Chiaro Mario
Come “convertire” la parrocchia?
2020/11, p. 36
Un documento della Congregazione per il Clero propone che la conversione pastorale della parrocchia assuma la forma di una comunità inclusiva e missionaria, attraverso unità o zone pastorali che siano espressione di vera compartecipazione dei vari soggetti pastorali e di un nuovo rapporto tra fedeli e territorio.

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DOCUMENTO DELLA CONGREGAZIONE PER IL CLERO
Come “convertire” la parrocchia?
Un documento della Congregazione per il Clero propone che la conversione pastorale della parrocchia assuma la forma di una comunità inclusiva e missionaria, attraverso unità o zone pastorali che siano espressione di vera compartecipazione dei vari soggetti pastorali e di un nuovo rapporto tra fedeli e territorio.
La recente Istruzione della Congregazione per il Clero (29/06/2020) ha un titolo ambizioso: La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa. I principali destinatari sono le chiese particolari che oggi, sotto la spinta della riflessione post-conciliare e dei cambiamenti socio-culturali frutto dell’accelerato processo di globalizzazione, sono impegnate in una laboriosa riorganizzazione della forma di affidamento della cura pastorale delle comunità parrocchiali, «attuando, sotto la guida dei pastori, una sintesi armonica di carismi e vocazioni a servizio dell’annuncio del Vangelo, che meglio corrisponda alle odierne esigenze dell’evangelizzazione» (n. 1).
Nell’Introduzione si sottolinea che il testo vuol essere un invito alle comunità parrocchiali «a uscire da se stesse, offrendo strumenti per una riforma, anche strutturale, orientata a uno stile di comunione e di collaborazione, di incontro e di vicinanza, di misericordia e di sollecitudine per l’annuncio del Vangelo» (n. 2). Sulla stessa linea si muove anche la Conclusione, nella quale «la storica istituzione parrocchiale» rimane comunque legata ai vincoli di un diritto che a questo punto necessita di una riforma: il documento si presenta come «un modo di applicare la normativa canonica che stabilisce le possibilità, i limiti, i diritti e i doveri di pastori e laici» (n. 123).
Questa visione non ha mancato di suscitare un forte dibattito. Per alcuni, il testo così redatto mostra scarsa sensibilità per la realtà concreta delle chiese locali e rischia di mettere in discussione diverse nuove forme di comunità parrocchiali che si stanno gradualmente sviluppando (per esempio in Francia, Stati Uniti e Germania). Per altri, si parte da una prospettiva pastorale-missionaria per arrivare ad assumere una prospettiva tradizionale di tipo canonistico, senza aperture alle novità suscitate dallo Spirito.
La missione, criterio guida
per il rinnovamento
Nei primi cinque capitoli dell’Istruzione la parrocchia è chiamata ad attuare una “conversione missionaria” che porti anche a una “riforma delle strutture”.
La configurazione della parrocchia deve senz’altro confrontarsi con le mutate condizioni esistenziali delle persone: «il legame con il territorio tende a essere sempre meno percepito, i luoghi di appartenenza divengono molteplici e le relazioni interpersonali rischiano di dissolversi nel mondo virtuale senza impegno né responsabilità verso il proprio contesto relazionale» (n. 9). Non essendo più, come in passato il luogo dell’aggregazione e della socialità, «la parrocchia è chiamata a trovare altre modalità di vicinanza e di prossimità rispetto alle abituali attività» (n. 14).
Interessanti le espressioni che il documento assume per esplicitare questa vicinanza-prossimità. Si introduce il concetto di “territorio esistenziale” («il contesto dove ognuno esprime la propria vita fatta di relazioni, di servizio reciproco e di tradizioni antiche», n. 16); si richiedono «nuove attenzioni e proposte pastorali diversificate, perché la Parola di Dio e la vita sacramentale possano raggiungere tutti, in maniera coerente con lo stato di vita di ciascuno» (n. 18); si riconosce che l’appartenenza si orienta oggi verso una “comunità di adozione”, dove si amplia l’esperienza del popolo di Dio. E ancora, l’annuncio del Vangelo va inserito «in una rete di relazioni interpersonali che generano fiducia e speranza», perciò occorre puntare sulla fraternità, dal momento che «l’evangelizzazione è strettamente legata alla qualità delle relazioni umane» (n. 24).
Il contesto di questa apertura della parrocchia verso tutti è dato da una “cultura dell’incontro”, che aiuta a «sviluppare una vera e propria “arte della vicinanza”»: a queste condizioni, la parrocchia può diventare – come dice papa Francesco (cf. EG 28) – un “santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario” (n.26). Un “santuario” aperto a tutti che diventa «primo luogo di incontro umano e personale dei poveri con il volto della Chiesa» (n. 33).
Dalla conversione delle persone
a quella delle strutture
Il capitolo sesto funge da cerniera tra la descrizione del necessario rinnovamento di persone/comunità in senso missionario e la riflessione sulla riforma dell’organizzazione pastorale delle diocesi. Rifacendosi al magistero di papa Francesco (EG 27), si sottolinea che il rischio della parrocchia in questo tempo di cambiamento è quello di «cadere in un’eccessiva e burocratica organizzazione di eventi e in un’offerta di servizi, che non esprimono la dinamica dell’evangelizzazione, bensì il criterio dell’autopreservazione» (n. 34). Su questo punto nevralgico, «per essere fedeli al mandato di Cristo, i pastori, e in modo particolare i parroci, “principali collaboratori del vescovo”, devono avvertire con urgenza la necessità di una riforma missionaria della pastorale». In questo processo il peso maggiore grava proprio sui pastori, chiamati a comprendere che «la fede del popolo di Dio si rapporta alla memoria familiare e a quella comunitaria». Per evitare traumi e ferite, i processi di ristrutturazione delle comunità devono quindi essere condotti con flessibilità e gradualità, curando «una necessaria fase di consultazione previa e una di progressiva attuazione, e di verifica» (n. 36).Il rinnovamento non deve “forzare i tempi” né essere imposto dall’alto escludendo il popolo di Dio. Così facendo, si evidenzia l’orientamento di fondo che riguarda «il superamento tanto di una concezione autoreferenziale della parrocchia, quanto di una “clericalizzazione della pastorale”»: infatti la comunità intera rimane «il soggetto responsabile della missione, dal momento che la Chiesa non si identifica con la sola gerarchia, ma si costituisce come popolo di Dio» (n. 38).
A questo punto, superando la logica del prete singolo, viene chiamata in causa la comunità presbiterale, che «dovrà esercitare con sapienza l’arte del discernimento che permette alla vita parrocchiale di crescere e di maturare, nel riconoscimento delle diverse vocazioni e ministeri» (n. 39). Il presbitero, servitore del popolo di Dio che gli è stato affidato, non può sostituirsi a esso. La comunità parrocchiale è abilitata a proporre forme di ministerialità, annuncio e testimonianza della carità. In sintesi, la missione della parrocchia riguarda tutto il «popolo di Dio nelle sue diverse componenti: presbiteri, diaconi, consacrati e fedeli laici, ciascuno secondo il proprio carisma e secondo le responsabilità che gli corrispondono» (n. 41).
Nuove forme
di struttura pastorale
Come già detto, la consapevolezza del costante allargamento dei “confini esistenziali” aiuta a considerare ormai superata una pastorale vissuta dentro i limiti territoriali della parrocchia. Con il linguaggio mutuato dai documenti del Magistero, da alcuni decenni si sono aggiunte alla parrocchia e ai vicariati foranei (già previsti dal vigente Codice di diritto canonico) espressioni quali “unità pastorale” e “zona pastorale”. «Tali denominazioni definiscono di fatto forme di organizzazione pastorale della diocesi, che esprimono un nuovo rapporto tra i fedeli e il territorio» (n. 43). L’impegno è quello di promuovere e orientare questo processo di rinnovamento, «in vista di una più efficace cura pastorale del Popolo di Dio, in cui il “fattore chiave” non può che essere la prossimità» (n. 44). Il documento (nn. 46-519, indica varie forme di riorganizzazione delle strutture territoriali: le singole parrocchie possono essere raggruppate in forma di federazione (cf. le ‘unità pastorali’, in cui le parrocchie associate rimangono distinte nella loro identità), mediante incorporazione (una parrocchia è assorbita da un’altra), mediante fusione (si dà vita a una nuova unica parrocchia, con estinzione delle comunità preesistenti), mediante divisione (una comunità genera più parrocchie autonome).
Il documento vaticano richiede che i vescovi, dopo necessaria consultazione del Consiglio presbiterale, procedano all’erezione di un raggruppamento di parrocchie per motivi adeguati e non per ragioni «reversibili a breve scadenza (ad esempio, la consistenza numerica, la non autosufficienza economica, la modifica dell’assetto urbanistico del territorio)» (n. 48).
Le unità pastorali sono «il raggruppamento stabile e istituzionale di varie parrocchie» (n. 54): ogni parrocchia deve essere affidata a un parroco o anche a un gruppo di sacerdoti in solidum, che si prenda cura di tutte le comunità parrocchiali; in alternativa il raggruppamento potrà anche essere composto da più parrocchie, affidate allo stesso parroco. Le zone pastorali, in particolare nelle diocesi estese, riuniscono diversi vicariati foranei sotto la guida di un vicario episcopale.
Responsabili pastorali:
figure ordinarie e straordinarie
La figura su cui si concentra la maggiore attenzione è quella del parroco, inserito nella comunione del presbiterio. Egli ha piena responsabilità pastorale e rappresentanza giuridica, è nominato a tempo indeterminato e può essere rimosso solo osservando le relative procedure canoniche. Il suo ufficio «non può essere affidato a un gruppo di persone, composto da chierici e laici. Di conseguenza, sono da evitare denominazioni come, “team guida”, “équipe guida”, o altre simili, che sembrino esprimere un governo collegiale della parrocchia» (n. 66).
Un ufficio transitorio invece è quello dell’amministratore parrocchiale, nominato dal vescovo nell’attesa della nomina del nuovo parroco. Nel caso dell’affidamento “in solido” a un gruppo di preti di più parrocchie, è prevista la nuova figura del moderatore, che coordina il lavoro comune delle comunità affidate assumendo la rappresentanza giuridica di esse.
Sono molti gli incarichi ecclesiali che possono essere affidati a un diacono, «ossia tutti quelli che non comportano la piena cura delle anime» (n. 81). Il diacono è un ministro ordinato, incardinato in una diocesi, collaboratore del vescovo e dei presbiteri nell’unica missione evangelizzatrice con il compito specifico, in virtù del sacramento ricevuto, di «servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità». All’interno della comunità parrocchiale sono ricordate anche le persone consacrate: il loro contributo alla missione evangelizzatrice «deriva in primo luogo dal loro “essere”, cioè dalla testimonianza di una radicale sequela di Cristo mediante la professione dei consigli evangelici, e solo secondariamente anche dal loro “fare”, cioè dalle opere compiute conformemente al carisma di ogni istituto» (n. 84). Infine, a tutti i fedeli laici si richiede un impegno al servizio della missione evangelizzatrice, con la «testimonianza di una vita quotidiana conforme al Vangelo» e con «l’assunzione di impegni loro corrispondenti al servizio della comunità parrocchiale» (n. 86).
Un’ulteriore straordinaria modalità di provvedere alla cura pastorale di una comunità si ha qualora, per la scarsità di sacerdoti, non sia possibile nominare un parroco né un amministratore parrocchiale: allora «il vescovo diocesano può affidare una partecipazione all’esercizio della cura pastorale di una parrocchia a un diacono, a un consacrato o un laico, o anche a un insieme di persone (un istituto religioso, un’associazione)» (n. 87).
In questo quadro variegato, emerge con tutta evidenza il ruolo del prete-parroco, che va preservato anche a livello terminologico, affinché sia chiara la differenza essenziale che intercorre tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale. È responsabilità del vescovo diocesano e del parroco, che «gli incarichi dei diaconi, dei consacrati e dei laici, che hanno ruoli di responsabilità in parrocchia, non siano designati con le espressioni di “parroco”, “co-parroco”, “pastore”, “cappellano”, “moderatore”, “coordinatore”, “responsabile parrocchiale”… riservate dal diritto ai sacerdoti, in quanto hanno diretta attinenza con il profilo ministeriale dei presbiteri. Nei confronti dei suddetti fedeli e dei diaconi, risultano parimenti illegittime e non conformi alla loro identità vocazionale, espressioni come “affidare la cura pastorale di una parrocchia”, “presiedere la comunità parrocchiale”, e altre similari, che si riferiscono alla peculiarità del ministero sacerdotale, che compete al parroco» (n. 96).
Mario Chiaro