Neri Marcello - Prezzi Lorenzo
I carismi nella Chiesa d’Africa
2020/3, p. 24
Il viaggio del Papa, la situazione sociale ed ecclesiale del paese: il vescovo di Beira (Mozambico) racconta la sua Chiesa. Forza e debolezza della vita consacrata.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
INTERVISTA A MONS. CLAUDIO DALLA ZUANNA
I carismi nella Chiesa d’Africa
Il viaggio del Papa, la situazione sociale ed ecclesiale del paese: il vescovo di Beira (Mozambico) racconta la sua Chiesa. Forza e debolezza della vita consacrata.
- Cosa resta della visita di Francesco in Mozambico?
«Nella sua visita in Mozambico (4-6 settembre 2019) il Papa è stato accolto benissimo con grande partecipazione della gente; ma le diocesi del centro-nord sono distanti circa 2000 km dalla capitale, con grosse difficoltà di trasporto, e quindi pochissima gente al di fuori della capitale ha potuto partecipare. La visita è stata comunque una buona cosa. In particolare nei suoi messaggi e incontri, il Papa si è rivolto alle autorità nell’incontro con i rappresentati politici del paese e il corpo diplomatico; alla Chiesa, incontrando vescovi preti e catechisti; e ai giovani che ha incontrato prima della Messa finale.
Nell’incontro con le autorità il discorso che ha tenuto è stato quello di uno che conosce bene la situazione del paese e ha toccato i punti nevralgici della situazione in Mozambico. Non è stato quindi un discorso particolarmente gradito agli ambienti governativi.
Il discorso alla Chiesa invece, a mio avviso, è stato più generico meno legato alla realtà locale. Un altro aspetto da riprendere è il fatto che come vescovi non abbiamo avuto un incontro col Papa. Probabilmente questo è il frutto della politica e della volontà dei governi che vogliono relazionarsi direttamente con l’autorità massima senza passare livelli intermedi – come può essere quello della Conferenza episcopale».
Elezioni contestate
- I risultati elettorali sono stati contestati …
«È stata anche una visita in piena campagna elettorale, con elezioni che si sono tenute circa un mese e mezzo dopo e sono state contrassegnate da moltissime irregolarità. Si è trattato di una campagna elettorale segnata dalla violenza, con l’uccisione non solo di alcuni rappresentanti dell’opposizione ma anche di un osservatore locale del processo elettorale. In maniera fortuita, a causa di un incidente stradale in cui sono incorsi, è venuto fuori chi erano gli assassini di questo osservatore: le forze speciali della polizia.
Le elezioni hanno sancito l’ampia vittoria delle forze governative: con il 73% quando nelle precedenti elezioni avevano vinto col 52%. È vero che l’opposizione non ha persone preparate, non ha un progetto politico credibile e quindi in pratica non c’è alternativa – ma, comunque, i risultati sono stati viziati da tante irregolarità».
- Ci sono state critiche da parte dei vescovi?
«Quindici giorni dopo le elezioni abbiamo avuto l’incontro della Conferenza episcopale e molti si aspettavano una parola dei vescovi sulle elezioni perché il Consiglio Costituzionale, che è l’organo che dichiara i risultati ufficiali delle elezioni, aveva appena detto che questi sarebbero stati annunciati solo alla fine dell’anno. Quando abbiamo iniziato la nostra assemblea, proprio il primo giorno, un settimanale filo-governativo ha pubblicato un vile attacco contro un vescovo di origine brasiliana la cui diocesi si trova nel nord del Mozambico in una regione segnata da un clima di forte tensione e violenza. Si tratta del vescovo di Pemba, mons. Luiz Fernando Lisboa, che, in quel contesto, è l’unico che parla e prende posizione pubblica su quanto avviene nella zona, dato che alcuni giornalisti che raccoglievano informazioni sono stati messi in prigione quasi a voler impedire l’informazione. Certamente si è trattato di un attacco contro di lui, ma lo abbiamo interpretato anche come un avviso a tutti i vescovi. Non ci siamo certo lasciati intimidire e abbiamo rilasciato un comunicato nel quale dicevamo quello che pensavamo: in un paragrafo si dice che, viste le tante irregolarità, il clima di violenza, e altre forme di intimidazione, è comprensibile che l’opposizione abbia difficoltà ad accettare i risultati. Credo che in questo il nostro messaggio sia stato chiaro ed esplicito.
Un vescovo da difendere
- Cosa può dirci del “caso” Pemba?
«Terminata l’assemblea abbiamo avuto un incontro della Conferenza dei vescovi dell’Africa australe che si è concluso con una messa a cui ha partecipato anche il presidente della repubblica del Mozambico. Prendendo la parola, egli ha fatto una specie di storia della Chiesa in Mozambico, elogiando quella parte della Chiesa che ha sostenuto il cammino verso l’indipendenza e mettendo in rilievo come si sia trattato più dell’eccezione che della norma. Ha ricordato che il papa ha raccomandato alla Chiesa cattolica di essere dalla parte della soluzione e non dei problemi. Proseguendo ha fatto riferimento a una lettera che il Vaticano avrebbe indirizzata ai vescovi del paese in cui si dice che giustamente i vescovi sono preoccupati della catechesi, della famiglia, ed è questo – ha affermato il presidente – che vogliamo che facciano i vescovi: che si preoccupino dei giovani, della catechesi… lasciando intendere indirettamente che è bene che non si occupino di altro. La settimana seguente, il settimanale filo-governativo ha pubblicato un altro articolo nel quale ha rincarato la dose contro il vescovo di Pemba, questa volta mettendo però nel mirino più la sua linea pastorale. Chiaramente in questo secondo pezzo si è servito del dossier che i servizi segreti hanno su di lui.
L’opinione pubblica filo-governativa ha messo nel mirino il vescovo di Pemba per due ragioni. In primo luogo, si tratta di lui in quanto tale: è una persona molto retta, esplicita nel parlare, ed è anche il presidente della Commissione giustizia e pace. Varie volte questa Commissione ha preso posizione ed è intervenuta pubblicamente, ad esempio sui debiti nascosti che il governo ha fatto. L’altro aspetto è legato al luogo in cui questo vescovo esercita il suo ministero: si tratta di una provincia in cui vi è una miscela esplosiva di povertà e ricchezza, con enormi giacimenti di materie pregiate, dove poche persone legate al potere politico hanno di fatto in mano la gestione della regione. Davanti a questa realtà, quando il governo vuole far passare il messaggio che tutto va bene, il vescovo di Pemba ha detto come effettivamente stanno le cose e le ha fatte conoscere anche all’estero».
La lettera dopo il viaggio del Papa
- Perché avete scritto una lettera pastorale?
«Dopo la visita del Papa abbiamo cercato di recuperare le parti più importanti del suo messaggio, ricordando che la sua visita è stata un bene per il paese, e abbiamo steso una lettera pastorale dal titolo Il coraggio pastorale e l’impegno missionario. In questa Lettera abbiamo ripreso i tre blocchi della parola alla società, alla Chiesa e ai giovani; facendo un riassunto composto da citazioni degli interventi del Papa a cui abbiamo aggiunto quelle che per noi sono le forze e le debolezze del Mozambico – come gli squadroni della morte, elezioni non trasparenti, e così via. Infine, abbiamo dato alcune indicazioni, ossia quali sono i frutti che devono derivare da questa visita del Papa. La nostra idea è che questa lettera possa contribuire a un cammino futuro di Chiesa, indicando dove dobbiamo convogliare le nostre forze come Chiesa. Nella dimensione sociale si tratta di coltivare una cultura di pace; per quanto riguarda quella ecclesiale abbiamo sottolineato soprattutto la necessità di portare la fede nella vita quotidiana, infatti notiamo nella nostra gente una separazione, ad esempio, fra celebrazione domenicale e vita professionale.
Mi soffermo un attimo su questa dimensione. Di Francesco abbiamo ripreso in particolare la sottolineatura che ci invita a essere una Chiesa della visitazione, una Chiesa che va verso l’altro; questo è particolarmente importante per noi in Mozambico perché in qualche maniera non ci si è ancora liberati dall’idea della Chiesa cattolica come la grande Chiesa in Mozambico. Nella testa di molti sacerdoti vi è la convinzione che noi siamo la Chiesa, ma se guardo alla mia diocesi di Beira, i cattolici sono solo il 10% della popolazione; il che vuol dire che nove persone su dieci non verranno mai alla Chiesa a cercare risposte, quindi, non basta stare in parrocchia ma bisogna muoversi verso di loro andando a cercarli. I malanni a cui Francesco fa riferimento, come il clericalismo, il guardare a se stessi e l’autoreferenzialità valgono pure per noi anche se siamo una Chiesa giovane».
La vita consacrata in avvio
- Emerge l’identità carismatica della vita consacrata?
«La vita consacrata si è a lungo confusa o identificata con l’attività di annuncio, soprattutto a livello maschile. Solo dopo gli anni ’90 è iniziato un cammino per riconoscersi come religiosi, come comunità religiosa e non solo come missionari.
A livello femminile, alcune congregazioni che sono presenti in Mozambico da molto tempo avevano iniziato già prima dell’indipendenza un cammino di proposta vocazionale e quindi si ritrovano oggi ad essere composte in maggioranza da donne mozambicane. Poi abbiamo quelle congregazioni che hanno iniziato a raccogliere vocazioni solo dopo la guerra civile, quindi dopo gli anni ’90; qui i numeri sono molto più ridotti e fanno molta più fatica a crescere».
- Quali sono le condizioni di entrata dei religiosi e religiose?
«C’è un elemento base, non solo ecclesiale ma anche sociale e umano, che vale anche per i preti: la Chiesa mozambicana è una Chiesa molto recente, non c’è una tradizione di esperienza spirituale, la catechesi è minima, e quindi si entra in una casa di formazione o in seminario senza avere una conoscenza sufficiente a livello di catechesi cristiana e di esperienza di fede. Se pensiamo poi alla dimensione accademica della formazione alla vita consacrata o al ministero, abbiamo persone che hanno enormi difficoltà a leggere o scrivere anche se sono andate a scuola. Iniziano gli studi filosofici-teologici senza aver mai letto un libro dall’inizio alla fine, magari anche solo un romanzo. C’è quindi una povertà culturale notevole che diventa anche una fragilità vocazionale.
Su queste basi, per le formatrici è facile cadere nell’inganno che basti un’educazione religiosamente devota e mettere un velo in testa a una donna per aver fatto la suora. Un problema che abbiamo sono i molti abbandoni nel giro di uno o due anni dopo i voti perpetui. La cosa è legata in parte alla formazione professionale, e in parte ai voti perpetui stessi: mi sembra che quando viene a mancare un obiettivo pratico da raggiungere, che sia la formazione professionale o che siano i voti perpetui, quello che rimane è solo vivere senza nessuna ulteriore caratterizzazione spirituale. Le donne si dicono «io sono infermiera, io sono maestra, perché devo essere anche suora? Posso essere una buona maestra anche senza essere suora, e così in più non devo rinunciare alla mia autonomia personale ed economica e ad avere figli». Il discorso della maternità è molto, molto forte per la donna africana. Questi casi sembrano mostrare che l’esperienza di fede, il discorso sulle motivazioni, siano elementi fragili nella configurazione della vocazione».
Nella pastorale comune
- Le suore sono inserite nella pastorale?
«Un altro aspetto, come per il clero, è che le suore sono tutte molto giovani, risiedono prevalentemente in piccole comunità nelle città (almeno da noi a Beira), dove oltre a lavorare per sostenersi sono impegnate negli studi. Finiti i corsi molte vengono trasferite ad altre comunità, quindi sono poche le religiose inserite a tempo intero nelle attività pastorali o anche in opere proprie (perché non hanno più, come una volta, grandi scuole od ospedali). In quest’ottica, direi che non si percepisce un impatto significativo della vita religiosa all’interno della Chiesa locale e della società mozambicana».
- E i religiosi?
«Per quanto riguarda la Conferenza dei superiori maggiori religiosi, fino agli anni ’90, c’erano poche congregazioni con numeri elevati. Dopo la guerra sono arrivate moltissime congregazioni, alcune dall’Europa ma in prevalenza dall’America Latina; a volte sono presenti con una sola comunità in tutto il paese. Vi è quindi una grossa frammentazione che si rispecchia immediatamente nella composizione della Conferenza dei superiori maggiori dove troviamo rappresentate oltre 150 congregazioni, ma solo poche di esse hanno dietro di sé un numero rilevante di comunità. Questa condizione fa sì che il peso della Conferenza dei superiori maggiori sia di poco rilievo e sia difficile lavorare insieme.
Inoltre bisogna tenere conto della mentalità con cui entrano in Mozambico alcune nuove comunità religiose o alcuni religiosi. A volte il fatto di venire da un paese del sud del mondo può dare l’illusione di sapere già come agire, di non aver bisogno di mettersi all’ascolto della storia: di un paese, di una Chiesa locale, dei fedeli stessi. Questa è una carenza che possiamo osservare in vari istituti di vita religiosa recentemente arrivati in Mozambico».
(a cura di) M. Neri – L. Prezzi