Cozza Rino
Il futuro sta nell’ imparare a ospitare il nascente
2020/12, p. 27
«Promuovete la vita religiosa, ma se ieri la sua identità era legata soprattutto alle opere, oggi costituisce una preziosa riserva di futuro a condizione che sappia porsi come segno visibile, sollecitazione per tutti a vivere secondo il Vangelo».

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FINE DI UN CERTO EFFICIENTISMO
Il futuro sta nell’ imparare
a ospitare il nascente
«Promuovete la vita religiosa, ma se ieri la sua identità era legata soprattutto alle opere, oggi costituisce una preziosa riserva di futuro a condizione che sappia porsi come segno visibile, sollecitazione per tutti a vivere secondo il Vangelo».
Perché la vita religiosa ha sempre più difficoltà a «far scoccare nei giovani la scintilla accompagnatrice a una scelta di vita, vista dalla mente e dal cuore come qualcosa di profondamente liberante?»
E continuando: «come deve proporsi la VR per poter dare attualità, presenza storica a Cristo nel modo di essere e di fare, trasparenza esemplare di ciò che può rendere piena e bella la vita?»
Da dove ripartire
per voltare pagina
Si tratta di attivarsi affinché la vita religiosa possa essere vista ora, non come il fenomeno terminale di una teologia e di una prassi obsoleta ma come una potente umile testimonianza di vite che parlano all’uomo d’oggi in modo da far lievitare il Cristo nella loro umanità, consapevoli che la trasmissione della tradizione non è ripetizione, bensì continua reinterpretazione e rimessa al mondo. Si tratta di ridonarle l’attrattiva della sua bellezza spirituale e umana, quella che crea gioia nel vivere e nel donarsi, dicendo così che testimoniare l’incarnazione significa «comprovare» la verità di quanto promesso da Gesù: «Sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza».
Il punto da cui partire per voltare pagina è indicato in ciò che il Papa disse ai vescovi: «promuovete la vita religiosa, ma se ieri la sua identità era legata soprattutto alle opere, oggi costituisce una preziosa riserva di futuro a condizione che sappia porsi come segno visibile, sollecitazione per tutti a vivere secondo il Vangelo». C’è qui l’invito ai vescovi a promuovere quella VR che non intende smentirsi in questo suo dover essere, con il credere che gli appelli migliori siano ancora quelli che insistono su quel fare che ora va inghiottendo le persone stesse.
La fine del trionfalismo della Chiesa – scrive L.Bruni - coincide con la fine di un certo efficientismo della vita religiosa, quello percepito in base alle prestazioni di utilità sociale oggi conseguibili anche al di fuori di essa, senza accorgersi che facendo della missione quasi un mestiere si va alla deriva. In ogni caso ridotta prevalentemente a un sistema etico e a una organizzazione di servizi, non incanta più. Ma per favorire una visione di sé che le permetta di intravvedere la missione all’interno di quel futuro verso cui Dio sta conducendo la Chiesa, ha bisogno oggi più che mai di avanzare libera da tante cristallizzazioni supportate da verità virtuali espresse con parole senza senso per l’attuale sensibilità culturale. Si tratta allora di dover trasformare velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni e di ricomprendere la fede.
Aver bisogno di imparare,
non è sminuirsi ma crescere
A ricordarcelo è la Costituzione pastorale Gaudium et Spes, che in vari passaggi fa intendere che la Chiesa non è solo «maestra» ma sempre anche «discepola». Soltanto così le è possibile proporsi come maestra, poiché l’essere discepola e maestra sono due «funzioni» e non due «frazioni» della Chiesa. Allora se oggi si vuole incontrare il nascente, occorre partire non solo da quello che si desidera insegnare ma dalle domande, in particolare quelle delle nuove generazioni, per le quali nessun valore entra nella vita della persona se questa non ha partecipato a costruirlo.
In riferimento alla VR, quando le configurazioni delle precedenti identità non attraggono più è necessario tradurre i valori scaturenti dalla consacrazione in espressioni percepibili e valutabili in termini razionali, uscendo da alcune dimore familiari della mente, inchiodate all’idea di una vita frutto dell’accumulo ideologico e di tradizioni, possibili in quelle stagioni in cui l’uomo costruiva il proprio futuro con l’assimilazione di quanto riceveva dai predecessori ritenendoli depositari della rivelazione. Questa idea Newman la esprimeva così: in tutte le cose della vita, ma specialmente in quelle di tipo religioso «noi vediamo tutto attraverso le lenti delle abitudini precedenti», senza avvedersi che la storia cammina veloce, e non tenerne il passo conduce a essere portatori di una cultura residua, sbiadita.
Qualche decennio prima del Concilio, ad accorgersi che la verità di un cammino discepolare (movimenti) è sempre apertura a un processo evolutivo, furono non pochi laici e laiche, che presa coscienza della novità radicale dei tempi nuovi, e delle insospettate possibilità che questa crisi rivelava, intercettarono le inedite istanze spirituali, culturali, sociali, aprendo così delle vie concrete di vita evangelica. Dall’intraprendenza di questi/e sono sorte diverse nuove forme discepolari depositarie di universi simbolici, capaci di dare un sovrappiù di senso alla vita evangelica, con il rappresentare qualcosa di ben diverso dalle conosciute istituzioni canoniche, dalle quali avevano preso le distanze.
Queste forme di vita evangelica diventarono ben presto attrattive con il portare all’attenzione che il cristianesimo, in quanto religione dell’incarnazione, come prima operazione avrebbe dovuto cercare di risvegliare l’umano, offrendo spazi di umanità interessante, credibile, che potesse attirare l’attenzione, sviluppando interrogativi che promuovessero la crescita del ben-essere non solo spirituale ma altresì psichico, fisico, in risposta al desiderio di autenticità, di realizzazione, in fedeltà anche a se stessi, cioè alla propria verità e al nome scritto da Dio in ognuno.
Tutte attenzioni queste da cui la VR oggi non si può sottrarre se vuole segnare tracce calibrate sugli attuali orizzonti, con ruolo simbolico, critico, trasformatore dentro la società, facendo così intravedere l’Uomo-Dio (Gesù), non chiuso unicamente in pratiche di culto ma tra la gente, in grado di appagare l’aspirazione alla luce, all’ amore, alla bellezza.
Il nascente va appreso:
è ciò che è avvenuto nel Concilio
Per aprire porte e finestre il Concilio è partito dal chiedersi: «che cos’è la Chiesa? che cosa fa la Chiesa?». La sorprendente risposta fu che la Chiesa non si identificava nelle dimensioni che aveva privilegiato fino allora. I padri conciliari si erano resi conto che il mondo voleva vedere nei cristiani degli appassionati ricercatori della verità, credibili nella misura in cui sapevano aderirvi non solo per obbedienza, ma per amore della verità stessa, anche quella che non coincideva in tutto con le sue formulazioni, poiché queste non ne esaurivano l’ambito della verità, poiché questa va compiendosi nel tempo. Tutto ciò è stato possibile per il coraggio di passare dalla «teologia deduttiva» cioè quella che si appoggiava sui documenti anteriori del magistero ritenuti per sempre definiti e quindi irriformabili, alla «teologia induttiva», cioè a quel metodo fondato sulla ricerca continua della verità, poiché – come diceva s. Paolo, «non abbiamo alcun potere contro la verità» (2Cor 13,8). Se così non fosse – come messo in luce da Schillebeeckx – ci sarebbero conseguenze teologiche gravi, perché si finirebbe con il sostenere che, come nel caso di Galileo, si dovesse prestare l’assenso dell’intelletto alla non-verità, cosa inammissibile dal punto di vista evangelico. Da qui l’avvio al ripensare la Chiesa, la rivelazione, la trascendenza divina e la categoria del sacro, svincolate dalla cultura prescientifica, non in pari con la coscienza etica dei nuovi tempi. Ora dopo che il decreto conciliare «Dignitatis humanae» dichiarò che «la verità non si impone che per la forza della verità stessa», nessuno può pensare che l’autorità vada privilegiata rispetto alla verità. A richiederlo è l’etica della responsabilità senza la quale non c’è etica.
Che la verità non si possieda ma vada continuamente cercata, è anche sottesa nella preghiera del canone eucaristico V/c, dov’è detto: «La tua Chiesa, Signore, sia testimonianza viva di verità e di libertà perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo». Invocarla significa che la verità non è mai definitivamente data, ma va cercata attraverso i segni iscritti nelle pieghe del tempo, essendo essa «non una premessa, ma si dà, semmai, solo in un processo sterminato di approssimazioni, congetture, trasformazioni».
Questo viene a dire che la verità ha costante bisogno della potenza purificatrice della logica, ossia della ragione, per cui - come ricordato da Benedetto XVI a Ratisbona - non agire secondo ragione è mettersi in contraddizione con la natura di Dio, non essendo un Dio irragionevole. Allora perché la Chiesa possa essere credibile di fronte al mondo, oggi particolarmente critico, deve accettare che l’«ipse dixit» non sostituisca il principio di verità.
Specie in alcuni momenti, nella Chiesa il disagio esistente nella coscienza di coloro che pensavano è stato alto non essendo difendibile il principio formalizzato da T. Hobbes (XVII sec.) secondo cui «è l’autorità che fa la legge, e non la verità». Prospettiva che trovava il presupposto in quella di Gregorio VII (sec. IX), che insensatamente, nella Bolla Dictatus Papae così decretava: «la Chiesa non ha mai sbagliato e non può in eterno sbagliare».
Oggi, con più verità siamo invece nel tempo in cui l’imperativo sta nell’imparare a pensare, a partire dalla concretezza dei “segni dei tempi”, cioè dall’oggi della storia.A dirlo è stato anche il card. Martini: «vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siamo credenti o non credenti».
Un’altra indicazione che viene dal Concilio e che anche la VR dovrebbe apprendere, è quella secondo cui lo Spirito parla alle istituzioni attraverso le persone e non il contrario, siano esse di vertice come di base; persone che vigilano sulla linea del mattino e scommettono sull’avverabile sapendo intercettare in anticipo gli orizzonti della storia. Gente dal parlare cristallino, mai prigioniero del ruolo e delle convenzioni, mai inutilmente infiocchettato. Si pensi a coloro che prima (per decenni osteggiati e spesso condannati), durante e dopo il Concilio furono ispiratori della nuova immagine di Chiesa e del nuovo modo di essere cristiani, quali furono, ad esempio, Y. Congar, J. Pohier, K. Ranher, C. Curran, B. Häring, D. Chenu, H. De Lubac, A. Bea, Von Baltassar, J. Tillard e tanti altri ancora.
La vita religiosa
ora dov’è chiamata a collocarsi?
Specie nei momenti come l’attuale in cui l’appartenenza alla Chiesa e alle sue istituzioni è meno sentita, c’è nostalgia della Chiesa delle origini, vale a dire di quel tempo in cui le persone seguivano Gesù, risvegliate dall’aver sentito parlare, per la prima volta, di Dio come possibilità di una nuova freschezza di vita dalla misura abbondante, libera da tradizioni indiscutibili, tabù sacrali, accumulo di leggi e riti; libera da influssi filosofici quali il platonismo e lo stoicismo.
Per cogliere l’identità della VR è dunque imprescindibile il riferimento a quel cristianesimo originario il cui paradigma non è desumibile dall’essere religione ma dall’essere una vita improntata al pensare e agire di Cristo attraverso cui ci è dato di scoprire il volto divino di figlio di Dio.
Dove allora collocarsi in quanto religiosi/e stante il fatto che la preoccupazione di Cristo non è stata quella di radunare un gruppo elitario nell’intento di isolarli dagli altri?
Una indicazione viene da Giovanni Paolo II, il quale affermava che all’origine «la vita religiosa non è stata vista come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma come punto di riferimento per tutti i battezzati […] per cui «il religioso è esemplare non perché il suo stato di vita sia più ammirevole di qualunque altro stato di vita cristiana, ma perché nella sua esistenza può emergere più chiaramente e in modo più diretto quello che è il senso di ogni vita cristiana». È quello che già aveva detto san Basilio (+379), iniziatore della fraternità evangelica, secondo il quale nella Chiesa non ci sono vocazioni “privilegiate.” Similmente G. Crisostomo (IV sec.) riteneva che nella Bibbia non ci fosse questa divisione di vocazioni. Ai nostri giorni è p. Thaddée Matura, come tanti altri, a dire che «la vita cristiana non è una sotto-categoria della vita religiosa, un minimo comune multiplo; ma è la vr ad essere un certo modo di realizzazione della vita cristiana, e non c’è niente di più grande e di più alto di quest’ultima». Allora, la VR essendo nata in funzione della comunione, dev’essere riconoscibile come un corpo comunicativo, per cui non può essere qualcosa che vive in sé e per sé, con la conseguenza che l’insistita «particolarità» la porti di fatto a essere oggi irrilevante.
Concludendo: oggi, tempo in cui la Chiesa sta rivelando un volto con i tratti di bella e buona notizia, facendo vedere – come va facendo papa Francesco – quanto le ragioni del cuore siano le condizioni perché l’umano incontri il divino, i religiosi e le religiose sono chiamati a sottolineare questa dimensione in una comunità dai tratti fraterni aperta alla condivisione di tutti, vivendo in modo vibrante e significativo le note dell’audacia nelle iniziative, la retta autonomia e libertà di fronte ad ogni legalismo, un certo tono di novità, di originalità, di entusiasmo e di giovinezza dello spirito, spinta vitale e slancio apostolico».
Rino Cozza