La parola coraggiosa
2020/6, p. 5
In occasione del 75o anniversario della fine della seconda guerra mondiale, i vescovi tedeschi riconoscono la responsabilità dei loro predecessori per la mancata
opposizione al Reich e alla sua guerra di distruzione.
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I VESCOVI TEDESCHI A 75 ANNI DALLA FINE DELLA GUERRA
La parola coraggiosa
In occasione del 75o anniversario della fine della seconda guerra mondiale, i vescovi tedeschi riconoscono la responsabilità dei loro predecessori per la mancata opposizione al Reich e alla sua guerra di distruzione.
Un atto di coraggio e un discernimento prezioso: così può essere indicata la dichiarazione dei vescovi tedeschi del 29 aprile, in preparazione ai 75 anni dalla fine della seconda guerra mondiale (8 maggio 1945) con il titolo I vescovi tedeschi nella guerra mondiale. «In conclusione, i vescovi non trovarono alcuna soluzione alla tensione fra l’idea condivisa del dovere patriottico della guerra, la legittimità dell’autoritarismo dello Stato, rispetto ai conseguenti obblighi interiori come ai crimini resi pubblici. Le indicazioni cristiane sulla disciplina di guerra non hanno più trovato risposta. Rimasero inevase le questioni di coscienza dei singoli militari e la sofferenza degli altri. Le dichiarazioni dei vescovi, con tutte le sfumature dovute alle rispettive personalità, si sono frantumate davanti alla realtà della violenza criminale», rimanendo così prigionieri dell’autorità politica e della sua presunta virtù, in una condizione paradossale che Adorno ha definito come «vita giusta nella falsità». Di più: «Non pronunciando un chiaro “no” alla guerra, ma rafforzando, da parte della maggioranza, la volontà di prosecuzione del conflitto, sono diventati complici nella guerra».
Anche noi complici della “società di guerra”
La qualità del giudizio emerge immediatamente se paragonata alle parole episcopali del 24 gennaio 1983 sul tema del rapporto fra Chiesa e nazismo. Allora si riconosceva che «anche nella Chiesa c’è stata colpa», ma in questa formulazione: «Molti membri della Chiesa si sono lasciati trascinare nell’ingiustizia e nella violenza. Ma possiamo anche testimoniare, ancora una volta, che Chiesa e fede sono state fra le maggiori forze di opposizione, addirittura di resistenza, contro il nazionalsocialismo, per certi aspetti anche la forza maggiore … Pertanto non abbiamo il diritto di giudicare a posteriori indiscriminatamente i casi in cui la chiamata alla testimonianza ha indicato a qualcuno la via diretta del confronto aperto, e quella in cui la responsabilità per altre persone ha richiesto una via indiretta, fatta di prudenza e riflessione. Non deve esserci né giustificazione, né accusa, ma solo autocritica».
Il documento recente non teme di affrontare la responsabilità diretta dei vescovi e si sviluppa in quattro parti: l’attualità della memoria; il comportamento dei vescovi cattolici in Germania durante la seconda guerra mondiale; ragioni per capire; insegnamenti per il futuro.
La guerra, le vittime, le perdite, le privazioni, i sensi di colpa, la vergogna e le umiliazioni hanno segnato la vita dei sopravvissuti e delle generazioni tedesche del dopoguerra. E anche i vescovi hanno sentito il dovere di riflettere e visitare la storia recente. Lo hanno fatto più volte a partire dal 1945. Anch’essi sono stati segnati dalle violente migrazioni di popolazioni alla ricerca di una patria ospitante. Solo dopo anni la ricorrenza della fine della guerra è stata avvertita dalla maggioranza della popolazione come un giorno di liberazione. E solo nella Repubblica federale (rispetto alla Repubblica democratica dell’Est) il cammino non ha conosciuto nuovi servilismi alle memorie dei vincitori. Un lungo processo ha collocato l’anniversario nel contesto proprio, cioè il futuro unitario dell’Europa, e la pratica paziente del dialogo e della riconciliazione con i popoli dei paesi vicini (in particolare Francia e Polonia) ha permesso ai tedeschi di riconciliarsi con se stessi assumendo il loro passato. «Per questo coloro che oggi perseguono una società e statualità altre e chiuse, mettono in discussione il largo consenso raggiunto».
Il suono delle campane e il silenzio dei pastori
La guerra è iniziata nel 1939 con l’occupazione della Polonia, la decapitazione delle classi dirigenti polacche, la deportazione di due milioni di persone per i lavori forzati in Germania e l’avvio dell’Olocausto. «Nonostante la distanza sostanziale dal nazismo e talora anche una aperta opposizione, la Chiesa cattolica in Germania era parte della “società di guerra”». Né la repressione, né la guerra di annientamento, né le crescenti perdite tedesche al fronte e neppure i bombardamenti sulle proprie città hanno modificato la sua collocazione. Quando le truppe attaccarono la Polonia si alzò solo una voce critica, quella del vescovo di Berlino Konrad von Preysing. Non ci fu, per altro, una esplicita attestazione di “guerra giusta”, ma quando l’esercito del Reich entrò a Parigi, suonarono tutte le campane delle chiese tedesche. Per oltre quattro anni non ci fu alcuna protesta formale dei vescovi contro la guerra di annientamento e le voci a difesa degli ebrei furono rare. Un primo sussulto di resistenza si ebbe davanti alla legislazione contro l’eliminazione degli handicappati. Solo il 19 agosto 1943 la conferenza episcopale firmò la lettera (I dieci comandamenti come legge di vita dei popoli) in cui si connetteva l’ordine dello Stato con la verità della legge divina, la difesa del matrimonio e della famiglia, il vincolo di obbedienza alla coscienza personale e il diritto incondizionato alla vita e alla proprietà. L’onda dei crimini e dell’orrore devastavano da tempo le coscienze dei militari e dei sopravvissuti al fronte.
Di particolare interesse la terza parte dedicata non alla giustificazione della posizione dei vescovi, ma al tentativo di comprensione delle ragioni che l’hanno favorita. Anzitutto la lunga tradizione che dalle lettere apostoliche attraversa l’intero Medioevo e segna anche i secoli successivi, cioè la legittimità dell’autorità dell’ordine imperiale e politico come dato che ha giustificazione spirituale. È voluto da Dio. Una legittimazione che è proseguita a vantaggio in particolare delle monarchie e dei sistemi autoritari piuttosto che delle nascenti forme democratiche. «È successo così che lo stato tedesco anche dopo che i nazisti salirono al potere e nonostante la loro visione del mondo fosse chiaramente respinta dai vescovi, è stato visto come un potere legittimo da rispettare e da garantire. Nelle condizioni di uno Stato “ingiusto” come quello nazista la posizione della Chiesa è risultata ambivalente e problematica».
Il kulturkampf e il concordato
Una seconda ragione è legata alla teoria della «guerra giusta». Nata con Cicerone, Agostino e Tommaso per limitare la violenza, è diventata nella modernità fonte di giustificazione della stessa, nonostante la drammatica esperienza della prima guerra mondiale. A questo si aggiunga nella prima metà del ‘900 l’ampia accettazione sociale dell’esercito nella vita di tutti i giorni. Il soldato era onorato e riconosciuto e molte delle strutture formative (dalla scuola alle associazioni giovanili) ne riprendevano i metodi e le forme.
Una terza ragione è legata alla tradizione tedesca del Kulturkampf che ha visto il confinamento della tradizione cattolica in un’area culturale e sociale marginale e di seconda qualità. Lo sforzo secolare di pari dignità portava a giustificare le autorità dello Stato. Del resto i vescovi condividevano con l’opinione pubblica il giudizio sul Trattato di Versailles, dopo la prima guerra mondiale, come una umiliazione indebita e ingiusta.
Inoltre, in particolare con l’aggressione nazista alla Russia, il regime poteva giovarsi della radicale opposizione ecclesiale al comunismo. La sistematica persecuzione alle Chiese da parte di Stalin alimentava e giustificava la contrapposizione ideologica e le ragioni del conflitto, con un notevole potenziale di approvazione da parte della Chiesa cattolica.
Anche la firma del concordato col Reich nel 1933 se da un lato aveva legittimato la presenza della Chiesa cattolica, dall’altro rese più precaria l’opera pastorale. Per i nazisti era lo strumento per chiudere la Chiesa nelle sagrestie e veniva usato e strumentalizzato per chiedere un consenso acritico. Solo le crescenti violenze contro monasteri, parrocchie, clero e associazioni resero evidente la disparità fra lealismo ecclesiale e manipolazione del potere governativo.
Infine, la fragilità strutturale della conferenza episcopale, divisa nei tre ceppi (prussiano, bavarese e austriaco) impedì ogni posizione coraggiosa, anche per l’intervento sempre prudenziale del presidente, il card. Adolf Bertram. E questo nonostante le esperienze sempre più drammatiche. Fino alla presa di posizione del 1943.
Esempio per altri
La quarta parte (Insegnamenti per il futuro) valorizza il lungo cammino che ha visto il rifiuto ideologico del nazismo cumularsi progressivamente con il martirio dei testimoni, l’evidenza dell’olocausto e la difesa dei propri fedeli dalle prepotenze dei poteri. «Oggi guardiamo con tristezza e vergogna le vittime e tutti coloro le cui domande esistenziali di fronte ai crimini e alla guerra, sono rimaste prive di una risposta ecclesiale». I lunghi processi di riconciliazione con le popolazioni aggredite e i mutamenti teologici, culturali e sociali dei decenni successivi hanno propiziato un cambiamento rilevante nell’orientamento della Chiesa. Essa difende oggi i diritti inalienabili di tutti e i principi morali dell’ordinamento sociale rispetto a ogni regime e forma statuale. Dall’affermazione di una «guerra giusta» si è passati a quella di una «pace giusta», che è il titolo di una fondamentale riflessione dell’episcopato tedesco del 2000.
La dichiarazione recente si innesta su riflessioni e documenti che hanno via via arricchito gli ultimi decenni. Anzitutto i testi dedicati alla guerra: dal documento del 1983 («Effetto della giustizia sarà la pace») a quello del 2000 («Pace giusta»; esso verrà ripreso prossimamente) e poi quelli legati alla riconciliazione tedesco-polacca (iniziato con uno scambio episcopale del 1965, ricordato e arricchito nei decenni successivi) e tedesco-francese (come il documento comune delle Commissioni giustizia e pace dei due episcopati del 2002). Si possono aggiungere le dichiarazioni legate al ricordo della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, quelle comuni alle due Chiese tedesche maggiori e le prese di posizione rispetto a fenomeni violenti nuovi come il terrorismo (2011).
Un magistero che risponde alle particolari condizioni della storia tedesca, ma che suona come esempio per molti altri episcopati. È indicativo che né Italia, né Francia, né Spagna abbiano avuto spazio per una riflessione similare per quanto riguarda l’atteggiamento dei vescovi rispetto al regime fascista, al regime di Vichy e a quello di Franco. È anche uno stimolo per le Chiese dell’Europa centrale e orientale per rivedere criticamente e onestamente i decenni che dalla seconda guerra mondiale sono terminati con la caduta dei regimi, senza sudditanze verso le ingiustificate pretese dei poteri politici di fissare ideologicamente le verità storiche.
Lorenzo Prezzi