La Mela Maria Cecilia
La Vergine Maria, celeste abbadessa e superiora di monasteri e conventi
2020/9, p. 21
La Madre di Dio ci è donata quale modello da imitare, è la via che ci porta a Gesù, la Madre che ci è sempre vicina, è la “donna eucaristica”, secondo la felice espressione di san Giovanni Paolo II, che ci introduce nel Tabernacolo. A lei sono affidate le chiavi del monastero e di tutti i cuori.

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MECTILDE DE BAR E LE BENEDETTINE DEL SS. SACRAMENTO
La Vergine Maria, celeste abbadessa e superiora
di monasteri e conventi
La Madre di Dio ci è donata quale modello da imitare, è la via che ci porta a Gesù, la Madre che ci è sempre vicina, è la “donna eucaristica”, secondo la felice espressione di san Giovanni Paolo II, che ci introduce nel Tabernacolo. A lei sono affidate le chiavi del monastero e di tutti i cuori.
Tra le intuizioni più belle della nostra Fondatrice, madre Mectilde de Bar (1614-1698), vi è quella di aver affidato alla Vergine Maria le chiavi del monastero e di tutti i cuori. La Madonna è, pertanto, abbadessa delle Benedettine del SS. Sacramento; è Colei a cui viene consegnata l’intera vita monastica, perché sappia imprimerle il vero amore a Cristo e all’umanità. «Questa santa Madre del Verbo adorabile è anche la vostra Madre, la vostra Abbadessa, la vostra unica e legittima Superiora. Quelle che lo sono, non sono che al suo posto. Indirizziamoci alla sua materna bontà, presentandole tutti i nostri bisogni spirituali, temporali e corporali. Ah, mie sorelle, preghiamola di prenderci sotto la sua santa protezione! Supplichiamola tutte per la sua grande santità, di avere pietà delle nostre debolezze e delle nostre miserie».
Quello che più stupisce di madre Mectilde è la freschezza del pensiero e l’andare direttamente al cuore della spiritualità mariana senza orpelli, smancerie e deviazioni devozionistiche. Si tratta di una riflessione biblica e teologica, ma anche liturgica, ancorata a quella che è la vera interpretazione del ruolo della Vergine Maria nella storia della salvezza. La Madre di Dio ci è donata quale modello da imitare, quale mediatrice potente, quale canale di grazie perché Ella è, in quanto ci conduce al Figlio suo, centro e significato di tutta la nostra esistenza. Maria è la via che ci porta a Gesù, la Madre che ci è sempre vicina, è la “donna eucaristica”, secondo la felice espressione di san Giovanni Paolo II, che ci introduce nel Tabernacolo, quale camera nuziale dove lo Sposo crocifisso e risorto ci riabilita e santifica. «Andiamo a Gesù nel cuore verginale di Maria e supplichiamo ardentemente questa Madre di bontà di renderci partecipi della sua purezza e umiltà, per poter anche noi partecipare alle grazie singolari che lei ha ricevuto. In virtù del sacro titolo di Madre di Dio, ella diviene il rifugio dei peccatori e la forza di tutte le anime che si dedicano alla virtù».
Nel solco dell’antica tradizione monastica
Non doveva certamente essere estranea a madre Mectilde la notizia che nel monastero di Marcigny, nella provincia di Lione, quando nel 1061 vi si instaurò la vita monastica secondo le nuove direzioni date dalla riforma di Cluny, vi erano 99 monache, mentre il centesimo posto del coro era riservato alla Madonna. San Paolo VI, nel Discorso alle madri Abbadesse e Priore delle congregazioni benedettine d’Italia (28 ottobre 1966), ha fatto riferimento a questa antica tradizione monastica augurando infine: «che la Madonna presieda alle vostre rispettive comunità: le protegga, le edifichi, le riempia della presenza del suo Figlio divino, Gesù Cristo».
Una tradizione dunque risalente già all’XI secolo e che ha trovato poi riscontro in diversi monasteri benedettini anche maschili; il noto studioso dom Jean Leclercq osb, narra di un abate che affidava tutto alle mani della Vergine Maria: “Ella restava alla testa del monastero”.
Era consequenziale che nella nuova fondazione, ispirata all’adorazione del SS. Sacramento e voluta fortemente dalla Vergine Santissima, Mectilde de Bar riservasse il ruolo ed il posto di abbadessa a così grande Superiora, prendendo per sé e per le altre superiori il nome di priora. Rimandiamo all’approfondito studio fatto da una nostra consorella che contestualizza il carisma mectildiano nel solco della tradizione patristica e monastica e nel contesto della spiritualità del suo tempo, soprattutto quella di Pierre de Bérulle, Giovanni Eudes, Charles de Condren, Jean-Jacques Olier. Tra l’altro, nel periodo in cui visse madre Mectilde, il ‘600 francese noto come il grand siècle, era fervida la devozione mariana e la consuetudine della schiavitù, una sorta di particolare consacrazione attuata dai cosiddetti “spirituali” quali Luigi Maria de Montfort, Giovanni de Bernières, Enrico Maria Boudon e altri ancora.
Andando ancora a ritroso, richiamiamo inoltre la visione interiore di santa Gertrude (1256-1302), monaca cistercense del monastero tedesco di Helfta, la quale nel Terzo esercizio di sposalizio e consacrazione, rivolge a se stessa questo invito: «Ora prega che il Signore, nella sua bontà, ti affidi a sua Madre, la Vergine Maria, pura come un giglio, come se fosse lei l’abbadessa, perché ti custodisca ed egli possa riceverti un giorno dalla mano di lei». Maria viene inoltre designata come Superiora non solo nel mondo benedettino, ma anche in altri ordini, quale ad esempio il Carmelo riformato. Vogliamo attenzionarne qualcuno partendo proprio da santa Teresa d’Avila.
“Non sono io la priora,
ma la Vergine santissima”
Quando fu eletta abbadessa del monastero dell’Incarnazione nella sua città natale, la fervorosa riformatrice fu accolta con astio da alcune consorelle, ma ad «un tratto la battaglia era vinta. Un gruppo si staccò, e andò a prendere Teresa, l’accompagnò fino a dentro al monastero, verso il coro: e Teresa fu pari a se stessa: prese un’immagine della Madonna, scolpita in legno, la portò al seggio della priora in coro, dove lei stessa avrebbe dovuto prendere posto, e le mise nelle mani le chiavi del monastero. E poi andò a sedersi ai piedi della Madonna. Quel gesto ebbe un effetto prodigioso: con esso Teresa aveva significato molte cose alle monache riottose: “Non sono io la vostra priora – aveva detto – ma è la Vergine santissima; io sono soltanto la sua serva umile”».
Così racconta lei stessa un episodio accaduto in seguito: il 19 gennaio 1572, «la vigilia di San Sebastiano del primo anno del mio priorato all’Incarnazione, mentre stavo per cominciare la Salve Regina, vidi la Madre di Dio scendere dal cielo fra una grande moltitudine di Angeli e collocarsi al posto della priora, là dove si trova la statua della Madonna. La statua mi parve che sparisse dinanzi ai miei occhi per lasciare posto a questa eccelsa Signora. Ebbi appena il tempo di osservarla con precisione […]. Stette là finché durò la Salve Regina e mi disse: “Hai fatto bene a mettermi qui. Io sarò presente alle lodi che s’innalzeranno verso mio Figlio e le presenterò a Lui”».
Riconoscere Maria come nostra legittima Superiora, oltre che a mettersi sotto la sua speciale protezione, è continua memoria dell’indissolubile unione con Lei che si traduce in una radicale scelta di vita, quella di fare sempre ciò che suo Figlio ci dirà. Come Lei siamo costituite “madri e sorelle” per i tanti figli e fratelli che il Padre ci affida perché possiamo essere, nella preghiera e nell’offerta della nostra vita, grembo che accoglie, spiraglio di luce sul buio di tanti cuori. Appartenere alla Madonna è diventare noi stesse una epifania mariana della bontà, della tenerezza, della misericordia di Dio. Non c’è senso di appartenenza che non porti con sé il desiderio di uniformarsi, di imitare nell’adesione al volere divino che si fa strada nella carità fraterna; un cuore unificato e unificante in continua comunione con il Signore e con i fratelli.
Di santa Veronica Giuliani (1660-1727), clarissa cappuccina, è detto che «il periodo poi del suo badessato nel monastero di Città di Castello è un vero servizio reso alle consorelle e non una dimostrazione di autorità. La sua umiltà e la sua devozione la spingono addirittura a nominare la Vergine Addolorata, badessa della comunità».
Imitare Maria nella nostra vita monastica umile, silenziosa, laboriosa, obbediente, essere come Maria, pur nella povertà e nei limiti che ci sono propri, è compiere il salto della fede, quel lancio, non sempre facile, che ci fa oltrepassare la nostra opacità per renderci trasparenza luminosa dell’amore divino. Imitare Maria è capovolgere il nostro sguardo, proiettarlo al di fuori di noi per scrutare il mondo e la storia, quella universale e quella personale, sotto i riflettori di Dio: allora vedremo ogni cosa e noi stessi sotto tutt’altra luce. Maria diventa il nome nuovo della nostra anima che, continuamente, è chiamata a vivere al cospetto di Dio “santa e immacolata”. Questo passaggio decisivo nella dinamica della nostra consacrazione viene enormemente favorito dal rapporto personale con Maria: la nostra vita assume così i caratteri dolci e delicati di una relazione di fiducia e di affetto con una Persona concreta, una Madre amorevolissima che ci assorbe, illuminandoci e guidandoci, nel suo stato di “piena di grazia”.
“Qui governa mia Madre”
In una sua lettera alle claustrali, mons. Vincenzo Fagiolo, accennando al crocifisso bizantino custodito nel santuario mariano di Gibilmanna, si commuove nel riportare la frase attribuita al Cristo che, nella seconda metà del ‘500, parlò al francescano Ivone da Messina, dicendogli: «Qui governa mia Madre, a Lei rivolgi le tue preghiere». E riflettendo su questo governo mariano, l’allora segretario della Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari conclude: «È molto significativo che in alcuni monasteri è lasciato libero il posto centrale del coro e che l’abbadessa non vi sieda mai, ma vi si metta accanto, perché – spiegano – quel posto abbaziale è della Madonna: vi sta Lei; Lei che “governa” la casa: la Regina Monachorum. Annibale di Francia, fondatore delle Suore del Divino Zelo, volle che Maria fosse proclamata la “Madre Superiora” della casa religiosa che aveva eretta.
Sì, care claustrali, abbiamo una Madre che ci governa; è la Madre di Gesù; è la Madre della Chiesa; sentitela Madre di ciascuna, della vostra casa, e lasciatevi governare da Lei, sempre, filialmente».
Infine accenniamo ad una nostra esperienza vissuta nel 2010 quando ci è stato donato quasi per caso di riascoltare, di sotto la coltre dell’oblio, il racconto a noi sconosciuto di una storia viva che, a dispetto delle leggi di soppressione di metà ‘800 e del più moderno laicismo, ha lasciato una traccia visibile nella nostra città di Catania e che attendeva di essere scoperta.
È mai possibile che l’ex-monastero di San Placido, silente testimone ormai di un tempo che fu, imponente reliquia di antichi splendori, abbia ancora la sua abbadessa? Ai catanesi, ma anche a tanti della provincia, è ben noto il barocco complesso che un tempo costituiva il monastero benedettino femminile di San Placido attualmente denominato Palazzo della cultura. Ebbene, proprio vicino agli uffici dell’assessorato alla cultura prospicienti in quello che era l’antico chiostro, in un pianerottolo ben visibile, una nostra suora che si stava recando proprio in quegli uffici, ha potuto ammirare un grande affresco delimitato da una cornice in stucco riccamente lavorata. Vi è raffigurata la Madonna del Rosario nella classica iconografia che la vede seduta con il bambino Gesù in braccio e con ai lati san Domenico e santa Caterina, mentre sullo sfondo angeli e santi la incoronano. Il tutto è delimitato dalla raffigurazione, in piccolo, delle 15 scene dei misteri (gaudiosi-dolorosi-gloriosi) del rosario. In basso, quasi fosse una firma e come in diversi altri casi del passato, è raffigurata, in ginocchio e in atto di offrire un cuore, l’abbadessa che commissionò l’affresco. Vi è poi una scritta che è la chiave di lettura di tutto il dipinto. Vi si legge infatti: «Ego sum abatissa istius monasterij, Ego isti monasterio promitto meam protetionem, Ego sum quae inspiro corda superiorum vestrorum, Ego isti monasterio specialiter gratiam meam superabundabor, 3 luglio 1716». (Io sono l’abbadessa di questo monastero, io prometto la mia protezione a questo monastero, io sono colei che ispira i cuori dei vostri superiori, io a questo monastero elargirò con particolare abbondanza la mia grazia). Una lettura che si fermi soltanto all’inizio potrebbe far pensare, anche perché la scritta è posta quasi sul medesimo piano della piccola figura in basso, che la frase sia pronunciata dalla stessa committente, ma a rifletterci meglio non ci sono dubbi che quelle parole sono messe in bocca alla Vergine Maria che è colei che “ispira i cuori dei superiori” e che può promettere elargizioni di grazia.
Dai documenti dell’archivio storico diocesano abbiamo appreso che l’abbadessa in carica in quell’anno era suor Maria Rosaria Statella. Sicuramente, a seguito della ricostruzione del complesso monastico dopo il terribile terremoto del 1693, ella pensò bene di mettere il monastero di San Placido sotto la tutela speciale della Madonna deputandola addirittura quale superiora. Costituiva una novità, oppure suor Maria Rosaria Statella aveva avuto sentore di pratiche simili in altri monasteri? Fatto sta che dal 1716 il pastorale è passato alla Madonna e da allora nessuno l’ha potuta “sopprimere”.
Da notare che il carisma benedettino-eucaristico approda in Italia solo nel 1880 e a Catania nel 1910 quando il nostro monastero di San Benedetto – unico sopravvissuto alla soppressione – ha ripreso slancio e vitalità proprio grazie all’aggregazione all’Istituto delle Benedettine dell’adorazione perpetua. Da allora, Maria governa la nostra casa e dirige i nostri cuori. Per questo vogliamo concludere con l’invocazione del Prefazio della messa votiva del Santo nome di Maria: «Nella tua provvidenza, o Dio, hai voluto che risuoni nella bocca dei fedeli anche il nome di Maria; il popolo cristiano guarda a lei come fulgida stella, la invoca come Madre e nei pericoli ricorre a lei come a sicuro rifugio».
suor Maria Cecilia La Mela osb ap