Albanesi Vinicio
Samaritanus bonus
2020/11, p. 27
Leggendo la lettera della Congregazione per la dottrina della fede, «sulle fasi critiche e terminali della vita», dal titolo Samaritanus bonus, pubblicata il 22 settembre 2020, si rimane perplessi, non certo per i contenuti dottrinali, confermati da sempre dalla dottrina della Chiesa, quanto per l’approccio e la logica con cui è stata scritta.

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UNA LETTURA CRITICA DELLA LETTERA
Samaritanus bonus
Leggendo la lettera della Congregazione per la dottrina della fede, «sulle fasi critiche e terminali della vita», dal titolo Samaritanus bonus, pubblicata il 22 settembre 2020, si rimane perplessi, non certo per i contenuti dottrinali, confermati da sempre dalla dottrina della Chiesa, quanto per l’approccio e la logica con cui è stata scritta.
La lettera ha un’introduzione con quattro paragrafi, dopo di che passa al problema del fine vita e del suicidio, con una suddivisione in undici capitoli e una conclusione.
Osservazioni
(Introduzione) – I destinatari della lettera si accavallano in continuazione. Ad un primo impatto, sembrerebbe che la lettera sia rivolta a chi assiste le persone in fase critica; in seconda battuta, l’attenzione è a chi vive il dramma del fine vita; si introduce, inoltre, il tema del fine vita in termini “dottrinali”; si interpellano la scienza e gli operatori interessati; infine, l’attenzione agli Stati con le loro leggi.
Non si conoscono i motivi della lettera della Congregazione per tale tema: promette di voler «illuminare i pastori e i fedeli nelle loro preoccupazioni e nei loro dubbi», perché «si percepisce ovunque il bisogno di un chiarimento morale e di indirizzo pratico su come assistere queste persone, giacché «è necessaria un’unità di dottrina e di prassi».
Più sotto sono specificate le finalità della lettera:
-. Ribadire il messaggio del Vangelo […] coinvolgendo i familiari o i tutori legali, i cappellani ospedalieri, i ministri straordinari dell’eucaristia e gli operatori pastorali, i volontari ospedalieri e il personale sanitario, oltre che i malati stessi;
-. Fornire orientamenti pastorali precisi e concreti…
Con il dovuto rispetto, si può pensare che questo messaggio poteva essere pensato e scritto in maniera diversa.
Intanto, il titolo è discutibile. La parabola riportata dal Vangelo di Luca non parla del “buon” Samaritano, ma semplicemente di “un” Samaritano. Quel “buon” aggiunto sembra dire che ci sono altri samaritani che non sono buoni. Fuor di parabola, ogni cristiano deve essere “samaritano” e non soltanto alcuni addetti alle cure. Nel dramma del fine vita, per chi lo conosce concretamente, sono sempre coinvolti il malato, la famiglia, gli amici, i medici, gli operatori sanitari, i gruppi di aiuto, interi paesi e quartieri. C’è nella lettera un riferimento alla «comunità sanante». Peccato che il concetto di comunità si sia perso per strada…
(Paragrafo I) – Il prendersi cura di chi è fragile è il punto qualificante dell’azione umanitaria e cristiana. L’obiettivo dell’accudimento è fondamentale, come è importante non attivarsi solo per guarire dalla malattia, ma anche per accompagnare alla fine della vita. A questo punto, la lettera poteva sottolineare i limiti della cultura “clinica” che imperversa nella medicina moderna.
Al momento della diagnosi “funesta”, il medico scompare, lasciando alla famiglia (se c’è) chi ha ancora bisogno di assistenza. Esempio eclatante: l’abbandono e la deportazione degli anziani durante la pandemia del Covid in strutture collettive, non adeguate al sostegno di persone fragilissime.
Esiste un fine vita “naturale”: è il lento degrado dovuto all’età o alla plurimorbilità. La risposta sanitaria se, da una parte, registra, almeno per l’occidente, un allungamento della vita, grazie anche alla scienza, dall’altra, non si preoccupa molto degli ultimi anni di sopravvivenza che, per troppe persone, diventa angoscia che invoca la morte. A questo punto, si poteva appellare alla cultura prevalente di una società pensata come sempre forte, giovane e brillante, nascondendo la morte come evento non previsto né prevedibile.
(Paragrafo II) – Il richiamo al Cristo sofferente richiede una grandissima sensibilità e attenzione. Mettere in parallelo la sofferenza e la morte di Cristo con il fine vita non è né automatico, né sempre proponibile. Solo un’altissima spiritualità precedente ai momenti finali permette di pensare al Cristo in croce. La motivazione che ha portato Gesù alla crocifissione è troppo diversa per essere paragonata a una malattia grave o a una morte non voluta.
È vero che alcuni santi hanno potuto accompagnare le loro sofferenze con la morte di Cristo: l’hanno potuto fare perché l’avevano conosciuto e vissuto prima. Gesù è stato un martire; per essere tale occorre averne la vocazione che non è concessa a tutti.
Dare senso alla morte presuppone una forte fede e l’abbandono alle mani di Dio: dono di grazia e non di volontà umana.
(Paragrafo III) – Insistere sulla sacralità della vita è giusto: tutta l’impostazione religiosa cristiana richiama al rispetto della sacralità di ogni vivente.
La lettera sottolinea la prospettiva antropologica prevalente che fa riferimento al benessere, mentre va ribadito il principio che «la vita umana ha un valore in stessa».
Inoltre, sarebbe prevalente una falsa concezione della «compassione»: se la vita non vale la pena di essere vissuta, è meglio morire.
Infine, l’ostacolo che impedirebbe il valore della vita sarebbe l’individualismo crescente: un neo-pelagianesimo che pretende di salvare se stesso, senza riconoscere che ognuno dipende nel più profondo di se stesso, da Dio e dagli altri. Un tema scottante, che la lettera risolve appellando a una metafisica che è scomparsa da molto tempo nel pensiero comune.
I popoli occidentali hanno vissuto di benessere che ha portato loro più equità, più uguaglianza, più rispetto: un cammino che continua ad essere giustamente perseguito. Mettere in dubbio che il desiderio di benessere sia una stortura moderna non è sostenibile. Il valore della vita, se non rapportato alle condizioni reali di esistenza, è un concetto astratto che non porta da nessuna parte. La stessa teologia ha connesso le condizioni di vita al suo valore. Chi vive di stenti – al margine – non può avere un concetto alto del valore della vita. L’esperienza suggerisce che solo migliorando le condizioni fisiche, psichiche, relazionali e sociali, la vita vale la pena di essere vissuta.
Che la compassione agevoli, in casi estremi, il desiderio di morire, non è corretto: la paura agevola la richiesta di morire. È un pensiero derivante dalla mancanza di sicurezza: abituati a vivere soli, sempre in competizione, l’essere fragili e malati incute terrore.
Eutanasia
(n. 1 Divieto di eutanasia) – Improvvisamente la lettera passa a illustrare il divieto di eutanasia e di suicidio assistito. La preoccupazione della lettera è di affermare che «l’eutanasia è un crimine contro la vita umana». Più sotto, «è un atto intrinsecamente malvagio in qualsiasi occasione o circostanza». Si cita a tale proposito l’enciclica Evangelium vitae (25 marzo 1995, n. 65).
Si poteva citare la distinzione che la stessa enciclica dichiara al n. 66: «Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l’omicidio. La tradizione della Chiesa l’ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva. Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l’innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme».
La distinzione introdotta tra profilo oggettivo e soggettivo, indica che il suicidio, come l’eutanasia, è comunque un “atto umano” e quindi soggiace alle regole del giudizio morale che presuppone (secondo la classica dottrina del peccato) materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso.
Aver affermato che il suicidio è oggettivamente equiparabile all’omicidio, dimenticando le condizioni “soggettive” di chi lo chiede o lo permette, è dottrina certa ma, sganciata dalla realtà, rimane un principio di riferimento che ha bisogno di essere applicato.
L’esperienza dice che il fine vita richiesto si attiva per tre grandi problemi: dolore insopportabile, mancanza di futuro, solitudine. La morte diventa liberazione da pesi insopportabili. Una vita equilibrata, sufficientemente realizzata, circondata da affetti, non chiederà mai di essere interrotta. Per queste ragioni molto raramente il suicidio risponde alle condizioni di piena avvertenza e soprattutto di deliberato consenso. Non averlo ricordato lascia incompleto il giudizio sulla morte richiesta.
Il problema vero rimane come si garantisce una vita sufficientemente armoniosa per chi è pure in condizioni di vita precarie.
Nessuno vuole morire se le cure mediche sono adeguate (si tratti pure di cure palliative), se è circondato da presenze e affetti, se rimane il senso di futuro interessante.
Soltanto nell’equilibrio di vita, anche precario, si può sperare che la morte sia intesa come pace e non come incubo. I salmi prevedono questi opposti stati d’animo.
(n. 2 Esclusione dell’accanimento terapeutico) – Il problema è più delicato di quanto appaia. L’accanimento terapeutico non si pone per le condizioni di irreversibilità, ma antecedentemente alle ipotesi di cura ritenute incerte. Si pensi al mondo dell’oncologia. Da una parte, la scienza si impegna a cercare certezze di guarigione, ma ha bisogno di sperimentazione; per questo motivo la prassi informativa cita le statistiche di guarigione e di fallimento. Il malato naturalmente si colloca tra le ipotesi di guarigione.
Di fatto, nessuno garantisce la risposta risolutiva. Si tratta di accanimento o di ipotesi di cura? Gli elementi di risposta sono molti: il medico, l’età del malato, la famiglia, la fiducia nella struttura ospedaliera. Scelte difficili: chi non si fida e rifiuta interventi prolungati e incerti non è sicuramente colpevole di desiderare la morte.
(n. 3 Cure di base: il dovere di alimentazione e di idratazione) – In questo paragrafo l’ipotesi affrontata riguarda le situazioni di coma irreversibile. La persona malata non ha più possibilità di esprimersi. Sono i parenti più stretti che invocano la cessazione degli strumenti di sopravvivenza, con la celebre richiesta di staccare il malato dalle macchine. Nella pratica molti non chiedono quest’ultima opzione. Il problema si pone per le leggi dello Stato che prevedono, a determinate condizioni, questa ipotesi. La dottrina cristiana giustamente non permette simile prassi.
È vero, però, che non tutti i cittadini sono e si dichiarano cristiani. È dovere dell’autorità civile legiferare a tale proposito. Sono la cultura e la sensibilità comune che indirizzano le soluzioni.
Il problema vero, dunque, non è la legge più o meno permissiva, quanto piuttosto la sensibilità comune a spingere a soluzioni legislative. Nel mondo sono molte e diverse le disposizioni riguardanti i doveri di alimentazione e di idratazione.
(nn. 4-5 Le cure palliative – Gli hospice) – Occorre sottolineare che le cure palliative non sempre sono doverosamente offerte. La specificità di tali cure non costituisce ancora una qualificazione medica specifica.
Gli interventi ondeggiano tra l’oncologia e l’anestesia. È invece molto importante che le condizioni di fine vita che seguono alimentazione, valori essenziali di sopravvivenza, dolore siano doverosamente esaminati e seguiti. È una disciplina che sta crescendo: gli spazi, la presenza delle famiglie, il volontariato contribuiscono in maniera determinante ad accogliere la morte con dignità e con competenza.
Proprio all’allungamento della vita deve corrispondere una dignità di cura e di risposta, così che anche la morte sia un evento, per quanto possibile, non traumatico.
(n. 6 Accompagnamento e cura in età prenatale e pediatrica) – L’attenzione preventiva alla nascita è divenuta, almeno nei paesi occidentali, accurata e ritmata da esami e visite che si occupano della madre e del nascituro.
Il dramma si evidenzia nel momento di scegliere la nascita di una creatura che quasi sicuramente avrà delle limitazioni.
La risposta deriva dalla scienza, dai genitori, dalla famiglia, dal contesto sociale in cui l’evento si compie.
Per accogliere la disabilità di un figlio nascituro sono necessari un fortissimo senso di coraggio e un supporto che coinvolgano ambedue i genitori. Costoro debbono poter contare, oltre al proprio impegno, sul sostegno del nucleo allargato di parenti e amici.
Di fronte a gravissime patologie del neonato, la risposta è da riferire al non accanimento terapeutico: far sopravvivere una vita puramente fisica non ha senso. La vita, oltre la sopravvivenza, ha valore se riveste i connotati che coinvolgono la dimensione emozionale, razionale, volitiva della creatura, anche se in parte menomate.
Si assiste con ammirazione a genitori che accudiscono i propri figli, pur essendo portatori di disabilità gravi e gravissime: veri martiri che, con dedizione e affetto, si occupano di creature con importanti limitazioni fisiche e mentali, rinunciando alle proprie aspirazioni.
L’attenzione, anche pastorale, non sempre è attenta ai comportamenti che rendono i genitori esempi di vera santità.
Lo spirito della fraternità, in queste circostanze, raggiunge livelli altissimi: di un amore gratuito, risposta della donatività senza ricompense.
È la sostanza di un amore indiscusso, duraturo e pesante. La creazione, nella contraddizione di una natura che è stata crudele, riacquista il suo valore nell’amore profuso senza condizioni.
Risposte alla malattia
(n. 7 Terapie analgesiche) – Fortunatamente la scienza ha talmente progredito da rendere frequente l’uso di terapie analgesiche che interrompono e attenuano il dolore. Il dolore non ha alcun valore fisico o spirituale. È un segno negativo che va combattuto. Né il dubbio che possa accorciare la vita deve frenare lo sforzo di combatterlo. Spesso si tratta soltanto di qualche piccolo spazio che possa accelerare la morte. Ma che senso ha vivere ancora qualche settimana permettendo dolori insopportabili?
(n. 8 Lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza) – Sono condizioni difficili da gestire. È purtroppo vero che, eccetto rari casi, tale stato non dura molto a lungo nella vita. È giustamente doveroso accudire persone in tali condizioni. La natura, con le sue leggi, resiste a menomazioni degli organi di persone ridotte in tali condizioni non a lungo. Senza applicare l’accanimento terapeutico, la morte si avvicina e prevale sulla vita.
(n. 9 L’obiezione di coscienza) – La civiltà occidentale offre soluzioni diverse alla condizione di fine vita. Di fronte a scelte che non si condividono, la risposta chiara può essere sintetizzata così: «ognuno ha il diritto di scegliere che cosa può essere fatto per sé nel fine vita. Non è possibile coinvolgere terzi che non condividono alcune scelte personali». La cosiddetta “obiezione di coscienza” non è altro che la libertà personale di non essere coinvolto in pratiche che non si condividono.
È un atteggiamento di rispetto per gli altri e per sé. Altro problema per la legge che deve garantire ciò che è dichiarato possibile.
L’azione pastorale
(n. 10 L’accompagnamento pastorale e il sostegno dei sacramenti) – La forma migliore dell’accompagnamento pastorale è la presenza fisica, amorevole e attiva alla persona che soffre. Chi sta male apprezza quanti e quanto viene offerto per migliori condizioni nella sofferenza.
All’interno di questa presenza si scopre Dio misericordioso. Le stesse pratiche religiose sono richieste da persone che hanno maturato e accolto l’idea di malattia e di morte. Occorre non negare questa consolazione. La proposta esterna e meccanica di aiuto da parte di Dio non solo non ha efficacia, ma rischia di diventare controproducente. La malattia e la morte sono una prova: interiormente può essere elaborata – come è stato detto – come pace o incubo.
Se è pace, la preghiera, il crocifisso, i dolori sono vissuti con fede e con devozione. Non manchi mai la presenza richiesta del sacro. Non sia però mai imposto.
(n. 11 Discernimento pastorale verso chi chiede l’eutanasia) – La lettera, a questo proposito richiama i principi teologici della confessione. I celebri passaggi: esame di coscienza, accusa, pentimento, proposito di non farlo più, penitenza. Le condizioni dell’assoluzione debbono essere confrontate con il soggetto che la chiede. Può esserci deliberato consenso da chi non resiste al dolore, è in gravissima depressione, ha innesti psichiatrici? Se quella stessa persona si fosse trovata in condizioni normali, non di felicità, ma di una vita fatta di gioie e di dolori, avrebbe richiesto la morte? Sicuramente no.
Forse sta solo gridando «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?»: per questo Dio concederà misericordia, perché conosce il cuore dell’uomo.
L’insistenza suggerita dalla lettera: «Anche nel caso in cui una persona non si trovi nelle condizioni oggettive per ricevere i sacramenti, è necessaria una vicinanza che inviti sempre alla conversione. […] Ci sarà allora la possibilità di un accompagnamento per far rinascere la speranza e modificare la scelta erronea, così che al malato sia aperto l’accesso ai sacramenti». È un’insistenza dogmatica, tant’è che ritorna il concetto di “condizioni oggettive”. Il riferimento corretto è, quindi, alla «materia grave» che la lettera ha voluto, ancora una volta, sottolineare. Manca il confronto con l’eventuale soggetto che chiede il perdono dei peccati.
(n. 12 La riforma del sistema educativo) – È utile l’attenzione al coinvolgimento della comunità per le malattie, per la formazione degli operatori, per le cure palliative. Un passo della lettera è degno di essere ricordato: «Il voler bene del Samaritano, che si fa prossimo dell’uomo ferito non a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (1Gv 3,18) prende la forma di cura, sull’esempio di Cristo il quale passò beneficando e sanando tutti» (cf. At 10,38).
Considerazioni
Alcune considerazioni sulla lettera aiutano ad affrontare le vicende che riguardano le fasi critiche e terminali della vita.
Il testo ha ricordato i principi che regolano, secondo la dottrina cattolica, le questioni del fine vita. L’ha fatto in una prospettiva “dogmatica”: nulla da eccepire. D’altronde, i riferimenti bibliografi in 99 note richiamano quanto i documenti pontifici hanno dichiarato a partire addirittura dal Concilio di Trento.
Un approccio utile ma non esaustivo. La persona malata, la famiglia, l’operatore sanitario, le leggi dello Stato non hanno di fronte “il suicidio”, “l’eutanasia”, “le cure palliative”, “le terapie analgesiche”: hanno di fronte storie di persone che stanno male.
Il metodo teologico adottato, se fa da riferimento alla “dottrina”, non contestualizza la materia. Una materia che fa diretto riferimento a condizioni soggettive di persone in enorme difficoltà.
La pietà popolare non si è mai scandalizzata per chi si è suicidato. Nel comune sentire dei fedeli è sempre prevalsa la “compassione” per chi aveva compiuto un gesto estremo, provando dolore per una vita finita male.
Questa solidarietà si è espressa in tempi nei quali non esisteva neppure l’idea di un suicidio assistito. Non è stata mai negata una Messa di suffragio per chi era scomparso in modo drammatico: quella vicenda chiamava a lutto l’intera comunità. Una vicinanza che si immedesimava nel dolore di chi aveva compiuto il gesto estremo.
Oggi quei fenomeni si sono come “ideologizzati”: risultato del progresso scientifico e del personalismo che ciascuno ha della propria vita. Sta diventando un “diritto”. Tale diritto, mal interpretato, può essere combattuto soltanto con risposte positive ed efficaci in situazioni compromesse.
Il valore della vita si rafforza molto prima delle intenzioni di morte. La cultura moderna, se ha giustamente valorizzato il personalismo, ha avuto il torto di averlo assolutizzato rendendolo fragile. Il femminicidio per l’abbandono subìto dal coniuge o dal convivente, accompagnato addirittura dalla morte di figli o di se stessi, rivela personalità fragilissime, isolate, con disturbi che richiamano problemi psichiatrici. Anche in quelle circostanze il dolore, pure sproporzionato, diventa insopportabile.
Da qui l’attenzione e la formazione di personalità mature e responsabili. La riflessione si fa lunga e complessa: la facilità delle relazioni coniugali ed extraconiugali, la mancanza di progetti di vita, il narcisismo imperante possono determinare morti innocenti e drammi.
In questo contesto la via suggerita dal Vangelo è estremamente utile e necessaria: in fondo la fraternità che emana dal cristianesimo ha come primo oggetto la condivisione armoniosa in seno alla famiglia e verso tutti. L’unico modo per il rispetto di sé e degli altri.
Vinicio Albanesi