NOTKER WOLF
Vicini a chi soffre e a chi è solo
2020/6, p. 36
Come aiutare stando vicino a chi soffre e vive e spesso anche muore nella solitudine soprattutto nella malattia come avviene in questo tempo di pandemia del coronavirus? Se lo è chiesto, come tanti, anche Notker Wolf, abate generale dei Benedettini per due mandati: dal 7 settembre 2000 fino al 10 settembre 2016, in una breve riflessione in occasione dello scorso Triduo pasquale, mettendo in rapporto la desolazione della morte di Cristo con la solitudine e la desolazione in cui vivono e muoiono oggi tanti malati di coronavirus. Come offrire loro una parola o un gesto di consolazione e di conforto?

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Vicini a chi soffre e a chi è solo
Come aiutare stando vicino a chi soffre e vive e spesso anche muore nella solitudine soprattutto nella malattia come avviene in questo tempo di pandemia del coronavirus?
Se lo è chiesto, come tanti, anche Notker Wolf, abate generale dei Benedettini per due mandati: dal 7 settembre 2000 fino al 10 settembre 2016, in una breve riflessione in occasione dello scorso Triduo pasquale, mettendo in rapporto la desolazione della morte di Cristo con la solitudine e la desolazione in cui vivono e muoiono oggi tanti malati di coronavirus. Come offrire loro una parola o un gesto di consolazione e di conforto?
Meditando anzitutto sul Sabato Santo, Notker definisce questo giorno come forse il più umano del Triduo Sacro. Il più umano perché qui l’uomo è messo a confronto con la morte e il vuoto assoluto che essa lascia. “In questi giorni del coronavirus, afferma, la brutalità del vuoto, di un Dio che tace, il silenzio e la solitudine sono fatti che colpiscono anche noi più che mai”.
La pandemia del coronavirus – sottolinea Notker – è un pensiero che mi ronza di continuo nell’animo. Penso al silenzio e alla solitudine delle persone che vivono sole. O anche alla totale solitudine, alla disperazione dei malati e dei moribondi.
Il Venerdì Santo raffigura la situazione di uno che sta morendo di coronavirus e muore solo, senza i suoi cari, senza la benedizione del sacerdote perché è tutto proibito per paura del contagio. Il Sabato Santo rappresenta invece la condizione dei parenti che sanno della morte di un loro caro e non possono partecipare al suo funerale. La tomba è chiusa da una grande pietra. Nel Medioevo si cantavano le melodie delle Marie piangenti. Sono lacrime di solitudine. E la solitudine è un fantasma che anche oggi si insinua in tutti i campi della nostra vita – un fantasma molto concreto. Molte cose che prima uno ha fatto ora non sono più possibili. La vita è diventata silenziosa in tanti campi. La paura e la sofferenza avvinghiano e paralizzano, come è avvenuto il Venerdì Santo.
Joseph Ratzinger nelle sue “Tre Meditazioni sul Sabato Santo” ha descritto in maniera impressionante questa solitudine, l’abisso di silenzio in cui sprofonda che ha un drammatico riscontro nei nostri giorni. Il Sabato Santo è il giorno dell’occultamento di Dio, il giorno di quell’enorme paradosso che diciamo nel Credo “discese agli inferi”, nel mistero della morte. Il Venerdì Santo abbiamo potuto almeno guardare ancora a colui che è stato trafitto – il Sabato Santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre la sua salma, tutto è finito, la fede è parsa un’infatuazione. Nessun dio ha salvato questo Gesù, che si era dichiarato Figlio di Dio”.
Sono numerose le persone che oggi vivono il Sabato santo. Si lamentano, si interrogano su Dio. Hanno paura, non riescono a far fronte al silenzio assordante che le circonda, si sentono abbandonate, sole.
Molti di noi avvertono in maniera ancora più drastica ciò che Matthew Forde, autore e storico inglese che scrive nel suo libro “Epoca della solitudine”: “Nella nostra società postmoderna i legami duraturi diventano sempre più rari e i valori spirituali vanno sempre più perdendosi”. I vincoli durevoli sono ciò di cui abbiamo bisogno e perciò è tanto più doloroso quando ne siamo privi”.
Nel mio libro “Penso a te”, afferma Notker, mi riferisco a diverse “situazioni di solitudine” e del modo con cui affrontarle, sia quelle proprie sia quelle degli altri. Quante persone si trovano nelle camere di un ospedale o nei letti degli ospizi e aspettano per ore che un parente, un’amica o anche un conoscente apra la porta, le venga a trovare e porti loro un sorriso? Quanti desiderano piccole attenzioni e una pacca sulla spalla? Le visite ai malati fanno capire quanto sia efficace una semplice pacca sulla spalla, una carezza sul capo, per non parlare di un abbraccio o di un bacio. La solitudine si allevia con questo gesto, con la semplice presenza fisica di uno che infrange l’involucro di vetro che si è formato attorno alla persona. Chi tocca un altro, rompe spesso il bozzolo della solitudine, sia pure per un breve momento. Dove queste visite sono possibili, dovremmo, soprattutto proprio ora, praticarle. Tuttavia spesso non sono possibili – e allora cosa fare contro la solitudine?
Io ricevo di continuo delle telefonate di persone che mi dicono che sono l’unico con cui quel giorno hanno parlato. L’unico! Le conversazioni e le telefonate sono particolarmente importanti in questo momento. Telefoniamo, prendiamoci il tempo che ora abbiamo. Rompiamo con uno squillo di telefono e con la nostra voce la solitudine – ed evitiamo di caderci dentro anche noi. Mi viene in mente un episodio: io sono stato sei anni arciabate di Sant’Ottilien. Un giorno, un confratello anziano venne a bussare alla porta del mio studio. Serio in volto, mi disse: “Devo dirle una cosa. C’è qualcosa che non va nel nostro monastero”. Lo feci accomodare e continuò: “Lei sa che quando prima si passava davanti alla sua stanza, si sentiva sempre della musica. La cosa più bella era quando suonava il flauto. Adesso nel corridoio regna un silenzio di tomba”. Rimasi molto colpito da questa osservazione. “Padre Alkuin, risposi, non ho più tempo”. Quell’uomo anziano dal profilo affilato e i capelli bianchi come la neve, mi pose la mano sulla spalla destra e disse: “Padre arciabate, per favore lo faccia ancora”. Ne beneficerà la nostra comunità. Dopo di allora ho cominciato di nuovo a suonare la musica. Il silenzio che ora regna in molte camere e in molti cuori, possiamo romperlo, per esempio, quando ci colleghiamo a un video per la trasmissione di una Messa o di una preghiera del coro con persone che pregano.
Ma ci sono anche cose che si dovrebbero scrivere, perché non possono essere spiegate per telefono. Possiamo anche contattare qualcuno con una lettera o una e-mail e fargli vedere che non è solo. Uno scritto del genere è un segno che rimane, che uno può sempre rileggere e che gli dice “Io penso a te”.
Dio non ci ha dimenticati
Penso che questo semplice messaggio “Penso a te” sia particolarmente efficace. In questo momento, ma anche in genere. Sapere che qualcuno prega per me, mi accompagna, dà la sensazione di non essere dimenticato.
Il Sabato Santo si risolve nella Pasqua e noi cristiani sappiamo che Dio non ha dimenticato né Gesù né noi. Non ci ha lasciati soli, ma è tornato. Questo messaggio ci dà la forza di sopportare lo sconcerto del Venerdì Santo e il silenzio del Sabato santo – così possiamo sopportare anche la pandemia come esperienza del Sabato santo, sapendo che questa crisi passerà e che Dio, per quanto sia difficile sopportare la sofferenza, non ci ha dimenticato. Il silenzio del Sabato santo si trasformerà nel giubilo festoso della Pasqua.
Wolf Notker