Migliore Celestino
Le ragioni dei sovranisti dell’Est
2020/2, p. 26
Mons. Celestino Migliore è stato nominato nunzio a Parigi l’11 gennaio 2020, dopo oltre tre anni di attività a Mosca. In una relazione ai padri dehoniani (agosto 2019) ha affrontato con originalità il tema dei rapporti fra i paesi dell’Est (Polonia e Russia in specie) e l’Unione Europea. «Ciò che l’Europa centro-orientale vuole è di potersi sentire un membro a pari dignità nel club europeo, senza doversi adeguare a un nuovo livellamento culturale».

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RAPPORTI FRA I PAESI DELL’EST E L’UNIONE EUROPEA
Le ragioni dei sovranisti dell’Est
Mons. Celestino Migliore è stato nominato nunzio a Parigi l’11 gennaio 2020, dopo oltre tre anni di attività a Mosca. In una relazione ai padri dehoniani (agosto 2019) ha affrontato con originalità il tema dei rapporti fra i paesi dell’Est (Polonia e Russia in specie) e l’Unione Europea. «Ciò che l’Europa centro-orientale vuole è di potersi sentire un membro a pari dignità nel club europeo, senza doversi adeguare a un nuovo livellamento culturale»
Ho lavorato per nove anni in Polonia, in due diversi periodi: dal 1989 al 1992 come segretario di nunziatura, subito dopo la caduta del comunismo, e dal 2010 al 2016, come nunzio apostolico. Da tre anni mi trovo a Mosca, nunzio apostolico nella Federazione Russa e in Uzbekistan.
La Russia si colloca definitivamente ad Est dell’Europa, mentre la Polonia viene considerata paese dell’Europa centro-orientale. In realtà, essa si trova nel vero centro fisico dell’Europa continentale – quella che va dall’Oceano Atlantico ai monti Urali – situato, secondo alcuni geografi nella cittadina di Suchowola (tra l’altro, patria del martire Jerzy Popiełusko).
Il profilo etnico, storico, culturale e religioso dei due paesi si configura diversamente, tuttavia le alterne competizioni e compenetrazioni territoriali e demografiche lungo i secoli e la comune appartenenza al blocco sovietico per gran parte del secolo scorso li accomunano sotto tanti aspetti.
La Polonia è Europa
La Polonia, da sempre cuscinetto cattolico tra la sponda protestante a Ovest e Nord e quella ortodossa ad Est, ha mantenuto legami più stretti con l’Occidente prevalentemente cattolico.
Papa Giovanni Paolo II, cultore della storia, si infastidiva nel sentire gli europeisti occidentali auspicare, negli anni ’90, l’ingresso della Polonia nell’Europa. In un’omelia a Varsavia, nel 1991, trovò che «all’interno (del paese) e all’estero si abusa di questo umiliante argomento che solo ora dobbiamo entrare nell’Europa». Umiliante perché per la Polonia non si tratta di entrare nell’Europa. Essa vi fa parte da secoli e, anzi, nel passato ha contribuito in modo speciale alla formazione dello spirito europeo, esemplificando il motto paolino «Se Cristo vi libererà, sarete liberi».
Giovanni Paolo II vedeva l’Europa come una comunità di nazioni unite dalla cultura. Nel suo discorso all’Unesco del 1980 egli affermò: «Sono figlio di una nazione sopravvissuta grazie alla sua cultura». Era convinto che il potere comunista fosse una parentesi nella vita di quei paesi, e che la divisione dell’Europa in due, fosse un accidente della storia.
D’altra parte l’espressione a lui cara dell’Europa «a due polmoni» non si limitava ai rapporti tra Chiese e comunità cristiane dell’Occidente e le Ortodossie orientali. Con questa metafora, egli diede un nuovo e vigoroso impulso all’intuizione del poeta russo Vjačeslav Ivanov che rifletteva sui drammi dell’Europa degli inizi del secolo scorso. Il sogno di un nuovo umanesimo europeo si colloca nel respiro creativo e armonico dei due polmoni dell’Europa.
Identità nazionale propria
Quando nel 1992 passai dalla Polonia alla missione della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, nel mio primo incontro col segretario generale, Cathérine Lalumière, essa mi chiese perché la Polonia avesse atteso tre anni prima di aderire al Consiglio d’Europa. Le risposi con una considerazione cara all’allora ministro degli esteri polacco, K. Skubiszewski, il quale sosteneva che dopo cinquant’anni nel blocco sovietico, prima di aderire ad un’altra associazione di paesi, la Polonia voleva darsi, o per lo meno, impostare le linee generali di un assetto costituzionale, legislativo e giudiziario consono alla propria identità nazionale, culturale e sociale.
Questa è stata la carta vincente che, pur tra alti e bassi, spinte e controspinte, ha fatto della Polonia moderna uno degli interlocutori più affermati nel consesso europeo, sotto tutti i profili.
Agli inizi degli anni ’90, alcuni paesi europei criticarono il tempestivo riconoscimento delle nuove repubbliche slovena e croata da parte della Santa Sede, banalizzandolo come un tentativo di espansione del cattolicesimo nell’oriente europeo.
Ma sottovalutavano il fatto che non si trattava solo di liberarli da asfissianti unioni territoriali e politiche imposte nella storia, ma di dar loro l’opportunità di riappropriarsi della propria identità storica e culturale al fine di rigenerare su quella base un sistema di libertà, democrazia e uguaglianza consono alla propria indole nazionale e capace di confrontarsi, interagire e fare i conti con altre comunità politiche.
Nel suo terzo viaggio in Polonia, Giovanni Paolo II lanciò agli intellettuali e al clero polacchi un’intuizione feconda che purtroppo non venne poi raccolta in pieno, e cioè quella di far evolvere il movimento politico Solidarność un movimento culturale e sociale capace di fondare un nuovo ordine nazionale e mondiale basato sulla solidarietà.
Sovranismo: demone o sintomo?
Oggi va di moda distinguere, o meglio discriminare, non solo i governi, ma anche i popoli stessi in europeisti e sovranisti. Con un marchio di infamia sul sovranismo, ma assoluta autosufficienza e nessuna volontà di mettersi in discussione da parte delle democrazie liberali, pluraliste.
È interessante notare che, in Europa, il sovranismo – inteso come rifiuto di ogni ingerenza negli affari interni e gestione delle questioni mondiali secondo gli interessi nazionali – non è tipico di alcuni paesi dell’area centro-orientale come Polonia e Ungheria quando, per esempio, resistono alla ripartizione degli oneri di accoglienza dei rifugiati, ma ha investito la stessa Unione Europea.
Si configurano in questa tendenza il Brexit della Gran Bretagna e i partiti al potere in Austria e Italia, come i movimenti e partiti in ascesa in Francia, Germania, Olanda, Danimarca.
L’insorgenza del sovranismo è un fenomeno complesso, determinato da varie concause. Ma certamente, nei paesi dell’Europa centro-orientale esso si alimenta nella reazione al volontarismo della democrazia liberale, pluralista, multiculturale, attuata con assolutezza dall’Occidente, nella fattispecie dall’Unione Europea. Pur tra le sue varie innegabili derive, nel sovranismo del centro Est Europa si coglie la giusta aspirazione ad una democrazia libera dalle costrizioni del modello unico occidentale per potersi declinare in modo originale nei diversi contesti.
Mi pare sia l’esperienza stessa a dimostrarci che qui sta il freno che fa segnare il passo a quell’accidente della storia di cui parlava Giovanni Paolo II, e cioè l’incomprensione che risulta nella diffidenza tra oriente e occidente europeo, e non solo, ma anche tra Nord e Sud europeo.
Il volontarismo impositivo delle elite
In uno scritto di rara lucidità sul percorso del movimento europeo, dalla Comunità economica all’Unione Europea, il sociologo francese Dominique Wolton (La dernière utopie. Naissance de l’Europe démocratique. 1993, Paris Flammarion) sostiene che le intuizioni creative dei padri fondatori e gli ideali propulsori del primo progetto europeo attorno alla Comunità economica europea, vennero ben presto sequestrati da un forte movimento volontaristico della burocrazia di Bruxelles.
La CEE si costituì un segretariato, poi una struttura e presto vi lavoravano circa 50.000 funzionari. Il discorso europeo è stato quasi monopolizzato da questo gruppo di volontaristi, senza un reale confronto con la base. Il volontarismo si è tradotto nella convinzione che il progetto di Bruxelles andava nella giusta direzione e quando gli europei avessero visto che funziona, vi avrebbero aderito.
Sennonché, quando la questione venne sottoposta al parere dei cittadini europei con i referendum degli anni ’90, i risultati risicati del voto rivelarono che il cittadino, non essendo stato adeguatamente informato e consultato, appoggiava la libera circolazione a vari livelli, ma esitava quando si rendeva conto della nuova filosofia della convivenza, basata su un diritto ed una cultura che spesso sacrificano i valori del tempo, della tradizione, delle identità culturali e religiose all’idea del progresso, del mercato e di una democrazia procedurale.
Erano gli anni in cui le repubbliche uscite dal blocco sovietico si affacciavano alla costruzione europea. Alcuni paesi, la Polonia in primis, si avvantaggiarono dei generosi sussidi economici e si misero in regola con i requisiti dell’Unione. Altri presero maggior tempo per adeguare i loro assetti nazionali. Ma è comune a tutti una certa cautela e talora anche diffidenza quando si confrontano col volontarismo del progetto europeo e temono un nuovo livellamento come già avevano sperimentato sotto l’Unione Sovietica.
Le destre d’Occidente
Ciò che l’Europa centro-orientale vuole è di potersi sentire un membro a pari dignità nel club europeo, senza doversi adeguare ad un nuovo livellamento culturale.
Nell’Europa occidentale e centro-orientale da tempo è in atto una «policrisi», come l’ha definita alcuni anni fa l’allora presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncher. C’è la crisi dell’eurozona, la crisi migratoria, la “Brexit”, tra altre; ma c’è anche una crisi di valori liberali su cui l’UE si è costruita e porta avanti con assolutezza. C’è una crisi non solo istituzionale ed economica, ma anche una competizione di idee e impostazioni che crea una nuova linea di divisione, un nuovo sipario che rischia di riecheggiare in qualche modo l’antica cortina di ferro.
L’ha commentato anche il presidente Putin in un’intervista al Times, quando, in occasione dell’ultimo vertice dei G20, ha parlato del fallimento del liberalismo politico. Gli osservatori politici in Russia hanno spiegato che ciò che Putin intende per «liberalismo» sono le derive e le politiche sempre più disfunzionali dell’Occidente.
«Russofobia» o «Eurasia»
Per quanto riguarda invece la Russia, pienamente ad Est dell’Europa, se per un certo tempo, tra la fine dei Novanta del Novecento e l’inizio di questo secolo, era uscita dai radar dei giochi di forza internazionale, da qualche anno la troviamo di nuovo protagonista in diversi e complessi equilibri, soprattutto con Europa, Stati Uniti e Cina.
I rapporti con l’Europa oscillano tra la cosiddetta «russofobia» da parte occidentale e la tendenza a formare una «eurasia» dall’altra.
C’è chi ha tentato di spiegare il rapporto ambivalente tra Europa e Russia parafrasando il racconto di Biancaneve (GuyMettan, Russofobia, mille anni di diffidenza, Sandro Teti editore, 2016 – pp. 26 e 383-392). La matrigna di Biancaneve, ovvero l’Occidente europeo, spesso consulta il proprio specchio chiedendogli: «Oh, specchio dimmi tu qui con franchezza, quale cristiana adesso ha più bellezza?». E, puntualmente il suo affidabile specchio le risponde: «In questo luogo e adesso la più bella sei tu, ma Biancarussia l’ortodossa lo è di più».
La mutua diffidenza tra occidente ed oriente europeo che lungo la storia conosce periodi alterni di ostilità e distensione, senza mai dissiparsi del tutto, affonderebbe le sue radici nell’antico progetto di Carlo Magno di costituire un sacro romano impero, potenza occidentale intenzionata a prevalere sull’impero bizantino e poi, lungo i secoli, a contenere e contrastare l’impero russo prima e quello sovietico poi. Ai giorni nostri, in Russia, il serbatoio della russofobia è ravvisato nella politica della NATO.
Quando cadde il Muro di Berlino e l’Europa orientale cominciò a emanciparsi dal regime comunista, George Bush, padre, incontrò Gorbaciov nel summit di Malta (2-3 dicembre 1989). I due statisti si accordarono sul fatto che l’Unione Sovietica avrebbe rinunciato a ogni intervento per trattenere nel suo blocco i sistemi comunisti dell’Est, mentre gli Stati Uniti si sarebbero impegnati a non estendere l’alleanza atlantica oltre i vecchi confini della cortina di ferro, cioè non oltre la Germania riunificata.
Si trattò di un gentlemen’s agreement, ma non venne rispettato e si riaccese così la miccia della diffidenza reciproca.
Slavofili e occidentalisti
Il termine «russofobia» viene fatto risalire al poeta russo Fëdor Tjutcev (1803-1873), tra l’altro noto per la sua affermazione: «Non si può capire la Russia con la mente, nella Russia si può solo credere». Egli parlava della russofobia come fenomeno patologico che aveva investito proprio alcuni esponenti dell’intelligenza russa.
La questione suscitò un serio dibattito nel diciannovesimo secolo quando i due gruppi più influenti tra gli intellettuali russi furono gli slavofili e gli occidentalisti. Gli slavofili credevano che la Russia avrebbe dovuto fare affidamento sul suo patrimonio unico (tradizioni, cristianesimo ortodosso, vita rurale), mentre gli occidentalisti sostenevano l’idea di modernizzazione e individualismo in stile europeo. Messo in pausa dalle rivoluzioni russe del 1917, quando i socialisti radicali salirono al potere, la disputa tra gli occidentali e i loro oppositori continua ancora.
Coloro che si oppongono all’idea che la Russia appartenga al mondo occidentale sottolineano che i russi nel corso della storia hanno vissuto «al crocevia» delle civiltà e hanno quindi abbracciato i valori culturali di entrambe le parti d’Europa e Asia. Questa è la tesi di uno dei più autorevoli eurasiatisti, lo storico russo LevGumilev, la cui opera ha occupato tutto il secolo scorso, dal 1912 al 1992. Tenendo in conto le controverse relazioni della Russia con i paesi europei e l’Occidente in generale, molti pensatori patriottici o nazionalisti affermano: «Non siamo europei perché l’Europa non ci abbraccerà mai».
Dal momento che Pietro il Grande (zar 1682 – 1725) portò i valori, le abitudini e persino la moda europea in Russia all’inizio del XVIII secolo, l’idea che i legami culturali tra Russia ed Europa prevalgano su differenze e incomprensioni politiche ha molti sostenitori.
Le differenze con i paesi occidentali sono talora significative, ma non sono molto maggiori di quelle tra i paesi agli estremi del continente, come Finlandia e Portogallo, Romania e Irlanda. Se prendiamo gli Urali come discriminante, allora vediamo che il 77% del territorio della Federazione si trova in Asia, al di là degli Urali; ma il 75% della popolazione vive nella Russia europea, al di qua degli Urali. Le due città maggiormente popolate – Mosca e San Pietroburgo – e i centri politici e amministrativi si trovano nel versante europeo, anche se il potenziale di risorse naturali è sepolto sotto il suolo siberiano.
La decostruzione del socialismo
Addirittura il lungo esperimento del comunismo che nel corso di quasi un secolo ha impresso alla Russia nuovi connotati culturali, sociali, politici, economici e anche religiosi, è un prodotto di matrice culturale-ideologica dell’Europa occidentale che ha poi trovato la sua applicazione statuale-partitica nell’oriente europeo.
Lo spiega Andrea Possieri, docente di storia contemporanea nell’università di Perugia: «Paradossalmente, i regimi comunisti che si instaurarono nell’Europa Orientale, facendo a meno della democrazia interna e della ricerca del consenso tramite libere elezioni, dipesero militarmente e politicamente dall’Unione Sovietica, ma allo stesso tempo, tutto il movimento comunista internazionale, Urss compresa, non poteva fare a meno della legittimazione politica che proveniva dalle opinioni pubbliche occidentali” (cf. Andrea Possieri, «Una drammatica pagina di storia ignorata e fraintesa dalla memoria comune europea», in L’Osservatore Romano del 26/04/2012).
Il legame necessario
L’ultima decade del secolo scorso viene ricordata come la decade della glasnost che un osservatore contemporaneo, collaboratore della rivista La Civiltà Cattolica, Vladimir Pachkof S.J., afferma non essere stata altro che «la postmodernità socialista, la decostruzione del socialismo realmente esistente» (cf. Vladimir Pachkof, S.J., «L’Occidente e la Russia. Radici culturali di un confronto», La Civiltà Cattolica 2019 II, pp.528-539).
Quella degli anni ’90 fu una decade particolarmente tormentata nella storia della Russia che qualcuno chiama la seconda decostruzione. La prima, operata dalla rivoluzione bolscevica, aveva cercato di rimpiazzare la cultura tradizionale con quella marxista. Quella degli anni ’90, insieme agli aiuti umanitari dell’Europa e ai prestiti del Fondo monetario internazionale, tentò di importare acriticamente in Russia i cosiddetti valori del liberalismo occidentale, ma il rapido sovvertimento dell’ordine costituito nell’epoca comunista, il caos sociale, la deriva dell’economia e della sicurezza nazionale, l’autocommiserazione per la disfatta di un impero, crearono le premesse per una svolta decisiva dall’orientamento filo-occidentale all’affermazione dei cosiddetti valori tradizionali: sovranità nazionale, ortodossia, famiglia, tradizione.
Questa svolta è stata innescata e continua ad essere sostenuta da una forte sinergia tra Stato e Chiesa ortodossa.
L’incapacità di Mosca di unirsi al mondo occidentale ha suscitato delusione in Europa, ma l’essenza dei cambiamenti in Russia oggi è chiara: il modello occidentale non sarà accettato a scapito dei valori russi.
Per svilupparsi con successo, i paesi a Est dell’Europa dovrebbero avere stretti legami con l’Occidente europeo, il che sarebbe vantaggioso per entrambe le parti, perché il continente non può fare a meno della sinergia dei «due polmoni». È un vero peccato che la decade che sta per terminare passi alla storia come un momento in cui, invece di impegnarsi in un dialogo tanto necessario e utile, le parti abbiano gareggiato nel demonizzare l’una l’altra.
Celestino Migliore