Un’esperienza di fraternità missionaria
2020/3, p. 31
Questa è un’esperienza di Chiesa, nata e cresciuta con un forte radicamento nella
Chiesa locale e parrocchiale. Sottovoce, vorremmo quasi offrire alle diocesi un piccolo modello di Chiesa sinodale, accogliente che annuncia il Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona, con gioia.
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IN PERIFERIA A MILANO
Un’esperienza di fraternità missionaria
Questa è un’esperienza di Chiesa, nata e cresciuta con un forte radicamento nella Chiesa locale e parrocchiale. Sottovoce, vorremmo quasi offrire alle diocesi un piccolo modello di Chiesa sinodale, accogliente che annuncia il Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona, con gioia.
Un parroco e una famiglia insieme in parrocchia per annunciare il Vangelo. Diciannove anni fa nasceva in me l’idea, proposta poi al Consiglio Pastorale, di mettere al cuore della parrocchia Pentecoste di Milano un’esperienza di fraternità: una dinamica già sperimentata nel mondo missionario ma nuova per la realtà diocesana.
Da quella prima esperienza, non ho smesso di pensarmi “in fraternità” nel mio ministero di parroco. In Perù come, adesso, nella periferia di Milano continuo a vivere la bellezza missionaria della vita fraterna. Esperienza resa ancora più ricca oggi dalla presenza di un prete dedicato alla pastorale Rom e Sinti, di due famiglie, e di una comunità di suore Marcelline.
La nostra Fraternità Missionaria non è un’esperienza isolata. In questi diciannove anni molte altre famiglie e preti della diocesi milanese hanno iniziato questa nuova avventura parrocchiale. Ne è nato un coordinamento simpaticamente autobattezzatosi “Famiglie Missionarie a Km0”. Sono ormai quasi trenta le realtà familiari coinvolte, che vivono in canonica o in oratorio o che aprono la loro casa all’accoglienza. Sono storie diversissime per provenienza spirituale ed esperienze pastorali: fidei donum, preti o laici, rientrati dalla missione all’estero, membri del terz’ordine francescano, del Mato Grosso, di Comunione e Liberazione, della comunità papa Giovanni XXIII, provenienti dallo scoutismo o dall’esperienza oratoriana. Tutte con un denominatore comune: scommettere sul potenziale fraterno e missionario della parrocchia.
Alle famiglie e alle suore che vivono con me ho chiesto fin dall’inizio non una definizione di ruoli e incarichi ma di vivere in fraternità, con ritmi di preghiera comune, con l’ascolto della Parola di Dio e la comune preoccupazione missionaria in questo pezzo di periferia milanese. A ciascuno ho chiesto di essere quello che è, vivendo fino in fondo la propria vocazione familiare, sacerdotale o religiosa a servizio della parrocchia.
Fraternità
La fraternità è l’esperienza originaria di ogni essere umano e di ogni cristiano: non ci si sceglie ma ci si ritrova insieme, non per affinità elettive ma per l’appartenenza a una famiglia. È esperienza molto concreta, particolare e al contempo universale. Si nutre di legami di “carne e sangue” con “questo” fratello e “questa” sorella, per riconoscersi in un legame universale, capaci di mescolarsi, incontrarsi, prendersi in braccio, appoggiarsi. La vera fraternità non è escludente ma inclusiva. Quella particolare familiarità che ci lega a Gesù Cristo nostro fratello, ci introduce ad una autentica “mistica del vivere insieme” che fa bene alla salute.
Ho potuto sperimentare la concretezza di questa fraternità nel confronto quotidiano con la vita coniugale/familiare e nelle dinamiche della comunità religiosa. Ho imparato da loro quanto sia importante comunicare non solo sulle questioni pastorali ma anche di vita personale, gli entusiasmi, le delusioni e le stanchezze. Nell’esperienza fraterna vissuta in Perù la concretezza dell’amicizia è arrivata anche a sostenersi nella malattia con gesti di affetto e di tenerezza, con l’accettazione della propria e altrui fragilità. Oggi a Milano sto vivendo un legame fraterno che si nutre di preghiera comune, di colazione “a casa delle suore”, di meditazione settimanale della Parola, talvolta anche di pranzi e cene coi bambini che vedono questa strana famiglia allargata a preti e suore.
Istruiti dalle burrascose relazioni fraterne raccontate dalla Bibbia, non ci lasciamo spaventare dalla conflittualità. Da Caino e Abele, passando per Esaù e Giacobbe fino ad arrivare a Marta e Maria, tutta la Sacra Scrittura è lì a ricordarci che i legami fraterni vanno accompagnati, curati, fatti crescere, dotati di attrezzature di manutenzione costante. Persino tra gli apostoli l’arrivismo o l’invidia rischiavano di compromettere la fraternità. Gesù, con infinita pazienza fornisce loro il criterio di fondo per garantire un rapporto senza dominanti nè dominati, fraterno appunto: bandite tra voi dominio e oppressione per seguire la strada della minorità e del servizio.
Occorre una preparazione per vivere in équipe
L’esperienza di questi quindici anni di fraternità evidenzia quanto sia importante prepararsi, personalmente e comunitariamente, a vivere e lavorare in équipe. Le comunità religiose hanno molto da insegnarci su come curare anche le minuzie del vivere insieme nell’esercizio virtuoso di ascolto e umiltà, nel relazionarsi “alla pari” pur nella distinzione di ruoli e responsabilità, nel camminare insieme sottoponendo le proprie idee al confronto costante con gli altri. Occorre anche condividere le motivazioni personali che hanno portato ognuno a scommettere sul servizio in parrocchia. È necessario trovare un’immagine condivisa di Chiesa insieme al Consiglio Pastorale Parrocchiale e ai responsabili diocesani per creare consenso attorno a questo progetto di fraternità missionaria.
La fraternità cristiana non si fa spaventare nemmeno di fronte al nascere di uno speciale legame che arriva fino ad assumere i contorni dell’amicizia fra i suoi membri, quasi che la specificità di un’amicizia possa togliere qualcosa all’universale legame fraterno con tutti i membri della comunità parrocchiale. L’esperienza dice che il carattere propriamente cristiano di questi legami forti non pregiudica ma rafforza e incrementa le buone relazioni con tutti, anche quelle più deboli ed occasionali.
Come un marito e una moglie non tolgono amore ai figli consolidando il rapporto di coppia, così la vergine o il celibe non diminuiscono il proprio amore per tutti coltivando legami di fraternità e amicizia speciali con qualcuno. La pratica concreta e duratura di relazioni fraterne e amicali con un gruppo ristretto di appartenenza, aiuta e abilita ad allargare la fraternità con tutti in parrocchia, da quelli che stabilmente collaborano a quelli che occasionalmente si avvicinano per una qualsiasi richiesta. È indispensabile però custodire le condizioni concrete per dare qualità evangelica a tale amicizia e fraternità: l’ascolto della Parola, la preghiera, l’Eucaristia e la missione. Oltretutto per me prete è sempre in agguato il rischio di vivere da “single”, senza legami stabili e senza dover rendere conto a nessuno di quel che faccio. La fraternità mi preserva da questo pericolo.
Corresponsabilità missionaria
La fraternità evangelica è per sua natura corresponsabilità missionaria. La profezia di una relazione fraterna che escluda dominio e sopraffazione è già testimonianza del Regno della tenerezza e della liberazione. Come fraternità missionaria siamo chiamati a servire e liberare. Nella parrocchia si traduce in un prendersi cura degli altri per accogliere, accompagnare, rialzare, educare, soccorrere, migliorare la qualità della vita e celebrarne insieme la bellezza e i drammi, occuparsi del bene comune, aprendo le porte a Gesù Cristo Signore della vita.
Preti, coppie di sposi, famiglie e suore, siamo corresponsabili di questa cura per la vita buona e bella di tutti. Questa comune preoccupazione missionaria libera la Chiesa locale dalla tentazione di ridurre la corresponsabilità ad un problema di regole, più o meno minuziose, in stile condominiale: “a chi tocca fare che cosa”.
La comune responsabilità missionaria allarga gli spazi della reciproca fiducia, valorizzando i rispettivi carismi, nell’unico intento di raggiungere tutte le “periferie esistenziali”. Come prete godo del fatto che i miei fratelli e sorelle sposati possano raggiungere ambiti di vita a me quasi preclusi (scuola, famiglie, sociale); io coppia sono felice che il mio fratello prete possa raggiungere ambiti che solo lui può raggiungere (le profondità della coscienza delle persone nella confessione, per esempio); siamo contenti che le nostre suore possano essere più benevolmente accolte da tutti e trovare porte aperte perché riconoscibili e donne.
Dobbiamo ricordarci che non siamo gli unici soggetti della missione. Ad esserlo è quel popolo che prende forma anzitutto nell’assemblea eucaristica domenicale. Quando celebro la Messa contemplo il popolo di Dio convocato e mandato in missione. Quando dall’altare vedo i volti di bambini, giovani, adulti e anziani cristiani del quartiere, vedo dei missionari, accorsi per cibarsi della Parola e del Pane e pronti a ripartire per testimoniare la fede nei loro ambienti di vita, quelli che io non raggiungo: la famiglia, il condominio, i luoghi di lavoro, la scuola.
Questo vivo sentimento popolare della missione è ciò che deve caratterizzare la presenza della nostra Fraternità Missionaria in parrocchia: essere uno stimolo perché tutti si sentano chiamati al discepolato e alla missione nel nome di Gesù. Non è nemmeno necessario essere super-impegnati nella comunità. Anche una famiglia normale può farlo, anche chi viene in parrocchia solo alla Messa domenicale e poi non si vede più per il resto della settimana, impegnato a vivere e testimoniare la fede nel quotidiano. Anche attraverso di loro il Vangelo di Gesù si fa presente come seme nel mondo. È un seme che non controlliamo perché cresce da sé, notte e giorno, anche mentre il seminatore dorme. Certo, ci sono alcuni che assumono pubblicamente delle responsabilità nel Consiglio Pastorale, nel gruppo delle catechiste, nell’animazione liturgica, nel Centro di Ascolto Vincenziano, ma non possiamo dimenticarci che abbiamo centinaia di altri collaboratori nella diffusione del Vangelo, un popolo di battezzati-inviati.
Questa é esperienza di Chiesa, nata e cresciuta con un forte radicamento nella Chiesa locale e parrocchiale. Quasi sottovoce vorremmo poter offrire alle diocesi un piccolo modello, una strada percorribile di Chiesa sinodale, di preti, laici e religiose che camminano insieme, pensano insieme, pregano, programmano, verificano, si formano insieme e mangiano insieme. Un piccolo modello di Chiesa accogliente che annuncia il Vangelo nel modo più semplice e vero: da persona a persona, con gioia.
Questa epoca della storia ci costringe a tornare all’essenziale della fede e della testimonianza cristiana, come quando “le colonne” della chiesa raccomandavano a Paolo di annunciare Gesù e di ricordarsi dei poveri. Questa “kerygmatica” preoccupazione comune di parlare con gioia di Gesù e di stare con i poveri muovendo verso di loro gli affetti e le intelligenze, anima la sinodalità e semplifica tutte le antiche questioni, ereditate dal Concilio, circa i compiti specifici dei preti, dei laici e dei religiosi, verso una sintesi più avanzata che ancora dobbiamo trovare. Questa è la sfida della Chiesa povera e delle fraternità missionarie che la animano.
don Alberto Bruzzolo