Cozza Rino
Una formazione che formi il cuore
2020/2, p. 22
Che cosa fare per ridonare alla vita consacrata la sua attrattiva, la sua bellezza umana e spirituale, quella che crea gioia nel vivere e nel donarsi?

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La vita consacrata e i sogni di Cristo
UNA FORMAZIONE CHE FORMI IL CUORE
Che cosa fare per ridonare alla vita consacrata la sua attrattiva, la sua bellezza umana e spirituale, quella che crea gioia nel vivere e nel donarsi?
Non è procrastinabile l’interrogarsi su quali siano le scelte in grado di tradurre il patrimonio spirituale che ci è stato affidato per rispondere ai bisogni profondi della vita, dell’amore, del desiderio, della fede.
Il punto di partenza sta nel rendersi conto cha la VC come si presenta nei suoi aspetti visibili, è spiazzata rispetto alle trasformazioni della storia, per cui non incuriosisce più. È arrivata a questo, perché ha avuto la presunzione di avere un sapere da custodire che l’ha dispensata per troppo tempo dal riflettere, per ritrovarsi carica di princípi, norme, sistemi di vita non corrispondenti allo sviluppo della rivelazione.
I sogni che Cristo aveva
Il primo sogno è espresso nel suo dire: «io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza». Ai fini di questo progetto Cristo incomincia dal liberare dai timori generati da una religione regolata dal rigore, dai meriti e dai castighi per parlarci narrando storie di salvezza. Nel fare questo egli scavalcò non soltanto la tradizione orale dei padri, la «halach», ma la stessa scrittura sacra, la «Torà», non intendendo però con questa presa di posizione, combattere la legge, ma fare dell’uomo la misura della legge, non essendo questa la preoccupazione di Dio ma l’uomo. Non critica l’idea di Dio che viene trasmessa in Israele, ma si ribella contro gli effetti disumanizzanti prodotti da quella religione così com’era organizzata, specialmente in ciò che non si proponeva come principio di vita.
Questa posizione di Gesù è rimasta fissa in un aforisma indimenticabile: «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27) intendendo dire che per lui non erano degli assoluti i carichi religiosi, ma aveva valore assoluto la persona. Pertanto se Gesù sorprende, non è perché espone nuove dottrine su Dio, bensì perché coinvolge Dio nella vita degli uomini in maniera diversa. La sua esperienza di Dio lo spinge a liberare la gente da paure e schiavitù che le impediscono di sentire e sperimentare Dio come lo sente e lo sperimenta lui, amico della vita e della felicità dei suoi figli e figlie. Dunque il criterio di cui egli tiene conto è quello di vedere se una legge concreta fa del bene alla gente e aiuta a far sì che la compassione di Dio si vada introducendo nel mondo, perché «ciò che non può essere tollerato è che una legge impedisca alla gente di sperimentare la sua bontà di padre».
Il secondo sogno di Cristo è stato quello di associare a sé come continuatori di questo progetto uomini e donne abitati dal desiderio di assumere la sua attitudine guarente, sanante, in grado di smascherare i meccanismi di una religione che non fosse al servizio della vita. Queste persone non le conduce ad essere un nuovo sistema sociale come facevano alcuni settori dei farisei o i seguaci di Kumran, ma chiede loro di riconoscersi in un nuovo focolare, uno spazio nuovo, pieno di possibilità, non riservato a una comunità di eletti, «dove vi sono uomini e donne che sullo stile di Gesù sanno abbracciare, benedire e curare i più deboli e “piccoli”». Un focolare che dica «famiglia», vale a dire un insieme di «fratelli, sorelle e madri». Dal dire di Gesù sono esclusi i padri intendendo così affermare che in questa famiglia nessuno eserciterà sugli altri un’autorità dominante in maniera patriarcale. Inoltre a questi suoi seguaci, Cristo chiede di non diventare un gruppo diretto da sapienti “rabbunì”, ma famiglia di gente che sa condividere la propria esperienza con Lui, l’accesso al quale è diretto e immediato, non essendovi posto per gli intermediari. Una famiglia dove il timore lascia lo spazio alla gioia di accogliere Dio, amico della vita, un Dio che guarisce non tanto per questioni religiose ma per ricostruire la vita, mosso da compassione. Una famiglia perciò fatta di gente che tende ad essere testimone di un modo d’essere “ecclesia” che è «custodia di energia e amore, di generosità e altruismo, di vitalità e di bellezza».
Nel regno di Dio è legge l’amore
Un amore, quello proposto da Cristo, orientato a rendere più umana non solo la religione ma la vita, cominciando da coloro per i quali la vita non è vita.
La prima cosa da cui i discepoli furono attratti è stata la tenerezza con cui accoglieva i più “piccoli”, e poi vederlo benedire e liberare dal male, togliere dall’abbattimento, dalla tristezza di vivere, orientando a una società più amabile.
Inoltre si emozionavano osservando come si commuoveva davanti alla sventura e alla sofferenza degli ammalati, facendo vedere in tal modo che la verità degli affetti è un problema altamente religioso.
Poi ciò che li sorprendeva era che la vita austera del deserto venisse da Gesù sostituita da uno stile di vita fatta di relazioni festose, e che rendere giustizia ai poveri veniva prima del culto, dei digiuni, dei sacrifici, e che Cristo con il cuore fosse più vicino al figlio che se ne era andato di casa, anziché a quello che era rimasto con lui; li stupiva inoltre che alla necessità di perdonarlo anteponesse il desiderio che il figlio cogliesse il suo amore disinteressato.
Erano infervorati dalla sua libertà e passione nel difendere la dignità di ogni persona, come, ad esempio, il mettersi dalla parte delle donne rendendole protagoniste delle sue parabole.
Con lui, coloro che lo seguivano andavano anche imparando a sedersi a tavola con gente indesiderabile; a non scandalizzarsi se si interessava dei poveri senza tener conto del loro comportamento morale, dunque non perché lo meritassero ma perché ne avevano bisogno; e imparavano anche ad avvicinarsi agli ammalati non per offrire loro una pia visione della sventura, ma per potenziare in loro la vita.
In particolare i discepoli andavano comprendendo che in Gesù la forza per quanto andava facendo gli era data dalla preghiera, i cui tratti erano riscontrabili nell’unica preghiera da lui insegnataci, nella quale egli lascia intravedere i grandi desideri che pulsavano nel suo cuore e le grida che rivolgeva al padre nelle lunghe ore di silenzio, una preghiera in cui avvertendo Dio come qualcuno di molto vicino gli saliva spontanea alle labbra soltanto una parola: «Abbà» (padre mio), parola balbettata dai bambini della Galilea che in lui evocava affetto, intimità, confidenza, e in particolare quella fiducia che lo portava a impegnarsi in tutte le sue scelte.
Da quanto detto emerge che discepoli – e dunque religiosi/e -sono coloro che sanno scoprire le esigenze dell’amore nella vita della gente, e vivere curando, accogliendo, perdonando, liberando dal male, amando, cioè persone che mostrano i tratti di una bontà e di una bellezza capaci di accordarsi all’umano, cosa possibile soltanto se si fa dell’amore un imperativo.
Passare dalla fecondità funzionale
alla fecondità evangelica
La possibilità per la VC di transitare dall’attuale inquietudine depressiva a quella generativa è data dal testimoniare il vero volto di Dio manifestatosi in Cristo, portando la vita discepolare a scegliere la dinamica del Maestro, in cui la vita diventa trasparenza dell’annuncio messianico con il narrare il Cristo dalle azioni guarenti, simboliche e trasformatrici. Significa dunque riandare allo stile di vita di Gesù di Nazaret e a quanto da lui proposto ai discepoli: in questo sta l’intensità rappresentativa dei valori evangelici a cui sono chiamati i religiosi e le religiose, senza timore di rivedere consuetudini «non direttamente legate al nucleo del Vangelo».
È a persone così che ancora oggi può essere fatta la proposta di un progetto che più che essere di divinizzazione è anzitutto di umanizzazione, perché il progetto cristiano non può divergere dal progetto di un Dio che si è fatto uomo per svelarci la dimensione divina. Perciò «è urgente recuperare uno spirito che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza».
I religiosi e le religiose allora sono coloro che chiamati a partecipare all’essere di Cristo, accettano di dare spazio con il proprio essere, a una chiara espressione della sua forza liberatrice e sanante. È questo ciò a cui vi impegna la vostra vocazione, dice il Papa: «passare accanto ad ogni uomo e farvi prossimo di ogni persona che incontrate; perché il vostro permanere nel mondo non è semplicemente una condizione sociologica, ma è una realtà teologale che vi chiama ad uno stare consapevole, personale, attento, che sa scorgere, vedere e toccare la carne del fratello».
Quanto detto porta a evidenziare la differenza tra «fecondità evangelica ossia messianica» (quella descritta), e «fecondità funzionale»; differenza che porta a cogliere la dissomiglianza, tra ieri e oggi, dei fini della vita religiosa. Se un tempo la si intendeva come «prefigurazione», «prova» «attesa», «conquista» della «vita futura» e quindi una vita che attendeva proiettivamente il «regno», oggi la vita religiosa è chiamata a essere non più solo «mezzo» ma anche il «fine», che è quello di realizzare nel presente quel «regno» ove la salvezza sia sperimentabile fin d’ora. Per cui non basta rifarsi alle primordiali forme di vita nate dal presupposto che se l’uomo si accontentasse di vivere la vita cristiana nel mondo, sarebbe esposto a un pericolo al quale finirebbe per soccombere e neppure basta rifarsi a quelle forme che successivamente sono sorte attraverso cui i religiosi/e venivano riconosciuti per ciò a cui rinunciavano: monacato e rinuncia erano talmente legati che i monaci erano chiamati «renuntiantes».
Funzionale inoltre è quell’idea di vita religiosa che poteva facilmente sfociare nella scelta di un Dio privato con il quale stabilire un rapporto privilegiato che poteva portare a far ripiegare su se stessi. È insufficiente la religiosità propria di varie forme di vita chiuse nello spazio inviolabile del sacro. È venuto a indicarci ciò che nella vita è vitale piuttosto che chiederci una adesione generica a valori e principi altisonanti ma lontani espressi con un insieme di gesti e osservanze senza profondità e senza calore.
È venuto perché fossimo in grado di appagare l’aspirazione alla luce, all’ amore, alla bellezza. Dunque persone che facciano emergere la scintilla divina presente in sé per «fecondare ogni cultura con il seme del vangelo, attraverso cui poter rivelare quanto le ragioni dell’oggi siano le condizioni perché l’umano incontri il divino. In una occasione rivolgendosi a dei consacrati il Papa li ringraziava così: «voi siete nel cuore del mondo col cuore di Dio. La vostra vocazione deve rendervi interessati ad ogni uomo facendosi talmente vicini tanto da toccarne le sue ferite e le sue attese, le sue domande e i suoi bisogni, con quella tenerezza che è espressione di una cura che cancella ogni distanza».
È allora evidente che per essere “un fermento di Dio in mezzo all’umanità” (EG 114), lo sviluppo di nuove possibilità non le viene dal doverle fare quale tributo sacrificale, ma dalla potenza delle «passioni gioiose», dal cuore, entro cui ci stanno anche quei sacrifici che sono al servizio della vita. Da qui «la necessità allora di formare a quella bellezza – è ancora il Papa a dirlo – che valorizza la dimensione intuitiva e amorevole del cuore, perché la forza dell’amore di Dio che avete incontrato e conosciuto, porta a prendersi in carico dello sguardo altrui, e rende capaci di sporcarsi le mani».
Dopo quanto detto è doverosa una domanda: nell’attuale vita religiosa la formazione arriva a formare il cuore?
Il Samaritano che passando per la strada vide ed ebbe compassione viene a dirci che «non c’è in una intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, (tanti altri) cingendoti il collo possa rialzarsi».
Rino Cozza csj