HALÍK TOMÁSˇ
"Tocca le ferite"
2020/6, p. 18
Io posso credere in Cristo ed esclamare “mio Signore e mio Dio” come l’Apostolo Tommaso, solo se tocco le sue ferite di cui il nostro mondo è ancora pieno. Altrimenti dico “Signore, Signore” invano e senza alcun effetto.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
MEDITAZIONE PASQUALE SUL VANGELO DI GIOVANNI (20,24-29)
“Tocca le ferite”
Io posso credere in Cristo ed esclamare “mio Signore e mio Dio” come l’Apostolo Tommaso, solo se tocco le sue ferite di cui il nostro mondo è ancora pieno. Altrimenti dico “Signore, Signore” invano e senza alcun effetto.
Dopo aver commentato l’episodio dell’incontro tra Gesù e Tommaso, sono sceso dal pulpito e sono tornato al mio posto. Era il secondo giorno della mia visita in India. Era mattina presto nella cattedrale di Madras, situata nel cuore del cristianesimo indiano, dove fin dai tempi antichi è venerata la tomba dell’apostolo Tommaso, patrono dell’India.
In quel momento comprendevo ancora quel brano del Vangelo di Giovanni come è stato ed è sempre in genere interpretato, cioè che con questa sua apparizione Gesù aveva dissipato i dubbi del suo scettico apostolo circa la verità della sua risurrezione, e l’incredulo Tommaso divenne immediatamente credente.
Non immaginavo che prima della fine della giornata, questo vangelo mi avrebbe di nuovo interpellato – in maniera diversa e più profonda – e che mi avrebbe persino manifestato in una nuova luce il più grande mistero della fede cristiana: la risurrezione di Gesù e la sua natura divina.
Inoltre questa nuova percezione mi portò gradualmente a un certo percorso di spiritualità di cui non sapevo ancora nulla. Mi mostrò la porta “degli increduli Tommaso”, la porta dei feriti.
Nel caldo pomeriggio di quel giorno, il mio collega indiano, un prete cattolico e professore all'Università di Madras, mi condusse prima nel luogo in cui, secondo la leggenda, l'apostolo Tommaso fu martirizzato, e poi in un orfanotrofio cattolico nelle vicinanze.Durante i miei viaggi in Asia, Africa e Sud America, sia prima che dopo, avevo visto in faccia la povertà, e ho familiarità con la miseria morale attraverso la mia professione clinica e la mia esperienza come confessore – le sofferenze nascoste nel cuore della gente e gli angoli oscuri dei destini umani. Ho visitato i Golgota dei nostri tempi, i luoghi dei campi di concentramento nazisti e comunisti, e anche Hiroshima e Ground Zero a Manhattan, luoghi che suscitano fortemente le ancor vive memorie della violenza criminale lì perpetrata – ma anche dopo tutte queste esperienze non dimenticherò mai quella dell’orfanotrofio di Madras.
L’orfanotrofio di Madras
Nelle culle che assomigliavano più a gabbie per il pollame giacevano bambini abbandonati, con il ventre gonfio per la fame, esili scheletri rivestiti di pelle nera, spesso infiammata. In corridoi che sembravano interminabili, i loro occhi febbricitanti mi fissavano da ogni dove e mi tendevano le loro manine. Nell’aria irrespirabile, con tutto quel tanfo e quel pianto, ho provato una nausea mentale, fisica e morale. Ho percepito un soffocante senso di impotenza e di amara vergogna, quella che si avverte quando si è confrontati con i poveri e i derelitti, vergogna per la pelle sana, lo stomaco pieno e un tetto sopra il capo. Volevo codardamente andar via il più presto possibile da quel luogo (e non solo da lì), chiudere gli occhi e il cuore e dimenticare. Mi sono ritornate alla mente le parole di Ivan Karamazov, il quale voleva “restituire a Dio il biglietto di ingresso” in un mondo in cui i bambini soffrono.
Ma proprio in quel momento è emerso dal mio profondo un invito: “Tocca le ferite!”, e ancora: metti qui il dito; guarda le mie mani. Tendi la tua mano e mettila nel mio fianco”.
All’improvviso ho sentito risuonare nuovamente in me l’episodio dell’apostolo Tommaso che avevo letto nel Vangelo di Giovanni nella messa di quella mattina sulla tomba del “santo patrono degli increduli”. Gesù si è identificato con tutti coloro che sono piccoli e sofferenti. In altre parole, tutte le dolorose ferite e tutta la miseria umana sono “ferite di Cristo”. Io posso credere in Cristo e avere il diritto di esclamare “mio Signore e mio Dio” solo se tocco le sue ferite di cui il nostro mondo è ancora pieno. Altrimenti dico “Signore, Signore” semplicemente invano e senza alcun effetto. (Mt 7,21).
Vedere e toccare le ferite del mondo
Naturalmente nessuno di noi può considerarsi un messia in grado di guarire tutte le ferite del mondo. Del resto, nemmeno Gesù ha potuto farlo durante la sua missione terrena. Anche quando onestamente noi cerchiamo di fare tutto ciò che è in nostro potere e nelle nostre capacità, possiamo solo remare per un breve tratto contro le onde impetuose dell’oceano di povertà che si sta estendendo sempre più nel nostro continente. Tuttavia, non dobbiamo fuggire dalle ferite del mondo, né voltare le spalle ad esse; dobbiamo almeno vederle, toccarle e lasciarci coinvolgere. Se rimango indifferente, non coinvolto, non ferito – come posso dichiarare la mia fede e il mio “amore a Dio, che non ho visto?”. Perché effettivamente io non lo vedo. Sì, improvvisamente è diventato per me chiaro lì a Madras che non ho il diritto di proclamare la fede in Dio se non prendo sul serio la sofferenza del mio prossimo. Una fede che chiudesse gli occhi alla sofferenza degli altri è semplicemente un'illusione o un oppio; sia Freud che Marx avrebbero avuto ragione di criticare quel tipo di fede! C'è tanta sofferenza nel mondo che ci circonda! Gesù va da Tommaso e gli mostra le sue ferite: nessuna sofferenza (di nessun genere) viene cancellata e dimenticata come quella. Le ferite rimangono ferite. Ma colui che “ha portato le sofferenze di tutti” ha attraversato fedelmente le porte dell’inferno e della morte: ed egli continua ad essere qui con noi, per quanto ciò sia difficile da comprendere. Ha dimostrato che l’amore tutto sopporta (1 Cor 13,7): “le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo”, “perché forte come la morte è l’amore” (cf. Ct 8, 6-7), sì è più forte della morte. Alla luce di questo evento, l’amore è un valore che non possiamo lasciare in balia al sentimentalismo. Rappresenta una forza, l’unica forza che sopravvive alla stessa morte e che travolge le sue porte con le mani perforate.
La risurrezione perciò non è un “lieto fine”, ma un invito e una sfida: noi non dovremmo, anzi non dobbiamo capitolare davanti al fuoco della sofferenza, anche se non siamo in grado di estinguerlo qui e ora. In presenza del male non dobbiamo comportarci come se esso avesse l’ultima parola. Non dobbiamo avere paura di “credere nell’amore” anche se è perdente secondo gli standard del mondo. Dobbiamo avere il coraggio di cogliere le nostre opportunità con la “follia della croce” di fronte alla “sapienza del mondo”! (cf. 1 Cor, 4,10).
Risvegliando la fede di Tommaso permettendogli di “toccare le ferite” Gesù voleva forse dirgli proprio ciò che si è rivelato a me in un attimo in quell’orfanotrofio di Madras: è dove tocchi la sofferenza umana, e forse solo lì che comprenderai che io sono vivo, che “sono io”. Mi incontrerai dovunque c’è gente che soffre. Non fuggire da me in nessuno di questi incontri. Non aver paura. Non essere incredulo, ma credente!
Le ferite di Gesù una sfida per noi
Il Dio dell’Antica Alleanza apparve a Mosè in un roveto ardente (Es 3). Il suo Figlio unigenito, nostro Signore e nostro Dio appare “nel fuoco della sofferenza “ nella croce – e noi diamo un senso alla sua voce solo se portiamo la nostra croce e siamo disposti a portare i pesi degli altri, solo se le ferite del mondo – le Sue ferite – diventano una sfida per noi.
A ciascuno degli apostoli fu affidato un compito: a Pietro di prendersi cura delle pecore del gregge di Cristo, a Paolo di viaggiare in nazioni lontane. Ma che dire di Tommaso?"L'incredulità di Tommaso ha giovato di più alla nostra fede della fede degli altri discepoli", ha scritto papa san Gregorio Magno. Essere "un credente" non implica sbarazzarsi del peso dei problemi angosciosi. A volte significa prendersi la croce dei dubbi e seguirlo fedelmente. La forza della fede non consiste nelle “convinzioni irremovibili” ma nella capacità di far fronte anche ai dubbi e alle ambiguità, nel portare il peso del mistero conservando nello stesso tempo la fedeltà e la speranza.
Sì, forse era questa l’effettiva missione di Tommaso: la fede che è nata quando ha toccato il costato di Gesù non è diventata un oggetto da “possedere”. Anche adesso la fede non cessa di essere un viaggio” per lui. Egli deve continuare a portare il peso dei suoi dubbi e delle sue tentazioni di scetticismo. La certezza della fede viene solo quando egli tocca Dio toccando le ferite del mondo – solo lì lo incontra. Egli esperimenta di nuovo il suo incontro con il Cristo crocifisso. Questa è la sua missione.
È precisamente la ragione per cui aprirà la strada a una autorivelazione molto caratteristica di Dio nel nostro mondo per molti di coloro che attraversano la vita nel crepuscolo dei dubbi, a una “esperienza di Dio” inattesa. Coloro che hanno visto il Signore aprono la porta a coloro che non l’hanno veduto: essi possono incontrare Gesù – continuamente – nelle ferite del mondo.
Coloro che non riescono a trovare Cristo negli ambienti tradizionali offerti dalla Chiesa, nella sua predicazione, nei suoi servizi liturgici e catechismi, hanno ancora questa opportunità sempre a loro disposizione: incontrarlo dove le persone soffrono. Si racconta che una volta quando a Pascal fu rifiutata l’Eucaristia da un dignitario della chiesa che aveva dei dubbi sulla sua ortodossia, egli cominciò a prendersi cura in casa sua di un povero malato, così da “ricevere il corpo di Cristo” in quel modo.
Del resto, non ha detto Gesù: “Tutto quello che avrete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me?” (Mt 5,40).
E noi possiamo incontrarlo persino nelle profondità del nostro dolore.
Se il mondo fosse perfetto, sarebbe già dio e non ci sarebbe più nessun problema riguardo a Dio. Un dio che guardasse narcisisticamente lo specchio immacolato del suo mondo perfetto e armonioso in cui non ci fossero conflitti, né contraddizioni o misteri, non sarebbe il mio Dio, il Dio della Bibbia, il Dio della mia fede. La storia raccontata dalla Bibbia non è un idillio affascinante, ma un dramma inquietante. Il mondo di cui parla la Scrittura (come il nostro mondo attuale) è un mondo di ferite sanguinanti e dolorose – e il Dio che invoca reca ugualmente queste ferite.
Nel racconto del Vangelo, Dio appare come un Dio ferito, non come il dio apatico degli stoici o come una proiezione dei nostri desideri, tanto meno come un simbolo delle ambizioni di potere di un uomo o di una nazione. È un Dio compassionevole, che sente con noi, che soffre con noi.
A quanto pare ci sono molti che hanno perso la fede in Dio solo per l’esistenza del male e della sofferenza nel mondo. Devo confessare di non avere mai avuto una simile tentazione. Il mio modo di pensare e la mia esperienza sono state del tutto opposte: quasi nulla ha suscitato in me una sete di significato come le assurdità del mondo, e una sete di Dio come le ferite aperte delle sofferenze della vita.
Il racconto pasquale come è riferito dal Vangelo di Giovanni inizia e termina con due affermazioni: l’esclamazione di Pilato”, “Ecco l’uomo” e di Tommaso “Mio Signore e mio Dio”. Entrambe si riferiscono a Gesù, entrambi i protagonisti guardano alle sue ferite – uno parla della sua umanità, l’altro della sua divinità. Si potrebbe dire che le due esclamazioni sono due diverse interpretazioni delle ferite di Gesù. Le sue ferite – in misura maggiore forse di ogni altra cosa, e forse solo esse – rivelano il legame tra l’umano e il divino che Gesù di Nazaret rappresenta. Ma ciò che sta frammezzo è il “mistero pasquale”: la morte e risurrezione di Gesù. L’esclamazione di Pilato “Ecco l’uomo” accompagnata dal gesto che indica un uomo trasformato in un ammasso di carne sanguinante dalla brutale flagellazione, è lo stesso uomo che era stato condotto quella mattina davanti alla corte del governatore come un pretendente al trono regale? È ancora un essere umano?
L’uomo coperto di ferite esprime una profonda verità circa l’essere umano e il suo destino. L’uomo non è niente – questa è la verità del Venerdì Santo, senza la quale non c’è il mattino di Pasqua. Che cosa sappiamo dell’uomo finché evitiamo la possibilità di guardare senza illusioni ai limiti assoluti del suo destino, se non indaghiamo le profondità e distogliamo lo sguardo dall’abisso?
Se Gesù è la parola di Dio per noi, la parola che ha assunto l’umanità nella sua interezza, allora la sua umanità abbraccia non solo la grandezza e la perfezione dell’uomo come immagine ancora incontaminata di Dio (egli il nuovo Adamo) Adamo ancora indenne dalla caduta), ma anche la sua antitesi, l’aspetto oscuro, sfregiato della sorte umana – una destituzione e uno squallore da cui preferiamo distogliere lo sguardo, le nostre orecchie e i nostri cuori.
Al termine del racconto pasquale di Giovanni, le ferite di Gesù vengono nuovamente mostrate e l’apostolo che prima era lacerato dal dubbio esclama: Mio Signore e mio Dio.
Non credo in una fede e in una Chiesa senza ferite
La Pasqua è un esodo – il passaggio da una visione delle ferite di Gesù ad un’ altra, un passaggio dall’ “Ecce Homo”” a “l’Ecce Deus”! Ciò che la Chiesa tradizionalmente esprime con il linguaggio metafisico, delle “due nature”, noi lo possiamo chiamare “due modi di interpretare le ferite di Gesù”. Le ferite di Gesù osservate da due punti di vista suscitano due reazioni, ammantate di due parole – “uomo” e “Dio”. E queste parole che indicano qualcosa di così radicalmente distinto (ma ovviamente profondamente collegato) si possono riferire alla stessa persona. Né Pilato né Tommaso fanno delle dichiarazioni teologiche sulle “nature” di Gesù. Le loro sono dichiarazioni che esprimono un’immediata emozione o emozioni accompagnate dall’esperienza dell’incontro. L’esclamazione di Tommaso è generalmente intesa come espressione di stupore e gioia di un uomo i cui sensi l’hanno convinto della realtà fisica della crocifissione. Come ho lasciato intravedere, forse potrebbe esserci qualcosa di più.
La gioia di Tommaso, la sua “seconda conversione” è stata suscitata da qualcosa che sembra averlo colpito più degli altri apostoli: l’unità in Cristo – l’unicità di Gesù crocifisso e risorto. Le ferite di Gesù ne erano la prova.
Tommaso, vedendo le ferite di Gesù, può esperimentare il compimento delle sue parole: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Egli vede Dio in Gesù e lo vede attraverso l’abisso delle sue ferite.
Si racconta che a San Martino apparve Satana stesso nelle sembianze di Cristo. Il santo tuttavia non fu tratto in inganno. Gli chiese: “Dove sono le tue ferite?”.
Io non credo in “fedi senza ferite”, in una Chiesa senza ferite, in un Dio senza ferite. Solo il Dio ferito attraverso la nostra fede ferita potrebbe guarire il nostro mondo ferito.
Tomáš Halík