Cari lettori e care lettrici,

la straordinarietà del tempo che viviamo, a motivo della pandemia del Covid-19, ci consente – in accordo con il Centro Editoriale Dehoniano – di offrirvi gratuitamente in formato digitale (PDF) il numero di aprile della rivista Testimoni.

Non essendo garantiti i tempi di lavorazione e consegna desideriamo comunque offrire agli abbonati la lettura degli articoli della rivista e dare occasione ad altri di poterla conoscere e apprezzare. 

Testimoni, storica rivista del Centro Editoriale Dehoniano, si propone di accompagnare il cammino delle comunità religiose, dei consacrati e delle consacrate, mettendo al cuore del suo programma le attese di papa Francesco, per aiutare i religiosi a leggere i segni dei tempi, a discernere ciò che oggi lo Spirito dice alla Chiesa.

 

Buona lettura.

La redazione di Settimana News
e il Centro Editoriale Dehoniano

Cozza Rino
"Vendemmie malfatte" e "viti malpotate"
2020/4, p. 29
«Come sopperire alle acide conseguenze di una “vendemmia mal fatta” e di “viti mal potate”?». Sono parole con cui il documento “Per vino nuovo in otri nuovi” evidenzia il deficit di molti Istituti sia nel discernere (vendemmia), che nel formare (potare) le eventuali vocazioni.
VINO NUOVO IN OTRI NUOVI
«Vendemmie malfatte»
e «viti mal potate»
«Come sopperire alle acide conseguenze di una “vendemmia mal fatta” e di “viti mal potate”?» Sono parole con cui il documento “Per vino nuovo in otri nuovi" evidenzia il deficit di molti Istituti sia nel discernere (vendemmia), che nel formare (potare) le eventuali vocazioni.
Nessuno versa vino nuovo in «otri» vecchi (Mc 2,22). L’«otre» della parabola è un recipiente di pelli morbide che solo se nuovo è in grado di dilatarsi per favorire il respiro del vino novello in continua ebollizione.
La società non è ostile agli attuali «otri» della VC (schemi ideologici e istituzionali, dottrina, diaconie, strutture) ma semplicemente indifferente. È proprio sul piano dell’estraneità più che su quello dell’esclusione che si pone la sua difficoltà, quella che sta riducendo molti Istituti a delle realtà «biologicamente» sterili.
Ciò è dovuto al fatto che la durata di ogni istituzione religiosa si iscrive nella visione dell’uomo e dei bisogni di un dato tempo, per cui nell’epoca del tramonto di tutte le culture storiche, alla VC non rimane che inventare nuove forme di vita individuale e collettiva; cosa non facile in un tempo in cui le «identità prescritte» nelle quali trovare i lineamenti del proprio volto sono finite; in un tempo, inoltre, in cui «le sue forze in grado di produrre un effetto positivo stanno esaurendosi o si sono trasformate nelle energie di un umanesimo profano», assorbite «dall’arginare i problemi piuttosto che immaginare dei percorsi».
Siamo nel tempo di «vendemmie mal fatte»
Con questi termini si intende dire che l’attuale pericolo sta nel non saper discernere le «uve» buone da quelle che non lo sono ai fini – fuori metafora – di poter diventare, in quanto religiosi/e, «uomini e donne – dice il Papa – capaci di una scossa in grado di svegliare il mondo intorpidito».
Ciò che ha reso critica la capacità fecondativa della vita religiosa non è la mancanza di vocazioni, come si è soliti dire per discolparsi, ma è la sua vita opaca, il suo respiro che non ha più molta familiarità con l’evangelico, perché «attanagliata da una anemia spirituale che l’ha portata a installarsi nella mediocrità», conseguenza anche della facile accoglienza di gente non idonea.
Ancora oggi – ma non da adesso – «pur di avere novizi, si accettano candidati senza spessore umano di intelligenza evangelica e comunione, finendo per innescare un circolo vizioso in cui il nucleo senza qualità attirerà sempre più candidati di questo tipo, e per contro, respingerà quanti sono alla ricerca di una vita religiosa solida». Da qui il dire del perito conciliare M. Tillard: «oggi le personalità più forti e quelle più avide di un dono radicale al Signore le passano accanto sfiorandola».
La storia – disse J. Carballo - «è costellata di vicende in cui la scelta della vita religiosa da parte di persone mediocri è stata da queste scambiata con la sicurezza»: bisognerà quindi stare attenti a quelli che vengono soltanto perché non sanno dove andare a finire. Gente alla ricerca di una organizzazione o di un gruppo abbastanza forte da compensare la debolezza della propria identitภgente che poi attuerà via-via un ambiente formativo trascurato, privo di interiorità, mancante di passione, inetto alla testimonianza.
Penso siano da tenere in buona considerazione anche altre inadeguatezze, di facile lettura, suggerite da Enzo Bianchi: ne riporto alcune.
«Chi entra in comunità senza qualifica rischia di finire impiegato in tanti lavoretti, in impegni manuali quotidiani e non creativi che a lungo andare causano frustrazione, rivendicazione dello status di vittima e a volte addirittura accuse di sfruttamento. Le energie allora si annichiliscono, la conflittualità cresce e l’irritazione si fa permanente».
Ancora: «se per esempio si accolgono senza discernimento persone con fragilità psichiche, il loro numero tenderà a crescere per simbiosi, finendo facilmente per paralizzare la vita comune rendendo impossibili riunioni comunitarie, incontri fraterni, assunzioni di responsabilità».
Inoltre «se in una comunità aumentano a dismisura coloro che non amano leggere, la fraternità non potrà reggersi dignitosamente e non assicurerà trasparenza e significato alla sua testimonianza: all’orizzonte si profilerà non solo la crisi, ma la decadenza».
Siamo inoltre nel tempo di «viti mal potate»
Il «potare» allude qui a degli interventi in funzione di una sana «uva» e dunque di un «buon vino», da parte di coloro cui è stato dato il compito di «accompagnare» (formare) coloro che bussano alla porta della vita consacrata.
Che cosa significa accompagnare-formare partendo dal fatto che al cuore della “consacrazione” non si pone – non dovrebbe porsi – una ideologia o una funzione, ma un «evento», un «incontro» ricco di stupore e di fascino, tali da cambiare la vita?
Significa mettersi a servizio delle persone per aiutarle a trovare la porta segreta che apre al «sé», all’«io» profondo, autentico, dove non ci sono menzogne, per poi arrivare alla percezione di essere abitati da una presenza, attraverso cui tutto acquista significato positivo, anche la sofferenza. Se questa è la finalità allora non è vera formazione quella sbilanciata sulla trasmissione di contenuti specifici, piuttosto che nell’aiutare a cambiare la persona in una forma dell’«io» in rapporto a quella di Cristo, tenendo in unità ciò che in Gesù si salda e armonizza: l’umano e il divino.
Ancora: c’è formazione nel far crescere ogni uomo e donna di buona volontà nella capacità di appropriarsi di quel felice esercizio della libertà realizzato da Gesù quale principio di uno stile di vita redento: «libertà rispetto alle opere e alle cose, libertà per amare coloro che incontriamo, nelle situazioni umanamente difficili con i più piccoli e i più poveri», senza prescindere – direbbe papa Francesco – «da uno stile di vita fatto di generosità, distacco, sacrificio, oblio di sé, creatività, autenticità».
C’è inoltre formazione nell’«educare a desiderare», la cui forza sta nel rendere possibilii «sogni» di cui parla Gioele (At 2,17). È fondamentale formare al desiderio (dal verbo latino de-siderare, cioè guardare il cielo e le stelle…l’oltre); vale a dire educare alla trascendenza, all’inquietudine della ricerca di Dio». Senza il desiderio che allarga il cuore, ogni meta, anche l’amare Dio, si fa ardua: diversamente, è il desiderio che è capace di far sì che il piacere di amare Dio appartenga ai bisogni sentiti. Questa può sembrare una forma debole di educazione, ma forse è quella privilegiata.
Non sono invece buoni accompagnatori coloro che confondono il «cammino», con il manuale di marcia, rendendo attenti ai cartelli (codice della strada) più che ai panorami che il cammino, strada facendo, dischiude agli occhi, alla passione, al desiderio. Come non sono buoni accompagnatori coloro il cui discorso formativo è fatto di formule tramandate udite mille volte, che si ripetono stancamente, senza più la forza di stupire, sconvolgere, provocare a pensare come invece faceva il linguaggio evangelico di Gesù.
Non è qui detto tutto quello che si potrebbe dire. Ma non si può tralasciare di mettere in evidenza che se la VC è quella forma vitae che si riconosce innanzitutto in una configurazione particolare di esistenza che è la «fraternità», allora è proprio questa che deve essere posta come obiettivo primario per una vita quale forma gioiosa dell’amore espresso nel farsi fratelli, sorelle, padri, madri da parte di persone formate ad essere in qualche misura «maestri della sapienza del cuore con il farsi prolungamento dei gesti di Cristo, eco delle sue parole.
Questo modo di essere fraternità non è soddisfatto dal «fare comunità», ma richiede di saper elaborare e trasmettere un’arte di vivere nella umanità dei gesti, nell’immediatezza della spontaneità, nel perdono, nella rilevanza che acquistano i sentimenti, nutrimento ed energia della psiche. È soltanto attraverso vissuti, relazioni intense che tu scopri ogni volta la ricchezza del progetto che tu stesso sei, rendendoti conto di avere un significato per gli altri, e viceversa sentire che gli altri hanno un significato per me.
In questo tipo di fraternità sono chiamati a riconoscersi – oggi più che mai – non soltanto i religiosi e le religiose ma anche quei laici e laiche che guidati dal di dentro perché abitati dalla stessa interiorità di un fondatore, scoprono una sintonia, una consonanza vocazionale infusa dallo Spirito Santo. Ciò richiede la necessità di ricreare spazi non organizzati in modo piramidale, accoglienti di vita, dove ci si possa, insieme religiosi e laici, condividere la stessa sete di vita, e sentirsi gli uni e gli altri a casa propria. Spazi di incontro dove al centro ci sia quella Parola di Dio che fa uscire dal regime delle “spiritualità” sorte nei secoli dell’esilio della Parola di Dio, e che hanno dato origine e ispirazione a molti istituti di VC. È in ciò che si intravvede il nuovo che avanza.
Per una nuova aurora della VC
La comprensione delle tante forme di vita presenti nella Chiesa, nonostante resistenze e nostalgie è radicalmente mutata: non c’è più una «via migliore», uno «stato di perfezione» che sia riservato ai religiosi. Ci sono solo modalità diverse di vivere la comune vocazione alla santità e la ricerca della compiutezza (perfezione) nella sequela quotidiana. Questa è l’unica vocazione: è universale, e si concretizza in una infinità di possibilità, tra le quali la vita religiosa. La radicalità sta nella trasparenza dell’azione di Dio con il dare pienezza di credibilità al Vangelo, nella sua essenzialità, a partire dal fatto che la trasparenza non è garantita a priori da alcuna forma vitae.
Uno dei punti da cui partire «in obbedienza allo spirito dell’evangelo – scrive E. Bianchi – sta nel riequilibrare il rapporto fra vita cristiana e vita religiosa. Questo squilibrio manifestato dall’uso di metafore, di esaltazione nella definizione della vita religiosa e dello status celibatario da essa richiesto, si è spesso nutrita di argomenti apologetici e dualistici di derivazione filosofica greca piuttosto che autenticamente biblica, e ha poi ispirato spiritualità di fuga dal mondo (intesa come separazione dalla compagnia degli uomini), di evasione dalla storia, di disprezzo del corpo e delle realtà create, di cinismo e angoscia nei confronti della sessualit��, favorendo un ideale di santità sacrale e morale ispirato a separatezza più che a comunione». È tempo allora che la VC passi «dalla separazione alla «compagnia», perché la sua identità non può essere una identità esclusiva ma solo una identità «comunicativa» od «ospitale».
Si tratta di ripensare la trascendenza e la categoria del sacro svincolati dalla contaminazione di una cultura prescientifica ormai superata, e da una condotta arcaica non in pari con la coscienza etica attuale.
La teologia della VC ha dunque il compito di offrire una fenomenologia del cristianesimo credibile anche per l’oggi, riscoprendo l’esperienza cristiana oltre i limiti troppo rigidi in cui la dogmatica e la morale rischiano di confinarla.
Rino Cozza csj