Dall'Osto Antonio
BREVI DAL MONDO
2020/12, p. 34
NORVEGIA: Un trappista nominato vescovo a Trondheim MESSICO: Morto il vescovo dei poveri A. Lona Reyes, sopravvissuto a 11 attentati IRAQ-MOSUL: Giovani musulmani ripuliscono chiese e collaborano al ritorno dei cristiani

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Testimoni
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Norvegia
Un trappista nominato vescovo a Trondheim
Non avviene spesso, ma può capitare che un monaco trappista sia nominato vescovo. Nei secoli lontani era un fatto abbastanza normale. È stato ora papa Francesco a rinverdire la tradizione nominando vescovo proprio un trappista, Erik Varden, per la piccola diocesi di Trondheim, dove vivono circa 15 mila cattolici, in Norvegia. La nomina era avvenuta già il 1° ottobre del 2019, ma la consacrazione prevista per il 4 gennaio di quest’anno, era stata rimandata “a tempo indeterminato” per motivi di salute, come ha spiegato una nota diffusa dalla segreteria della Conferenza episcopale dei Paesi nordici. Lo stesso vescovo eletto Varden ha scritto una lettera ai fedeli spiegando che gli era stato “ordinato di seguire il consiglio dei medici di rimettersi in piedi”. La sua consacrazione ha avuto luogo lo scorso 3 ottobre 2020, nella Cattedrale dedicata a sant’Olav, l’antico re patrono del Paese: è il settimo pastore da quando la Chiesa fu restituita, prima come prefettura e vicariato apostolico, poi, nel 1979, come prelatura territoriale, ossia la configurazione attuale. Era dal 1537 che la diocesi di Trondheim non aveva un vescovo. Era stata infatti soppressa ai tempi della Riforma protestante e attualmente era retta dal vescovo di Oslo. La cerimonia ha avuto luogo alla presenza di un gruppo molto ristretto di fedeli a causa del coronavirus. P. Varden è nato il 13 maggio 1974 in una famiglia luterana non praticante nel sud della Norvegia ed è cresciuto nel villaggio di Degernes. La sua vita cristiana è stata ispirata da p. Tadeusz Hoppe, SDB. Dopo l'istruzione scolastica nel suo paese natale, ha continuato a studiare all'Atlantic College, in Galles (fino al 1992) e successivamente al Magdalene College, a Cambridge (1992–1995) con il Master of Arts . Ha conseguito il dottorato presso il St. John's College di Cambridge e la Licenza in Sacra Teologia presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma. È entrato ufficialmente a far parte della Chiesa cattolica nel giugno 1993. Accolto nell'Abbazia di Mount St. Bernard, un monastero trappista vicino a Coalville nel Leicestershire , in Inghilterra, nel 2002, ha emesso la professione il 1 ottobre 2004 e quella solenne il 6 ottobre 2007. È stato ordinato sacerdote il 16 luglio 2011, per questa comunità, dal Vescovo Malcolm McMahon. Dal 2011 al 2013 è stato professore di lingua siriaca, storia monastica e antropologia cristiana presso il Pontificio Ateneo Sant'Anselmo a Roma . Ha poi lasciato l'insegnamento ed è tornato nella sua Abbazia nel 2013 dopo essere stato nominato Amministratore Superiore dell'Abbazia. Il 16 aprile 2015, è diventato l'undicesimo abate dell'abbazia di Mount St. Bernard, a seguito di un'ulteriore elezione, diventando anche il primo abate nato al di fuori della Gran Bretagna o dell'Irlanda a guidare questa abbazia. Ha scritto libri e articoli nel campo della spiritualità cristiana e del monachesimo. È anche un musicista e ha studiato canto gregoriano con la dottoressa Mary Berry, in seguito co-fondando il Forum del canto con Dame Margaret Truran dell'abbazia di Stanbrook. Dopo la consacrazione episcopale, l’emittente cattolica di Colonia, Dom Radio, lo ha intervistato l’11 novembre scorso, festa di S. Martino. Gli ha domandato anzitutto quali sono le principali sfide che dovrà affrontare nel suo nuovo incarico. “Sono quelle di sempre” ha risposto: annunciare il Vangelo in maniera fedele e credibile, incarnare e custodire l’unità. Noi viviamo qui, ha aggiunto, in una diaspora estrema. Ma è stranamente affascinante e anche molto bello perché qui si vede chiaramente la cattolicità. Qui nella piccola diocesi di Trondheim ci sono più di 120 nazionalità tra i fedeli. Io trovo questo fatto eccitante e arricchente”. L’intervistatore, Gerald Mayer, gli ha anche chiesto: “lei è un trappista, ossia un monaco di un Ordine religioso contemplativo. Come unisce insieme questo fatto con l’ufficio episcopale?”
“Sì, – ha risposto – sembra un paradosso. Ma ci sono sempre stati, quasi fin dall’inizio, monaci consacrati vescovi. Oggi celebriamo la festa di San Martino: il santo è un mirabile esempio che questa sintesi tra essere monaco e insieme vescovo pastorale può effettivamente portare frutto. È quanto mi auguro di fare anch’io”. In concreto, ha aggiunto, “cercherò di curare la mia vita di preghiera e anche la dimensione contemplativa attraverso la lettura e la preghiera personale e spero che dopo 20 anni di vita monastica i valori fondamentali assimilati in certo qual modo possano esprimersi anche nella mia vita quotidiana che sarà molto laboriosa... Ciò che mi infonde speranza è l’entusiasmo che trovo tra i fedeli e i giovani della Chiesa. Qui c’è una crescita annuale tra il 10 e il 15%. Ma apprezzo molto anche la fedeltà e il bene che vengo a conoscere”.
Messico
Morto il vescovo dei poveri A. Lona Reyes, sopravvissuto a 11 attentati
Il Messico, oltre che un paese in cui infuria la violenza, è anche un paese duramente colpito dal Covid-19. Il contagio ha mietuto numerose vittime anche nella Chiesa cattolica. Come riferisce il Centro mediale, fino al 7 ottobre sono morti in seguito all’infezione, più di 90 membri del clero e almeno sei vescovi sono stati contagiati. Una delle vittime più note è stato il vescovo Arturo Lona Reyes, conosciuto secondo quanto ha scritto il quotidiano “Jornada” il 12 novembre scorso, come uno degli esponenti più noti della teologia della liberazione in Messico. Era chiamato il “vescovo dei poveri”.
Era nato il 1 novembre 1925 nello Stato federale Aguascalientes. Come sacerdote e vescovo aveva dedicato la sua attività soprattutto ai poveri, agli abbandonati e agli oppressi. Aveva fondato due cooperative per la produzione del caffè organico e un’altra per il sesamo.
Si era impegnato anche per la difesa dei diritti dei territori indigeni dando origine al Centro per la difesa dei diritti umani Tepeyac a Tshuanntepec. Dal 1972 era presidente della Commissione episcopale per gli indigeni.
Si era opposto alla creazione dei grandi progetti minerari e per la produzione di energia eolica nei territori indigeni. Si era prodigato anche per l’università degli indigeni. Tutto questo impegno, oltre meritargli numerosi riconoscimenti pubblici, gli aveva procurato anche molti nemici basti pensare che era scampato a ben 11 attentati.
Ora il coronavirus se l’è portato via, all’età di 95 anni, lasciando un grande rimpianto e un paese, il Messico, tuttora in preda a una diffusa violenza che non sembra diminuire. Stando al portale “Vanguardia”, nel 2019 le vittime di questa violenza sono state 34.582. Impressionante anche il numero delle vittime tra le donne: 1.006. Numerosi anche i rapimenti: 1559 nel 2018, saliti a 1614 nel 2019.
Il presidente Andres Manuel Lopes Obrador, a capo del Paese dal 2018, aveva promesso di potenziare la sicurezza pubblica e di abbassare la criminalità, ma il numero delle vittime della violenza continua a rimanere alto.
Iraq – Mosul
Giovani musulmani ripuliscono chiese e collaborano al ritorno dei cristiani
In Iraq, fin dalla liberazione, si è formato un gruppo di volontari (musulmani) di Sawaed al-Museliya che lavorano per cancellare le tracce dello Stato islamico e portare aiuto alle persone in difficoltà. L’appello che rivolgono alle famiglie cristiane fuggite è: “Tornate, Mosul non è completa senza di voi!”. È quanto racconta Mohammed Essam, co-fondatore di un gruppo di volontari della metropoli del nord dell’Iraq, impegnati a ripristinare l’uso di edifici storici della città, anche cristiani, nel tentativo di superare le drammatiche ferite inferte da anni di dominio dello Stato islamico (SI, ex Isis). Assieme ad altri ragazzi, musulmani, sta ripulendo (nella foto) da polvere, detriti e calcinacci la chiesa siro-cattolica di san Tommaso. Lo storico luogo di culto risale alla metà del 1800 ed è stato oggetto di spogliazione e distruzione dei miliziani del “califfato”, che nell’estate del 2014 avevano preso il controllo di Mosul e di gran parte della piana di Ninive, costringendo i cristiani (come gli yazidi, altri musulmani, sabei) alla fuga verso il Kurdistan irakeno. Un dominio durato fino all’estate del 2017 e perpetrato con la violenza e il terrore, oltre alla devastazione di luoghi simbolo come la moschea di Al-Nouri e la chiesa di Al-Saa (Nostra Signora dell’Ora).
Dopo il saccheggio, avvenuto durante l’estate del 2014, la chiesa di san Tommaso era rimasta in uno stato di abbandono, col rischio del crollo completo della struttura. Il gruppo di giovani volontari ha voluto considerarla un simbolo di rinascita, nel tentativo di “spazzare via” le brutalità e gli orrori del dominio jihadista, come la scritta “Terra del Califfato” in arabo che campeggiava su uno dei muri dell’edificio. Un riferimento alle ambizioni del gruppo sull’intero Medio oriente.
Essam, avendo vissute in prima persona le atrocità commesse dagli uomini di al-Baghdadi, afferma: “Vogliamo cambiare la percezione della gente nella regione, e in tutto il mondo, sulla città di Mosul. Vogliamo dire che i cristiani appartengono a questa terra. Essi hanno una ricca e preziosa storia alle spalle qui”.
Fin dalla liberazione il gruppo chiamato “Braccia di Mosul” (Sawaed al-Museliya, in arabo) ha fornito assistenza e aiuti, distribuendo cibo e beni di prima necessità ai più bisognosi, ricostruendo case, soprattutto quelle appartenenti ai più poveri. Pulendo la chiesa, essi intendono sostenere gli sforzi della locale comunità cristiana a ricostruire edifici, strutture, beni e proprietà storiche e preparare il terreno per il ritorno di quanti sono fuggiti in passato a causa delle violenze etniche e confessionali. “Vogliamo prenderci cura di loro e dei loro luoghi di culto”.
Finora solo una cinquantina di famiglie cristiane sono tornate a Mosul, sebbene ogni giorno a centinaia, dalla piana di Ninive e dai villaggi cristiani, si recano nella metropoli per motivi di studio e di lavoro. I giovani, conclude una fonte cristiana del nord dell’Iraq, sono “la speranza di questa città, che molto ha sofferto in passato avendo attraversato un tunnel oscuro”. (Asia News 04.11.2020).
a cura di ANTONIO DALL’OSTO