C’erano una volta le «case di formazione»
2020/5, p. 24
Se in questi 60 anni non si sono fatti passi in avanti è stato anche perché la VC ha
continuato a rispondere agli interrogativi dei tempi nuovi con scelte troppo spesso
fuori ambito culturale, dove spicca la teoria più che la pratica.
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UN CAMBIAMENTO EPOCALE
C’erano una volta le «case di formazione»
Se in questi 60 anni non si sono fatti passi in avanti è stato anche perché la VC ha continuato a rispondere agli interrogativi dei tempi nuovi con scelte troppo spesso fuori ambito culturale, dove spicca la teoria più che la pratica.
Ce n’erano tante! Sessant’anni fa, ad esempio, nella diocesi di Trento se ne contavano (in riferimento ai religiosi e religiose) cinquantadue. Oggi più nessuna.
Il capovolgimento culturale che ha investito l’occidente ha cambiato quasi tutto; l’unica a illudersi di non dover cambiare è la VC, per cui oggi, nelle terre di antica cristianità, fatica molto a trovare il luogo storico ove manifestare i propri consueti valori. Ciò è dovuto al fatto che le forme in cui essa si esprime, e alle quali è orientata tutt’oggi la formazione, possono trovarsi bene solo in una determinata forma storica e sociologica e non al di là o al di sopra di essa. Ma i religiosi/e «nonostante tanti semafori rossi, hanno continuato ad andare avanti secondo moduli che hanno già fatto vedere da tempo di essere sbagliati», o quantomeno troppo spesso fuori contesto culturale e quindi bisognosi per poter essere nel futuro, di nuovi schemi esemplari da cui emerga soprattutto un’abbondanza di vita come manifestazione di una umanità evangelica gioiosa.
Oggi si rende indispensabile una riflessione
sull’efficacia dell’attuale formazione
A questo riguardo un segnale istituzionale molto eloquente viene dal documento «Per vino nuovo otri nuovi» n.35, che così si esprime: «Come un tempo, dopo il Concilio di Trento sono nati seminari e noviziati per la formazione iniziale, oggi siamo chiamati a realizzare forme e strutture che sostengano il cammino di ogni consacrato verso la progressiva conformazione ai sentimenti del Figlio» (Fil 2,5).
Che il conosciuto impianto strutturale-istituzionale della formazione non abbia sortito gli esiti attesi, sono in molti a dirlo. Mi è capitato più di qualche volta sentir dichiarare da esponenti istituzionali: «penso di poter dire che questo curriculum formativo abbia ormai fatto il suo corso».
Oggi questa consapevolezza la si coglie anche alla base, rilevabile attraverso una domanda ricorrente in molti Istituti: «com’è possibile che nonostante l’impegno di molte generazioni nell’investire in strutture di formazione, ci si scopra carenti di formatori, e a livello di comunità, carenti di religiosi/e che rendano ragione, in forma appellante, della propria scelta di vita?».
È innanzitutto necessario soffermarci su che cosa si intende con il termine formazione. La formazione, diceva Kurt Levin, è paragonabile ad un cambiamento di cultura e non può darsi cambiamento di cultura se non attraverso un processo di gruppo. Solo spazi di reciproco, autentico incontro possono incidere sui modi di vita e i bisogni reali delle persone. Formazione allora non significa istruzione, conoscenza o una realtà accademica rinchiusa in tante ermeneutiche che non hanno la mutevolezza della vita, ma è presa di coscienza, possibilità di ritrovare tempi e luoghi che permettano il confronto, la condivisione di idee e di scelte, la messa in comune di suggestioni e di utopie che possano dare un futuro e un "di più" di senso a ciò che facciamo e siamo, che serva a introdurre a quella vita che la persona pensa di abbracciare. Questo porta a pensare che l’orientamento del pensiero e conseguenti stili di vita si trasmettono preferibilmente per contagio, parola che allude alla dinamica del virus il quale per sua natura o contagia o immunizza. Conseguentemente la formazione alla vita evangelica non sta nella proposizione di nozioni in ambienti dove prevale la teoria più che la pratica, i discorsi più che i fatti, e dove i fatti non di rado contraddicono i discorsi.
Può essere utile far memoria che la proposta vocazionale di Gesù è stata tutta in queste parole «vieni e vedrai». Dunque non inviava a scuole strutturate secondo il modello formativo rabbinico, ma invitava a validare il desiderio di sequela mettendosi accanto ad altri fratelli e sorelle attraverso cui apprendere a vivere la vita normale come vita nuova; persone che sembrano dire: «non ti insegno a nuotare facendoti sdraiare sul pavimento di una palestra, ma buttandoti in acqua». È- ad esempio - la storia della “Comunità di sant’ Egidio” nella quale il cammino formativo – scrive A. Riccardi – è frutto del «mistero della comunione per cui quando ci si inserisce dentro una storia non si ha bisogno di fare un noviziato, in cui si spiega tutto quello che è successo e si studiano tutti gli scritti dei fondatori e altre cose del genere: ci si inserisce piuttosto in una storia attraverso la comunione, leggi il Vangelo, servi i poveri e capisci magari molto rapidamente … Insieme, chi è arrivato alla prima ora e chi nell’ultima, ci si siede sulle spalle dei giganti e si guarda in avanti».
Ora in un tempo in cui ai religiosi/e si chiede di essere sale, luce, e lievito, che impregni dal di dentro questo mondo, la formazione non può accontentarsi di portare a una «adesione a Dio cerebrale, non vitale fatta di teorie e formule, ma meno di vita: tutte cose che non portano alla fedeltà», ma deve accompagnare a vivere nel quotidiano la trasparenza esemplare di ciò che può rendere piena e bella la vita quale prolungamento dei gesti di Cristo, eco delle sue parole, moltiplicazione delle sue mani.
È a questo tipo di formazione che devono il loro provvidenziale sviluppo le nuove forme discepolari, nessuna delle quali ha mai pensato di ricorrere a cammini formativi istituzionali al di fuori della vita di fraternità se non per la formazione di competenze di ruolo.
«Di fatto è la fraternità il luogo
di eminente formazione continua»
Anche questa espressione si trova nel già citato documento «Per vino nuovo otri nuovi» n.36, ove si dice di «promuovere una vita fraterna in cui gli elementi umanizzanti ed evangelici trovino equilibrio affinché ciascuno si senta corresponsabile e al tempo stesso sia riconosciuto indispensabile per la costruzione della fraternità. Ne consegue che «la formazione è davvero continua solo quando si compie nella realtà di ogni giorno».
A rendere possibile questo è la scelta di ritornare a prendere sul serio quel rivoluzionario ordinamento di vita di comunione – proposto da Cristo – che è la fraternità quella che dice famiglia, cioè dove si crea il clima di “casa” l’unica capace di generare e di rigenerare gli strumenti esteriori di quella comunione che porta ad essere attenti al riconoscersi dai volti e non dai ruoli e dalle maschere. Famiglia al cui interno, leader è innanzitutto la vita d’insieme dove ciascuno sollecita nell’altro le sorgenti della comunione, a cui si arriva abilitandosi alle relazioni che nascono dall’incrociare sguardi, preoccupazioni, desideri, riflessioni.
Queste espressioni intendono dire che non c’è comunità senza un vero «incontro» nella normalità di vita e che la comunità diventa «sacramento» di salvezza, dove e quando c’è quella comunicazione reale che si fa benevolenza, tenerezza, giovialità, semplicità, mitezza, volontà di servire. È all’interno di siffatta famiglia che è dato di saper far incontrare la libertà dei singoli e la socialità; soggettività e comunitarietà, il tutto all’interno di forme leggere, non aziendali, accoglienti, dove essenziali sono la preoccupazione per il bene degli altri e la disponibilità ad aiutarsi.
Ed ancora è in questa forma di fraternità che è data la possibilità ai fini formativi, di «un continuo atteggiamento di ascolto (ob-audire) e di condivisione di appelli, problematiche, orizzonti dove ciascuno è chiamato a lasciarsi toccare, educare, provocare, illuminare dalla vita e dalla storia, dai poveri e dagli esclusi, dai vicini e dai lontani». E dove inoltre è più facile la valutazione positiva delle sfide culturali, della vita come processo sempre aperto, al discernimento, alla lettura dei segni dei tempi e dei bisogni sempre nuovi della gente, alla coerenza tra il dire e il fare. E non ultima la ricerca della comunione ecclesiale. Orizzonti, questi, irrinunciabili a quella formazione-motivazione – come dice Jacques – di cui c’è bisogno a vent’anni quando si inizia, e ce n’è bisogno a quaranta, «fase della vita dove la consapevolezza della propria individuale finitezza richiede una rielaborazione del proprio percorso di vita», caratterizzati dall’ «essere con», prima di «lavorare per».
«Siamo esauriti per il bene che facciamo
ma facciamo fatica a far vedere il Signore»
Se il vangelo è la buona notizia di una vita piena, come mai allora questa luce traspare così poco nelle nostre vite, nelle nostre comunità e anche nelle sedi formative?
Ciò è dovuto al fatto che oggi i religiosi e le religiose sono visti come testimoni di una VC più professionalizzata che testimonianza del Dio della vita, non consapevoli che la questione non è ciò che fanno, ma quella «vita» che dà attualità ai gesti di Cristo nel suo modo di essere e di fare trasparenza esemplare di ciò che può rendere piena e bella la vita. P. Schalück (Generale emerito ofm) ebbe a dire: «la nostra missione fondamentale sta nella capacità di creare spazi di incontro dove Dio può essere sperimentato pure oggi». È in questo che la VC si fa levatrice del desiderio di Dio.
Se questo non è reso evidente sarà impossibile per i religiosi/e far percepire alle nuove generazioni la bellezza della loro particolare eredità. In riferimento a ciò, p.M.Rupnik scrive: «ho conosciuto ragazzi e giovani, zelanti, disponibili, entrare in diverse congregazioni ed ordini religiosi e nel giro di pochi anni diventare spenti, spiritualmente impigriti, trascurati, con la testa piena di tante cose superflue, inutili. E ne ho visti altrettanti uscire, amareggiati e delusi pure della fede perché il Signore non l’hanno visto». E ancora: «talvolta mi sorprendo ad osservare come novizi o giovani professi abbiano assunto la politica dell’oca: la puoi bagnare quanto vuoi ma con una scrollatina di ali si è già liberata dell’acqua».
«Appare evidente la necessità di una riconsiderazione
della teologia della VC nei suoi elementi costitutivi»
Oggi a dirlo è la Congregazione della vita religiosa in «Per vino nuovo otri nuovi» n.38.
Se in questi sessant’anni non si sono fatti passi in avanti è stato anche perché la VC ha continuato a rispondere agli interrogativi dei tempi nuovi con le conosciute usurate impennate identitarie, troppo spesso fuori ambito culturale, dove spicca la teoria più che la pratica.
Non si può certo negare che «secoli di teologia, spiritualità, diritto canonico basati sulla ricerca delle sue distinzioni abbiano complicato un po’ tutto». Ed è per questo che a fronte della svolta antropologica contemporanea, i contorni della sua teologia e della sua etica risultano oltre misura sfuocati. A dirlo è anche p. B. Sorge: «le categorie filosofiche e teologiche della neoscolastica, in parte usate anche dai padri del Concilio, oggi non ce la fanno più».
Di cose cristallizzate è piena la vita religiosa per cui ora è incapace di liberarsi da frasi e parole obsolete diventate abituali, e lo è quanto più una data realtà per secoli è stata sacralizzata ed è andata avanti supportata da verità virtuali espresse con parole senza senso per l’attuale sensibilità culturale.
Oggi, tempo in cui non si può considerare più sacra la storia che il Vangelo, è dunque tempo di liberare la teologia dai sedimenti più o meno parassitari che si è portata dietro, facendoci eredi di troppe cose di non chiara matrice evangelica. Si tratta di manifestare un’altra qualità di vita religiosa in grado di suscitare una differente «intelligenza» di sé, che promuova una nuova comprensione e conseguente organizzazione. Ma, a tal fine, per aver forza di provocazione nei riguardi dell’odierna vicenda umana la VC deve innanzitutto essere ri-armonizzata con la vita corrente attraverso nuovi schemi esemplari, specialmente quelli che riguardano la persona, la spiritualità, il modo di sentire l’istituzione, l’autorità, la vita comunitaria.
Concludo portando all’attenzione in particolare una omissione che il noto teologo p. Bruno Secondin giustamente rimproverava alla teologia, di «non aver saputo immaginare e improntare una VC come statuto aperto che le permettesse una continua creatività, e perfino “lo spreco” – come olio profumato di nardo purissimo (Mt 26,6-9) – e le acconsentisse una audacia responsabile e profetica fra i nostri contemporanei, per non venire considerata soltanto una riserva di forze per problemi ordinari».
Per questa meta la VC ha bisogno di sentire che la sua indefinibilità quale figura ecclesiale, è provocazione a cercare sempre più avanti, per poter essere annunzio di un “oltre”.
Rino Cozza csj