Angelini Maria Ignazia
“Non sappiamo come pregare” (Rm 8,26). Attraversare la mancanza
2020/12, p. 22
“La cosa che più ci manca”, scriveva Davide Turoldo a proposito della preghiera. Mancanza non vuol dire assenza. Vive comunque, in ogni essere, e tanto più nella creatura uscita “molto buona” dalla mano di Dio, il soffio della preghiera. Mancanza vuol dire sofferta carenza, voce chiusa in gola. Il Dono di pregare è in me, ma io sono smarrita altrove. Trascuriamo il Soffio che arde in noi. Non sappiamo ascoltarne in noi la Voce, e obbedirgli.

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Testimoni
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“Non sappiamo come pregare” (Rm 8,26). Attraversare la mancanza
“La cosa che più ci manca”, scriveva Davide Turoldo a proposito della preghiera (Pregare, 2004). Mancanza non vuol dire assenza. Vive comunque, in ogni essere, e tanto più nella creatura uscita “molto buona” dalla mano di Dio, il soffio della preghiera. Mancanza vuol dire sofferta carenza, voce chiusa in gola. Il Dono di pregare è in me, ma io sono smarrita altrove. Trascuriamo il Soffio che arde in noi. Non sappiamo ascoltarne in noi la Voce, e obbedirgli. È mormorio, come si esprimeva Ignazio di Antiochia, scrivendo ai Romani: “Un’acqua viva mormora in me”. È gemito, dice san Paolo (Rm 8,15.26). è stupore di pianto. È grido molto più originario di ogni articolazione in parola. Così tenace, e al tempo stesso voce mite, da poter rimanere viva anche se trascurata, marginalizzata nella dimenticanza. Preghiera: la cosa che più ci manca.
La preghiera è liberata in noi dall’attenzione. Alla realtà, al venire del Signore. Oggi più che mai, nella precarietà dell’ora che tutti ci incalza e disorienta, preghiera è il respiro che più ci manca.
San Paolo ha in proposito una constatazione sofferta, perentoria, rischiarante: “Non sappiamo pregare”, dice (Rm 8,26): è questo l’inizio di ogni preghiera.
Anche dopo anni, anzi dopo decenni, secoli, di pratica religiosa comprendo che l’inizio della preghiera è questa sofferta percezione, conseguente all’incontro con Gesù. Un “non so”, che si fa adesione a lui: “Insegnaci!” (Lc 11,1). L’arte della preghiera si apprende riconoscendosene radicalmente ignoranti: dinanzi al pregare di Gesù. Feriti e benedetti dalla mancanza.
È che oggi non solo il buio della fede ci fa percepire che non sappiamo pregare. Viene come ammutolita la preghiera dalla stessa dura consistenza della realtà attuale. Il distanziamento, come minaccia di azzeramento della relazione, travolge ed estenua anche quel “qualcosa di così personale” (C. M. Martini) che è il pregare. Notizie, volti, sguardi, interminabili dispute, domande, insostenibili attese, rinnovano l’interrogativo antico: “Chi può pregare? Come?”. Sette giorni e sette notti di silenzi che le attraversano (Gb 2,12-13).
Silenzio, perché preghiera è stare dinanzi alla santità di Dio, in sofferta attenzione alla realtà. Quando alziamo il capo dalle molte faccende e parole che solcano i nostri giorni, e in un attimo di sosta pensosa contempliamo la realtà umana, sorge la domanda: “Qui, ora, chi può? come pregare?”.
Nella preghiera, siamo sempre da capo analfabeti. Con labbra impure, cuore instabile nel pensiero, distratto nella memoria, e il muro di mezzo: mille ingannevoli priorità. Come pregare?
I discepoli – dobbiamo ritrovarci sempre da capo lì – lo capiscono, come d’un lampo, al solo vedere Gesù in preghiera. Lì, si scioglie la dolorosa mancanza.
In un’ora severa, buia – attraversata con lucida attenzione -, Bonhoeffer, nel suo sofferto cammino di testimone di Cristo in mezzo ai fratelli, così si esprime, e ci fa strada: «Signore, insegnaci a pregare!», così i discepoli dicevano a Gesù, riconoscendo in tal modo di non saper pregare con le proprie forze. Essi avevano necessità di imparare. Imparare a pregare: l'espressione ci suona contraddittoria. Infatti ci sembra che il cuore o sarà così traboccante da iniziare da solo a pregare, o non imparerà mai. Ma è un pericoloso errore (...). Scambiamo la preghiera con i desideri, le speranze, i sospiri, i lamenti, la gioia; tutte cose queste che il cuore sa esprimere per suo conto. Ma (…) pregare non significa semplicemente dare sfogo al proprio cuore, significa piuttosto procedere nel cammino verso Dio e parlare con lui, sia che il nostro cuore sia traboccante oppure vuoto. Ma per trovare questa strada è necessario Gesù Cristo. (…) Solo per mezzo di Gesù Cristo. Se egli ci coinvolge nella sua preghiera, se ci consente di pregare con lui, se ci fa percorrere in sua compagnia il cammino verso Dio e ci insegna a pregare, allora saremo liberati dal tormento dell'incapacità a pregare (…). Il bambino impara a parlare in quanto il padre gli parla. Impara la lingua del padre. Allo stesso modo impariamo a parlare da Dio, in quanto Dio ci ha parlato e ci parla. Nel Figlio, Gesù. (…) Sulle sue labbra la parola umana diventa Parola di Dio, e nel nostro partecipare alla sua preghiera la Parola di Dio si fa, a sua volta, parola umana” (Il libro di preghiera della Bibbia).
“Noi non sappiamo come pregare”. Questa che potrebbe oggi sembrare esperienza scoraggiante la preghiera, ne è invece l’inizio benedetto.
Solo vedendo Gesù in preghiera, i discepoli scoprono che non sanno pregare. Percepiscono la distanza. E Gesù – come se da sempre attendesse quella domanda - li avvolge, li immerge nel suo stesso essere: “Quando pregate dite: Abbà, Padre!”. Battesimo ante litteram. In Gesù comprendiamo che Dio attende il nostro desiderio di pregare. Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo. Dio attende come un mendicante... Il tempo è questa attesa. Il tempo è l'attesa di Dio che mendica il nostro amore" (S. Weil). “Non è uno sforzo muscolare, quell’attenzione che libera in noi la preghiera, ma è il desiderio. L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile”. Il dolore della mancanza è trasformato, dall’attenzione a Gesù, in preghiera. Potessimo dire, soltanto, a Dio: “Papà”; e immergerci in questo Nome appreso da Gesù, basterebbe. Non c’è altro da dire. Anche e proprio in questi giorni terribili. Immersi in questo “Abbà!” del Figlio, ogni altra voce acquista il proprio vero, nitido suono. Ci vengono restituite parole, sentimenti, emozioni. Che vengono ad arricchire la ricca corrente dei Salmi, fiume di preghiera alimentato da generazioni e generazioni.
Tutto sta nell’osare il respiro dell’“Abbà, Padre!”. Aderirvi, entro il desolato vuoto di oggi, esorcizzando la paura: la mancanza, ogni ferita, ci dischiude a pregare - sola grazia - in spirito e verità.
MARIA IGNAZIA ANGELINI
Monaca di Viboldone