ciò che non si è più, a partire dal fatto che la seconda parte della vita ha proprie sfide che possono diventare altrettante opportunità per una più profonda crescita culturale, spirituale ed etica.
Papa Francesco con l’abbattere tanta parte dell’universo ideologico del passato e indicando diverse prospettive di futuro sta mettendo in risalto che l’età avanzata è privilegiata nell’essere generatrice di nuova coscienza così da poter affermare che l’anzianità è dove si presenta un nuovo modo di vedere la vita.
Altrettanto vengono a dire le vite di religiosi quali, ad esempio, C.M. Martini, K. Kasper, K. Rahner, J.R. Tillard ed ancora D. Turoldo, C. Carretto, attraverso i quali non è solo il passato che viene alla luce ancora oggi, ma la possibilità di un modo nuovo, più vero di vivere il futuro. Persone la cui visibilità convincente oltre ad essere stata prima di tutto la potente umile testimonianza di vite che parlano di Dio all’uomo d’oggi, sono state persone che sono riuscite a penetrare nel profondo di ciò che le circondava creando un contatto tra realtà e sogni, arrivando a comprendere il significato di qualche aspetto inedito della realtà, offrendoci le lenti giuste per mettere a fuoco uno dei volti invisibili di essa.
Il privilegio di essere l’età più libera
L’anzianità infine ha il privilegio di essere l’età più libera in cui il «fare per obbligo» può mutarsi nel gusto di attività culturali, artigiane, talvolta artistiche. Una libertà che le permette di parlare di sé magari con ironia, a partire dal fatto che la giovinezza non è solo un periodo della vita, ma è anche una forma mentale, una qualità dell’immaginazione.
Se questo si avverasse sarebbe anche possibile trovarsi con persone che liberate dalle funzioni e dalle responsabilità, ritrovano «la libertà del cuore e il modo di accogliere limiti e debolezze portandole a risplendere nella comunità in quanto esseri di dolcezza e di misericordia, simboli della compassione e del perdono».
Due domande
«Una vita religiosa assorbita dal prestare servizi, è preparata a farsi carico di quella porzione sempre più in crescita di religiosi che non rispondono più ai criteri di utilità «aziendali»?» (fr. A. N.)
A questa domanda ne associo un’altra che può aiutare a comprendere meglio la precedente: «Le comunità unificate (o accorpate) a cui sempre più la vita religiosa ricorre, sono in risposta al bisogno delle persone oppure a esigenze di un sistema funzionale?» (sr. I.N.)
In questo dire traspare il dubbio che tra coloro che considerano la vecchiaia come prodotto difettoso della società, ci sia anche la vita religiosa. È questo il sentire di un numero crescente di religiosi/e i quali temono che anche negli Istituti, nel ridefinire le comunità ci possa essere un approccio fondato su una condizione deficitaria dell’invecchiamento che finisce per rafforzare nell’anziano il sentimento di estraniamento da sé e dagli altri.
Da tutto ciò nasce una domanda: come progettare delle comunità che siano un’immagine non svalutata «della condizione di fragilità; comunità che possano aprire la strada a una interpretazione della vecchiaia, non solo in termini di declino e di degrado ma come un diverso modo di essere dell’umanità»?
A questo fine servono comunità ove si trovino persone con cui stabilire un dialogo, intrattenere rapporti positivi, una comunicazione franca, una dimensione familiare dentro e fuori casa. Per cui se la conquista dell’umanità di ciascun religioso/a è avvenuta nelle relazioni e grazie alle relazioni con gli altri, quando questa umanità viene messa in discussione dal decadimento fisico e dalla malattia, è solo in ambienti a buona sensibilità relazionale che essa può essere tutelata. È allora comprensibile quanto possa risultare destabilizzante sul piano dell’identità della persona un’esperienza di estraniamento vissuta in un contesto sociale (la comunità) che fortifica questo sentimento di diversità.
Nella vita religiosa le attuali risposte di tipo sanitario, abitativo e alimentare sono certamente quasi ovunque adeguate al bisogno della persona anziana; minore è invece l’impegno a fare spazio alle «biografie», erroneamente ritenute meno importanti della biologia. Ma è solo attraverso la restituzione della persona alla «sua storia» che è possibile rispettare il carattere irrepetibilmente individuale di ogni esperienza soggettiva, diversamente si finisce con l’alimentare meccanismi di annullamento e negazione attraverso i quali si attua la segregazione. Si tratta di ricercare le condizioni che possano soddisfare l’aspettativa di ognuno di continuare ad essere considerato la persona che è sempre stata.
Rino Cozza csj