Grassilli Michele
Una mentalità difficile da cambiare
2020/5, p. 36
Nel solco dell’evento conciliare, si è passati da un atteggiamento antigiudaico plurisecolare a nuovi percorsi di dialogo e di amicizia che hanno permesso alla Chiesa di riscoprire il valore teologico del suo legame intrinseco e vitale con l’ebraismo.

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LA TEOLOGIA DELLA SOSTITUZIONE
Una mentalità difficile da cambiare
Nel solco dell’evento conciliare, si è passati da un atteggiamento antigiudaico plurisecolare a nuovi percorsi di dialogo e di amicizia che hanno permesso alla Chiesa di riscoprire il valore teologico del suo legame ‎intrinseco e vitale con l’ebraismo.
Capita ancora troppo spesso di ascoltare nella predicazione o nella catechesi, o anche in discorsi non strettamente ecclesiali, frasi che rivelano uno schema sostitutivo nel modo di pensare i rapporti tra Israele e la Chiesa. Solitamente, chi le pronuncia non ne è consapevole, nel senso che non ne percepisce la portata e ignora la storia che sta dietro a quelle affermazioni. Solo a titolo di esempio, riportiamo alcune tra le “massime” più infelici: «La Chiesa è il nuovo popolo di Dio (o il vero Israele) al posto del popolo ebraico», «l’antica alleanza si contrappone alla nuova alleanza», «il Vecchio Testamento è inconciliabile con il Nuovo Testamento» e «Gesù, Maria e i primi discepoli sono cristiani». Questi esempi, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri, sono accomunati dalla cosiddetta teologia della sostituzione, un modello di lettura del rapporto cristiano-ebraico che può essere schematizzato in tre punti:
1) anticamente il popolo ebraico è stato eletto da Dio per portare nel mondo la sua rivelazione;
2) rifiutando e uccidendo Gesù, il Messia, il popolo d’Israele ha perduto l’elezione;
3) la Chiesa ha sostituito il popolo ebraico e si considera vero/nuovo Israele.
Questa impostazione possiede una grande forza, perché anche se non è stata ufficializzata come dogma dal magistero, purtroppo ha dominato per molti secoli la visione cristiana e ancora oggi rimane presente in forma più o meno latente nel pensiero di molti cristiani. Con il Concilio Vaticano II, la comprensione che la Chiesa cattolica ha di se stessa in relazione all’ebraismo è radicalmente cambiata, come mostra la dichiarazione Nostra aetate (NA n. 4) che si apre con queste parole: «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo».
Nuovi percorsi di dialogo
Nel solco dell’evento conciliare, si è passati da un atteggiamento antigiudaico plurisecolare a nuovi percorsi di dialogo e di amicizia che hanno permesso alla Chiesa di riscoprire il valore teologico del suo legame ‎intrinseco e vitale con l’ebraismo. E anche papa Francesco sintetizza: «Come cristiani, non possiamo considerare l’ebraismo come una religione estranea» (Evangelii Gaudium, n. 247).
Occorre quindi riconoscere ‎eventuali strascichi di sostituzionismo che continuano ad alimentare l’antigiudaismo cristiano, a volte anche in maniera inconsapevole. Lasciando da parte i pregiudizi antisemiti, che purtroppo si riscontrano ancora in alcuni ambiti cristiani, puntiamo l’attenzione sugli stereotipi riportati all’inizio, che sono altrettanto difficili da sradicare. I problemi sono acuiti dall’elevata possibilità di fraintendimenti nell’interpretazione delle medesime parole, che possono essere intese sia in senso sostitutivo che in senso non sostitutivo. Contrapporre la Chiesa nuovo popolo di Dio all’antico popolo di Dio, o raffigurare la Chiesa come vero Israele al posto dell’Israele antico è sbagliato perché il ruolo e l’alleanza di Israele non sono mai venuti meno: anche nel tempo messianico, infatti Dio continua ad amare il suo popolo Israele e lo amerà sempre. Quando il Concilio recupera l’immagine della Chiesa come popolo di Dio (cf. Lumen Gentium cap. II) non sostituisce la Chiesa a Israele; al contrario, vuole sottolineare la continuità della storia della salvezza nel tempo inaugurato dal Messia, quando i doni di Dio si estendono anche oltre i confini del popolo ebraico, cioè ai gentili. I documenti del Concilio sono chiaramente inclusivi e tralasciano, come aveva chiesto Giovanni XXIII, ogni forma di condanna e di esclusione. Allora l’espressione “popolo di Dio” per indicare la Chiesa assume un senso aperto che non è riducibile a un unico livello, ma implica un essenziale riferimento a Israele, come mostra per esempio l’uso liturgico dei Salmi, condivisi da ebrei e cristiani.
Popolo rinnovato dallo Spirito
Quindi il termine “nuovo popolo di Dio” non va inteso in senso sostitutivo nei confronti di Israele quale “vecchio popolo di Dio”, ma in senso escatologico di “popolo rinnovato dallo Spirito”. Infatti, la dinamica storica e teologica della fede cristiana conosce due tempi: a) l’evangelizzazione del Gesù terreno rivolta essenzialmente a Israele; b) l’evangelizzazione dei discepoli nel tempo post-pasquale che raggiunge anche le genti. Inoltre, occorre tenere presente che nel NT non si trovano racconti di gentili che predicano il vangelo agli ebrei e neppure racconti della separazione tra ebrei e cristiani come membri di due religioni diverse: i credenti in Gesù provenienti da Israele e dalle genti si collocano ancora all’interno del variegato mondo giudaico del I sec. d.C. che attraversa la grande crisi della distruzione del tempio nel 70 d.C.‎
Una variante del pensiero sostitutivo riguarda il rapporto tra antica e nuova alleanza, dove l’antica è vista erroneamente come ormai obsoleta e superata dalla nuova, quasi che l’alleanza fosse comparabile a un oggetto di consumo. Questo pregiudizio si radica in una lettura superficiale della profezia di Geremia (Ger 31,31-34) che, cancellando l’unitarietà della storia della salvezza, abolisce completamente l’antica alleanza con la casa d’Israele – come invece dichiarato dal testo –, e chiama in causa solo la Chiesa. A volte, a sostegno di questa lettura si invoca la Lettera agli Ebrei (Eb 8,6-13) che cita estesamente il testo di Geremia e sembra avvalorare la teologia della sostituzione. Tuttavia la Lettera agli Ebrei non mette a confronto antica e nuova alleanza in modo assoluto, ma in relazione alla capacità che avevano i sacrifici offerti a Dio nel tempio di Gerusalemme, rispetto all’efficacia del sacrificio di Gesù. Per l’autore della Lettera, Cristo espia i peccati con un’efficacia superiore a quella del tempio in una determinata epoca storica, cioè quando esso è ormai già stato abbattuto o è a rischio di distruzione. Quindi sottolineare il limite e la precarietà del tempio non autorizza a ripetere la stessa operazione nel valutare la sorte del popolo in quanto tale. Anche perché se Dio è fedele alle sue promesse e «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29), come è possibile che la nuova alleanza in Cristo sostituisca quella precedente? È impossibile. L’alleanza con il popolo eletto da Dio rimane in vigore e la Chiesa (formata da credenti provenienti da Israele e dalle genti) non sostituisce Israele, ma si inserisce nella dimensione del compimento. Pertanto, invece di contrapporre Israele e Chiesa occorre recuperare una visione più aderente a quella biblica e immaginare una storia dell’alleanza che conosce singoli patti (con Noè, Abramo, Mosè, ecc…) e un compimento con Cristo.
Pieno compimento messianico
Un’ulteriore forma sostitutiva è la contrapposizione tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Anche questa è molto problematica e antica, perché ricalca quanto Marcione aveva predicato già nel II secolo. Egli sosteneva che ci sono due divinità: da un lato, il Padre buono di Gesù che è nei cieli e dall’altro, la divinità crudele delle Scritture di Israele. In realtà, però si vede che Marcione rifiuta il legame della rivelazione con la storia e anche nel caso della figura di Gesù, lo priva della sua umanità ebraica per trasformarlo in un dio disincarnato che abolisce la Legge e i Profeti. Non a caso Marcione, oltre a rifiutare le Scritture ebraiche, accoglie come Parola di Dio solo il Vangelo di Luca e alcune Lettere di Paolo da cui elimina le citazioni e i riferimenti all’AT.
Ci sembra pertanto che la riscoperta dell’ebraicità di Gesù e di coloro che per primi lo seguirono possa aiutare a calibrare meglio il rapporto tra l’Antico (o il Primo) e il Nuovo Testamento. Affermare che «Gesù è ebreo e lo è per sempre» permette di evitare la raffigurazione di un Gesù astratto e di sottolineare la realtà dell’incarnazione nella storia e nella geografia giudaica. Un elemento peculiare (l’identità ebraica) fonda l’apertura universalistica: il salvatore che «viene dai giudei» (Gv 4,22) è «il salvatore del mondo» (Gv 4,42). Occorre quindi spiegare, attraverso la predicazione e la catechesi, che il giudaismo del primo secolo era molto più variegato di quanto lo possiamo immaginare, che i confini tra ebrei e cristiani erano più fluidi e che la «separazione delle strade» tra cristianesimo ed ebraismo è un fenomeno posteriore agli scritti confluiti nella Bibbia. La chiave di lettura più adeguata si trova nelle parole di Gesù del discorso della montagna: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Si potrebbe anche parafrasare: «Non sono venuto ad abolire l’alleanza o Israele, ma a portarli a compimento». In Gesù le Scritture sono valorizzate e l’idea di compimento messianico non esclude affatto una pienezza futura, alla fine dei tempi. Leggere le Scritture a partire dall’ebraicità di Gesù e del compimento messianico, queste sono le chiavi interpretative più adeguate sul piano storico e teologico per cogliere la relazione profonda che lega Chiesa e Israele. Certamente è necessario ascoltare di più e conoscere meglio l’ebraismo così come si autodefinisce oggi e, a partire da questo ascolto, elaborare un insegnamento cristiano sugli ebrei e Israele. Solo così si potrà abbandonare definitivamente ogni residuo di teologia della sostituzione e sciogliere le questioni che rimangono ancora aperte, per esempio, come concepire l’universalità della salvezza in Cristo in rapporto alla situazione specifica del popolo ebraico. Per un ulteriore approfondimento rimandiamo al libro di Piero Stefani, «Gli uni e gli altri». La Chiesa, Israele e le genti. Una ricerca teologica, Nuovi saggi teologici, EDB, Bologna 2017. Infine ci piace concludere con le parole di NA n. 4: «E quantunque la Chiesa sia il nuovo popolo di Dio, i giudei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Pertanto tutti facciano attenzione a non insegnare nulla, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, che non sia conforme alla verità del vangelo e dello spirito di Cristo». Molti segnali ci mostrano che purtroppo queste parole non sono state ancora integralmente ‎recepite.‎
Michele Grassilli