Dall'Osto Antonio
Brevi dal mondo
2020/6, p. 38
ROMA P. Jacques Mourad e Silvia Romano AFRICA Continente sotto attacco MOZAMBICO Cosa succede a Cabo Delgado?

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Testimoni
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Roma
P. Jacques Mourad e Silvia Romano
Il sacerdote siriano Jacques Mourad, – scrive Dario Salvi – ha trascorso cinque mesi nelle mani dell’Isis, in Siria, e invita a “non giudicare” la scelta di convertirsi della cooperante italiana. La donna per 18 mesi nelle mani di al-Shabaab, in Somalia. In queste situazioni ...
Roma (AsiaNews) - Silvia Aisha Romano ha vissuto una esperienza “simile alla mia”, per questo “posso dire di sentirla vicina. Tuttavia, lei ha trascorso 18 mesi sotto sequestro, io solo cinque. E, in questi contesti, anche solo un giorno in più fa una enorme differenza”. È quanto racconta ad AsiaNews p. Jacques Mourad, sacerdote della Chiesa siro-cattolica raggiunto al telefono in Siria, in una località che chiede di mantenere segreta per motivi di sicurezza. Anch’egli, come la cooperante italiana, è stato sequestrato da gruppi jihadisti e vuole subito chiarire che non intende “giudicare” la scelta della donna di convertirsi all’Islam. Se dovessi incontrarla, aggiunge, “penso che la abbraccerei come una sorella, nella fede e nell’esperienza di vita”.
Priore del monastero di Mar Elian (non distante da Mar Musa, la comunità fondata da p. Paolo Dall’Oglio) e guida dei cristiani di Qaryatayn, nei pressi di Palmira, p. Mourad è stato sequestrato da un gruppo affiliato allo Stato islamico (SI, ex Isis) nel maggio 2015. La liberazione [una fuga “coraggiosa”, come la definisce lui] avviene il 10 ottobre, dopo settimane di minacce, pressioni, violenze, tentativi di conversione e una esecuzione simulata.
“Fin da subito - racconta - è stato chiaro ai rapitori che non avrei avuto dubbi o cedimenti, grazie alla fede che mi ha accompagnato e sostenuto. Nemmeno quando mi hanno detto che mi avrebbero decapitato, anche allora ho scelto di non reagire. Li ho solo guardati negli occhi e fatto un piccolo sorriso”. “Non ho mai risposto a parole - prosegue - ma solo con sorrisi e questo è stato il mio modo di comunicare il messaggio: non avrei dubitato della fede, non mi sarei mai sottomesso alla paura”.
Proprio per questo, il sacerdote non vuole giudicare il percorso e le scelte fatte da Silvia Romano, cooperante internazionale di origini italiane rapita in Kenya il 20 novembre 2018 e liberata a inizio maggio, dietro (probabile) pagamento di un riscatto. Si parla di circa quattro milioni di euro, ma il governo italiano non ha confermato (né smentito) in via ufficiale. Dopo 18 mesi di prigionia, la donna è apparsa in buono stato di salute; tuttavia, alla gioia per la liberazione ha fatto da contraltare la polemica politica e sui social innescata dalla decisione (libera, afferma risoluta lei) di convertirsi all’Islam, di mostrarsi con un abito tradizionale musulmano e il capo velato.
Silvia, che si è fatta ribattezzare Aisha, si trovava in Kenya per un progetto curato dall’Ong Africa Milele, e operava come educatrice per bambini nel villaggio di Chakama, nella contea di Kilifi. Un abitante avrebbe segnalato la sua presenza a una cellula locale del gruppo jihadista somalo al-Shabaab, legato ad al-Qaeda, che ne ha organizzato il rapimento. Un portavoce del gruppo fondamentalista ha annunciato che i soldi del riscatto saranno utilizzati per finanziare il jihad.
Quando gli si chiede se Silvia Romano può avere subito “pressioni”, p. Mourad afferma che “tutto è possibile”, ma ciò che conta “non è il fatto che si sia convertita all’Islam” perché “solo Dio conosce il cuore delle persone”. “Noi abbiamo il dovere - aggiunge - di non fingere di essere scioccati o scandalizzati perché nessuno sa cosa ha vissuto, nessuno conosce la sofferenza che ha attraversato nel suo percorso. Dobbiamo solo accogliere Silvia nella tenerezza e nell’amore di Dio e di Gesù, anche lei che è musulmana”.
Donne o uomini, gli estremisti non fanno differenze con gli ostaggi. Alcune persone sono “più cattive, feroci, altre più buone” come lui stesso ha sperimentato a Palmira, dove “ho interagito con due gemelli: uno sanguinario, l’altro dai modi dolci e sereno”. Il terreno comune, spiega, “è quello di essere tutti fedeli che pregano. Questo è un incontro che va al di là della normale esistenza e ha permesso di superare la prospettiva del mio essere prigioniero e loro i carcerieri. Entrambi ci rivolgevamo a Dio ed è quello l’ambito in cui ci si può incontrare: la preghiera”.
Ricordando i momenti del sequestro e della liberazione, p. Mourad sottolinea: “La prima sensazione che ho avvertito è stata la paura”, non dei rapitori “ma degli altri, della gente comune, il ritorno alla vita”. Oggi, aggiunge, “vedo questa esperienza come un dono” perché è stato “interessante” incontrare il mondo del radicalismo islamico “che è totalmente differente da noi. Un apparato militare che non è riconosciuto come esercito e non ha la dignità dei movimenti ribelli”. La differenza “è forse insita in questa decisione di portare la guerra ‘santa’, il jihad, all’estremo, dando seguito alla loro follia. Ciononostante, nel loro agire e sentire vi è una spiegazione, se siamo disposti ad analizzarla. Tuttavia, l’errore più grosso - conclude - è reagire noi stessi con violenza”. (AsiaNews, 15/05/2020)
Africa
Continente sotto attacco
Il Corno d’Africa e tutta l’Africa orientale, dal Sudan al Mozambico, ma anche la zona centrale, tra Niger e Repubblica Centrafricana, – come scrive il portale della Fondazione Missio – sono sempre più provate da numerose minacce (ambientali, terroristiche, pandemiche) che mettono a repentaglio la vita delle persone e ne provano la resistenza. A raccontare questo dramma – come riferisce Ilaria de Bonis in un breve servizio del 14 maggio scorso – sono le voci del vescovo dom Luiz Fernando Lisboa, di padre Mauro Armanino e di padre Renato Kizito Se sana.
La testimonianza del vescovo. Il terrorismo di matrice Jihadista, legato al gruppo islamista Al Shabaab (che ha tenuto prigioniera la cooperatrice italiana Silvia Romano), imperversa da anni tra Kenya e Somalia, ma in questi ultimi mesi un’affiliazione locale mozambicana ha preso sempre più piede nel nord del Mozambico, a Cabo Delgado. La frequenza e la virulenza degli attacchi del gruppo che si fa chiamare anche Ahlu Sunnah Wa-Jama, destano molta preoccupazione tra i missionari e in tutta la Chiesa locale. Il Mozambico è l’epicentro di una recrudescenza armata molto ben organizzata. Il numero di morti potrebbe aver raggiunto già le mille persone. “All’inizio si diceva che fosse un ‘nemico senza volto’, ma negli ultimi attacchi si sono presentati come Stato Islamico; noi però abbiamo molti dubbi su questa identità. Può essere che stiano usando questo nome in modo strumentale”, spiega il vescovo intervistato da Paolo Annechini. “Dal 4 ottobre 2017 ad oggi, gli attacchi non si sono più fermati, anzi si sono intensificati – precisa dom Lisboa –. All’inizio gli uomini armati erano lontani dal centro città, nella zona nord di Cabo Delgado. Quando attaccavano un centro abitato la gente si rifugiava in città e i villaggi si svuotavano. Erano attacchi molto violenti: uccidevano, tagliavano la testa, bruciavano le case. A partire da gennaio 2020 si sono spostati a Mocimboa de Praia, e negli ultimi attacchi usano delle uniformi”. Secondo il vescovo, il nemico armato è sempre più definito e sostenuto. Non si tratta però di guerra religiosa. “I musulmani del Mozambico fin dall’inizio hanno preso le distanze da loro, scrivendo un documento di condanna. E di fatto nella nostra provincia non abbiamo mai avuto problemi di relazione tra cristiani e islamici”, precisa il vescovo. I terroristi reclutano le persone nei villaggi e così si rafforzano. “Cruciale è il fattore povertà in questa regione da sempre dimenticata”, dice ancora il vescovo. La disoccupazione e la mancanza di alternative portano spesso i giovani mozambicani a scegliere la strada dei gruppi armati.
Niger, “colonialismo culturale”. Spostandoci al Nord e salendo su fino al Niger, troviamo un altro focolaio di terrorismo di matrice jihadista, tra i più feroci e impossibile da controllare, poiché le frontiere del Niger praticamente non esistono, nel triangolo Mali, Burkina Faso, Benin. “I confini del Niger sono labili, di fatto non c’è controllo alle frontiere”, spiega padre Mauro Armanino, missionario della Società missioni africane, alla Fondazione Missio. L’epicentro delle violenze è Tillaberi, località proprio al confine con Mali, Burkina e Benin. Appena due giorni fa sono state uccise venti persone in un attacco armato. “Quello che io vedo, da qui, dal deserto del Niger, è una totale mancanza di prospettiva e di proporzione da parte dell’Occidente. La gente da noi soffre per una serie di cause strutturali, legate alla vulnerabilità alimentare, al terrorismo di matrice jihadista, al diffondersi di malattie che diventano mortali (la malaria ha fatto oltre 40 mila morti)”, spiega padre Mauro che parla di “colonialismo culturale europeo”.
Locuste, carestia e virus. La pandemia del Covid-19, sia in Niger che in Mozambico non è fortunatamente così estesa, ma ad uccidere le persone sono fattori che sfuggono alla logica occidentale e sono spesso ignorati dai media. Altra causa di morte (che sta incidendo fortemente sui raccolti), sono le locuste, che invadono le terre del Corno d’Africa e di tutta l’Africa orientale. Un secondo sciame di insetti deleteri per i raccolti è approdato di recente nelle regioni che trasversalmente tagliano Eritrea, Etiopia, Kenya, Somalia e Sud Sudan. A rischio fame sono 25 milioni di persone secondo la Fao. Questa emergenza va a sommarsi a quella generata dalla pandemia del Covid-19 che comunque in Africa (eccetto l’intera striscia del Nord Africa, e il Sudafrica) procede con lentezza e sta facendo, per ora, meno danni del previsto. Tuttavia la Fao avverte che le due emergenze insieme provocano una “insicurezza alimentare” senza precedenti e che è necessario proteggere le persone più vulnerabili da quattro minacce in contemporanea: “i conflitti, le condizioni climatiche avverse, le locuste del deserto e il Covid-19”.
Padre Renato Kizito Sesana, missionario comboniano a Nairobi, in Kenya, scrive in una lettera aperta che le inondazioni, le frane, i crolli causati dalle prime piogge stanno facendo di certo più danni della pandemia (finora i morti accertati per Covid-19 sono 32). “Qui i disastri naturali, causati dall’insipienza e dall’avidità umana – scrive padre Kizito – si susseguono senza sosta. Aggravati dallo sconsiderato, criminoso sfruttamento delle risorse naturali che le compagnie internazionali hanno accelerato negli ultimi decenni”. (Fonte: SIR)
Mozambico
Cosa succede a Cabo Delgado?
Papa Francesco nel discorso Urbi et Orbi di Pasqua 2020 ha ricordato, tra le altre, la situazione di Cabo Delgado. Cosa succede in questa regione del nord del Mozambico? Ne abbiamo parlato direttamente con il vescovo di Pemba, dom Luiz Fernando Lisboa, passionista, la diocesi alla quale appartiene la regione di Cabo Delgado. La zona è al nord del paese, confina con la Tanzania, da sempre abbandonata, senza una presenza strutturata dello Stato, ed è una zona ricchissima di materie prime, una delle più ricche del paese: diamanti, minerali, oro, gas. Cosa succede? Dalla fine del 2017 sono iniziati attacchi di rivoltosi senza nome e senza volto, organizzatissimi, armati fino ai denti, con perfetta conoscenza del territorio. Attacchi violentissimi, prima a villaggi remoti, poi a situazioni sempre più strutturate. Arrivano e se ne vanno indisturbati, distruggendo o saccheggiando tutto quello che trovano: chiese, edifici pubblici, case di privati. Uccidono persone con una efferatezza mai vista da queste parti. Qualcuno parla di estremismo islamico, ma il mondo musulmano compatto condanna senza mezzi termini gli attacchi. Si fanno anche altri scenari: guerra tra poteri economici internazionali per il controllo delle miniere, lavoratori che hanno perso il lavoro e si danno al saccheggio, scontro politico tutto interno al governo mozambicano. Comunque sia, due anni di violenza feroce ha prodotto 200 mila sfollati e un migliaio di morti. Senza che il governo mozambicano, con l’esercito o la polizia, sia riuscito a catturare un solo terrorista! (Paolo Annechini, 12 Maggio 2020)
a cura di Antonio Dall’Osto