Chiaro Mario
La resilienza delle donne
2020/7, p. 29
Dalla martoriata Siria giungono testimonianze e segnali di come ripartire dal femminile. Le donne passano da vittime di violenze perpetrate dagli uomini a pilastro che regge la famiglia e guida la società al di là della guerra.

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SIRIA: UN FENOMENO POCO CONOSCIUTO
La resilienza delle donne
Dalla martoriata Siria giungono testimonianze e segnali di come ripartire dal femminile. Le donne passano da vittime di violenze perpetrate dagli uomini a pilastro che regge la famiglia e guida la società al di là della guerra.
«Osserviamo con orrore il regime siriano e i suoi alleati scatenare la loro immensa potenza di fuoco nella provincia di Idlib, ultimo bastione dell’opposizione armata. Quasi un milione di civili – uomini, donne e bambini – è ormai in fuga. I negoziati internazionali sono bloccati, mentre la Russia continua a intromettersi per regalare una vittoria totale a Damasco. Ma per me e per milioni di altri siriani la guerra non finisce qui, a prescindere dall’esito di questa battaglia». A parlare così è la siriana Fadwa Mahmoud, che già nel 1992, prima dello scoppio della rivoluzione, è finita in carcere a causa delle sue opinioni dissidenti. Con l’avvento della rivoluzione, nel 2011, suo marito Abdel Aziz al Khayyer (medico, militante e pacifista) si è unito ai giovani militanti che credevano in una rivolta pacifica e nella democrazia in Siria. Con questo obiettivo aveva organizzato una conferenza degli oppositori che volevano una soluzione politica senza un intervento straniero. Poco prima dell’evento, nel 2012, Fadwa assiste però all’arresto dei suoi familiari: «Le autorità hanno negato più volte di essere responsabili della scomparsa di mio figlio e mio marito, ma io sapevo che il regime non aveva alcuna intenzione di permettere ad Abdel Aziz di continuare a lavorare per una soluzione pacifica. Bashar al Assad era perfettamente consapevole che l’unico modo che aveva di vincere era trasformare la ribellione in guerra. Da allora la mia vita è stata una battaglia permanente. Dico a tutti che non ho scelta: non rinuncerò mai alla mia vita, alla mia famiglia e alla lotta per la libertà di tutti i detenuti siriani».
Scomparse più di centomila persone
Nel corso degli ultimi nove anni il regime siriano ha fatto sparire più di centomila persone. Nelle regioni tornate sotto il controllo di Damasco, il numero delle persone scomparse è aumentato di centinaia di unità ogni mese. La detenzione non ha solo l’obiettivo di strappare informazioni, ma vuole soprattutto punire le vittime e terrorizzare le loro famiglie per mettere tutti a tacere. «Ma è qui che il regime si sbaglia – sottolinea Fadwa. Assad pensa che distruggendo i ribelli a Idlib metterà fine alla guerra, e i siriani che ancora vivono nel loro paese si arrenderanno. Ma una madre può mai dimenticare suo figlio incarcerato? Un fratello può dimenticare la sorella?... La nostra lotta per le persone che ci sono care è comune. Non sono sola nella mia battaglia, ed è per questo che ho contribuito alla creazione di Families for freedom, un movimento gestito da donne siriane che si battono per la giustizia e la libertà dei loro cari… Non permetteremo mai al regime né a qualunque altro gruppo armato di impedirci di agire, perché il nostro amore per le persone scomparse è troppo forte. Non possiamo rinunciare. Le ferite di molti siriani sono troppo profonde perché possano tacere».
Da vittime a protagoniste di cambiamenti
Mentre siamo impegnati nel contrastare la pandemia di Covid-19, questa testimonianza diventa un appello a non dimenticare tragedie che durano da ancor più tempo. Siamo arrivati ormai al nono anno dalla guerra in Siria, che dal 15 marzo 2011 oltre a provocare un grave esodo verso i paesi vicini, vede soffrire in modo particolare le donne: vittime, schiavizzate, violentate. Proprio per non dimenticare, Caritas Italiana ha pubblicato il Dossier dal titolo “Donne che resistono. Non solo vittime della guerra, ma parti attive del paese che verrà”. Dalla ricerca emerge innanzitutto il volto femminile delle vittime: oltre 28mila le donne morte dal marzo 2011 al novembre 2019 secondo il Syrian network for humanright; oltre 10mila le donne detenute e di cui, da nove anni, non si è saputo più nulla. In particolare, va ricordato che tra i 960mila profughi di Idlib – la peggiore catastrofe umanitaria in corso, confrontabile solo con lo Yemen – l’81% sono donne.
Nell’immaginario collettivo, 11 MQ Novembre 2020le donne mediorientali sono sempre state percepite come le succubi vittime di un duraturo patriarcato. Eppure il femminismo siriano conosce una storia dinamica, già alla fine dell’800, quando Siria e Libano erano un’unica entità territoriale, sotto il dominio dell’Impero ottomano. Il movimento femminista ha avuto inizio nel periodo della Nahda araba (“Rinascimento”): epoca di risveglio culturale iniziata in Egitto e diffusasi in Libano e Siria. La siriana Marianna Marrach già nel 1870 lottava per l’emancipazione delle donne e fu forse la prima donna araba a impegnarsi pubblicamente nel riconoscimento dei diritti femminili. Altre importanti femministe provenienti dalla Siria furono Mary Ajami (fondatrice nel 1910 della rivista al femminile “La sposa” e nel 1920 del Circolo letterario delle donne di Damasco) e Nazik Khatim al-Abid Bayhum (la “Giovanna d’Arco degli arabi”, prima donna a essere nominata generale onorario dell’esercito siriano, fondatrice dell’organizzazione “Luce di Damasco” formata da cittadine impegnate nella difesa dei diritti delle donne).
Per tornare all’attuale scenario della guerra in Siria, non è possibile separare in modo manicheo le donne vittime “passive“ dalle donne impegnate nella società o nella risoluzione del conflitto, come ad esempio le paladine dei diritti, le operatrici umanitarie o le combattenti al fronte. Un aspetto generale che emerge e le coinvolge tutte è quello della grande sofferenza, che rende le donne due volte vittime del conflitto: la violenza contro il femminile è strumento funzionale di educazione, perché fa parte della propaganda (del regime, degli eserciti alleati, delle Forze Democratiche Siriane, dell’Isis, dei gruppi jihadisti ecc.); sulle donne ricadono gli effetti delle coping strategies, cioè quei comportamenti dannosi di risposta alla violenza stessa (limitazioni alla mobilità, abbandono scolastico, prostituzione, accattonaggio ecc.).
Le nuove mater familias
Oggi le donne in Siria diventano sempre più spesso mater familias, occupando posizioni e ruoli che prima erano prerogativa unicamente maschile. Il conflitto ha spostato il loro ruolo nella forza lavoro, aprendo la porta a settori di impiego, prima interamente al maschile. Di conseguenza, esse stanno progressivamente assumendo una maggiore influenza nella sfera pubblica, plasmando il futuro del paese. Questo spostamento “positivo” è stato pagato a caro prezzo: molti dei loro padri, fratelli, mariti e figli sono stati uccisi, feriti o costretti a fuggire dal paese; oppure si sono uniti ai combattimenti, riducendo in modo significativo il numero di uomini in età lavorativa. Il risultato è che le siriane sono state costrette ad assumere il ruolo di capofamiglia in quasi una famiglia su tre.
Nell’attuale costituzione siriana del 1973, l’articolo 45 assicura alle donne «tutte le opportunità che consentono loro di partecipare pienamente ed efficacemente alla vita politica, sociale, economica e culturale». Nel 2017 l’organizzazione Bareeq Education, con sede in Giordania, ha condotto un’indagine sulle donne siriane sopra i 18 anni all’interno e all’esterno della Siria. Delle 1.006 intervistate, l’81% ha dichiarato “che le norme sociali in Siria ostacolano il successo delle donne”. Nove anni di guerra hanno però eliminato alcune di queste barriere: se nel 2015, tra il 12 e il 17% delle famiglie in Siria erano guidate da donne, nel 2017 si è arrivati a oltre il 22%. Se il tasso di occupazione femminile nel 2015 risultava pari al 14%, attualmente in alcuni settori le donne costituiscono la stragrande maggioranza della forza lavoro. In alcune zone della Siria il 90% della forza lavoro agricola è costituita dal genere femminile. La necessità dettata dal conflitto ha fatto sì che le donne ricoprissero anche ruoli prima impensabili: sono impiegate nei ristoranti, nei servizi, nelle fabbriche.
Gli impegni prioritari per la dignità della donna
Da tutto ciò si ricava che è essenziale proteggere le donne specialmente nelle situazioni di guerra e renderle parte attiva della società, grazie al loro prezioso contributo ai processi di pace. In un intervento del 2018 il nunzio apostolico e osservatore permanente della Santa Sede, l’arcivescovo Bernardito Auza, ha evidenziato punti fondamentali su cui il Vaticano è attento e impegnato a fianco del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per il rispetto della dignità della donna.
In primo luogo viene l’impegno per la prevenzione dei conflitti, incoraggiando il dialogo e la negoziazione, ma anche garantendo che la voce delle donne e la loro effettiva partecipazione ai processi di ricostruzione della pace siano assicurate.
Il secondo luogo c’è la prevenzione di qualsiasi forma di violenza contro le donne nelle zone di conflitto; la protezione dei loro diritti e interessi devono far parte di ogni ambito delle operazioni di pace. In questo senso, occorre far crescere il numero delle donne impiegate nelle operazioni umanitarie, sia sul campo, sia in ruoli di direzione. È importante poi applicare procedure specifiche per dare la priorità alle donne sole e per organizzare la distribuzione degli aiuti tenendo conto delle categorie più vulnerabili.
In terzo luogo l’attenzione chiave è quella di prevenire la violenza contro le donne anche in situazioni di post-conflitto promuovendo l’educazione, lo sviluppo economico e sociale in modo che i benefici possano essere goduti da tutta la popolazione. Va insomma garantito alle donne e alle ragazze l’accesso ai diritti di base, in primis l’educazione, sia in condizioni di emergenza sia in condizioni ordinarie.
Infine, è fondamentale garantire la permanenza di un sistema in grado di punire i colpevoli di violenze e discriminazioni. Gli operatori umanitari, così come le autorità civili nazionali e internazionali, devono assicurare la possibilità che i crimini vengano denunciati prontamente e in modo sicuro per la vittima; e al tempo stesso adoperarsi per un accertamento scrupoloso dei fatti, fino alla punizione dei colpevoli, istituendo se necessario delle apposite commissioni internazionali.
Mario Chiaro