Ri-leggere la vita consacrata
2020/10, p. 40
È possibile ripercorrere in coerenza alla tradizione della sapienza spirituale
ignaziana il vissuto dei consacrati. Un recente studio del Centro francese di
ricerca sulla vita religiosa suggerisce di farlo sui temi: formazione e formatore,
accompagnamento spirituale, crisi, violenza, autorità e interculturalità. Ne
diamo una presentazione.
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TRA FORMAZIONE E VISSUTO
Ri-leggere la vita consacrata
È possibile ripercorrere in coerenza alla tradizione della sapienza spirituale ignaziana il vissuto dei consacrati. Un recente studio del Centro francese di ricerca sulla vita religiosa suggerisce di farlo sui temi: formazione e formatore, accompagnamento spirituale, crisi, violenza, autorità e interculturalità. Ne diamo una presentazione.
Relire la vie religieuse (Rileggere la vita consacrata) è il titolo di uno studio del Centro di ricerche sulla vita religiosa (CRVR) promosso dai padri domenicani a Evry (Parigi). Il testo del maggio 2020 si distende per 120 pagine ed è firmato dal responsabile del centro fr. Jean Claude Lavigne e da un professore d’università e clinico, Patrik Vincelet. L’invito a rileggere non è una semplice memoria dei punti alti e bassi della propria vita consacrata, quanto una precisa indicazione della tradizione ignaziana che invita a una scuola di “oltrepassamento” in direzione di Cristo. La memoria dei trascorsi serve per il presente. «Le riletture che abbiamo presentato, talora con ridondanze e sviluppi dello stesso tema, non sono semplicemente un appello a prendere in conto il tempo, ma un invito all’intelligenza e alla conoscenza. È una ricchezza della vita religiosa: riflettere su quanto si vive per cesellarlo di nuovo e farne un vero dono a Cristo, alla Chiesa e al mondo» (p. 119). Non si tratta di sacralizzare l’abitudine e neppure di aprire una interrogazione compulsiva. Piuttosto è una sollecitazione a verificare la nostra risposta all’appello di Gesù attraverso la Parola, i sacramenti e l’accoglienza del fratello. L’attenzione del testo è in particolare volta alla formazione iniziale con un doppio registro, quello psicologico e quello spirituale. Ma le riflessioni possono essere utili anche quando il tempo sembra erodere ideali e idealismi sotto il peso della realtà. Per le alte pretese della vita consacrata, per la sua concentrazione sull’interiorità, vi è un certo rischio di tensioni distruttive dove riemergono le sofferenze legate alle scelte fatte con la rinuncia ai figli, alla carriera, all’autonomia finanziaria ecc. In tutte le riletture proposte vi è una particolare attenzione alla preghiera, il luogo in cui Dio può fare meraviglie nel cuore di ciascuno. Una seconda attenzione particolare è sul voto di obbedienza, di comprensione sempre più difficile oggi. «Non si tratta soltanto di fare quello che esige – credere attraverso l’obbedienza – ma di ascoltare (ab-audire) quello che ci è chiesto e di rispondervi con tutto ilproprio essere, intelligenza e cuore. L’obbedienza non è l’accecamento che conduce alle derive che purtroppo noi conosciamo dall’attualità, ma una decisione illuminata, “informata” direbbe san Tommaso d’Aquino» (119).
I casi estremi
I temi affrontati nei vari capitoli sono quelli della formazione e del formatore, l’accompagnamento spirituale, le crisi, la violenza, l’autorità, e l’interculturalità. Ma si può partire dall’ultimo, dedicato alle situazioni limite, cioè a quelle condizioni drammatiche e angosciose che non sono le normali difficoltà che si incontrano, ma nel loro eccesso - purtroppo verificato nelle denuncie recenti sugli abusi registrati nella vita consacrata - servono come segnali di assoluto allarme. Fra quelli ricordati vi è l’anoressia, la possessione, il suicidio e la doppia vita. L’anoressia è una grave malattia psichiatrica e un’affezione ossessiva grave che può portare alla morte.Nel contesto religioso essa tende a togliere ogni peso al corpo per piegarlo all’assoluto dello spirito. La pulsione di morte che l’attraversa si riveste di interiorità, ma costituisce la negazione della libertà d’amare. Sono maggiormente a rischio le ragazze dai 15 ai 25 anni, ma la malattia può colpire anche i maschi. La loro presenza nelle comunità è guardata con sospetto fino ad evocare una presenza del maligno. È necessario un intervento psichiatrico e un percorso terapeutico che si accompagna a una dimensione di fraternità e sororità in grado di supportare l’intervento del formatore e della formatrice per facilitare l’emergere della sofferenza racchiusa in un comportamento distruttivo.
Per quanto possa apparire strano vi sono fenomeni di possessione registrati in singoli e comunità, forme di presenze (fantasmi, malefici) persecutorie e devastanti. Ve ne sono tracce nella storia, nella cultura europea e anche nelle culture asiatiche e africane. La mescolanza delle culture di provenienza nelle comunità internazionali può rendere non comprensibile il fenomeno e la sofferenza dei singoli. E provocare comportamenti beffardi, aggressivi e controproducenti. L’indicazione ai formatori/formatrici è quella di far scrivere e verbalizzare queste percezioni, ricorrendo a figure terze per una valutazione. La minaccia di suicidio è difficile da gestire. La si affronta nella calma e senza troppo inquietarsi. Ma è necessario parlare perché nasconde domande drammatiche sulle relazioni e su se stessi. L’atteggiamento più utile è una presenza serena e vigile, un ascolto non giudicante né banalizzante. E un ricorso a competenze specifiche. La parola liberata può favorire un cammino di conversione e aiutare un lavoro spirituale di perdono e riconciliazione. Molto grave è lo sconvolgimento prodotto dalla conoscenza di una doppia vita nel confratello o nella consorella. Scatena la percezione del tradimento e comportamenti distruttivi. In particolare quando il fenomeno interessa più componenti della comunità. Possono essere necessarie decisioni drastiche (dimissioni, misure canoniche ed economiche ecc.). In ogni caso vi sono percorsi di recupero da avviare sia in senso psicologico che sul piano spirituale.
La spiritualità della bicicletta
Planando su temi di più immediata esperienza si incrocia il compito della formazione e la funzione del formatore-formatrice. Il suo profilo viene sviluppato in tre passaggi: comprendere, l’ascolto costante, il contesto comunitario. Comprendere è anzitutto capire la situazione del fratello e della sorella. Non è la pretesa di un sapere senza residui. La verità non è esattezza scientifica, ma è piuttosto autenticità e trasparenza. Si cammina verso la verità delle persone attraverso il dialogo in un continuo equilibrio instabile che faceva definire il cammino formativo da parte di Madeleine Delbrel come «la spiritualità della bicicletta», il cui equilibrio è dato dal movimento. Il vero pericolo è la menzogna e, in seconda battuta, la distanza fra l’ideale e la realtà. La sfida formativa è di trasformare l’appello e l’attesa ideale in un percorso concreto di vita, attraverso la verifica e la purificazione. Mettendo in conto gli errori e alimentando l’umorismo. L’ascolto costante indica il difficile equilibro a cui è chiamato il formatore/formatrice fra conoscenza dell’altro e impedimento alla deriva del possesso.Il tratto fondamentale di ogni formazione è il dare fiducia, con i conseguenti rischi. Compito tutt’altro che facile in un contesto culturale che incita nei giovani un dubbio radicale sulla verità delle relazioni. Fiducia vuol dire accoglienza e benevolenza. Atteggiamenti che per il formatore non sono solo un impegno, ma propriamente una grazia. Alla plasmabilità del formando corrisponde la docibilità del formatore. Non sempre è agevole mantenere la distinzione formale tra foro interno e foro esterno, ma rimane la necessità di evitare ogni intrusione e manipolazione. La custodia di uno spazio intimo è garanzia di comprensione della richiesta di obbedienza nella forma canonicamente stabilita. Particolare importanza riveste l’affettività della relazione formativa. Non può essere cancellata, ma essa è guidata dall’intelligenza spirituale. Il formatore non è proprietario di nessuno e la distanza che lascia è necessaria per la vita del formando. Continuità di ascolto si coniuga con il tema della presenza fisica accanto ai formandi che è condizione per non confondere l’urgenza con l’immediatezza. L’opportunità-necessità di una supervisione da parte di terzi è legata anche al ruolo della comunità. Essa testimonia la fraternità che la “regola” sedimenta nel passaggio delle generazioni. I testi di riferimento costituiscono l’identità narrativa della congregazione o dell’ordine. Vi è il pericolo che in questo compito i componenti della comunità trasferiscano la loro memoria personale legata al passato come norma insuperabile per i più giovani, mettendo in difficoltà il formatore. Mentre il circuito positivo che non toglie la responsabilità specifica del formatore sviluppa un protagonismo della comunità. Essa si fa modificare e ri-formare dalla presenza giovanile. Le differenze sociali, culturali e di età manifestano la verità della comunità e la capacità di riconoscerle e superarle in nome del Vangelo costruisce un vero percorso formativo. «La vita consacrata è bella – ha detto papa Francesco ai formatori l’11 aprile 2015 – è un tesoro fra i più preziosi della Chiesa, radicato nella vocazione battesimale. Essere formatori è un bene, perché è un privilegio partecipare all’opera del Padre che forma il cuore del Figlio in coloro che lo Spirito ha chiamato. Talora il servizio può essere avvertito come un peso, come il sottrarsi a qualcosa di più importante. Ma è uno sbaglio, una tentazione. La missione è importante, ma non lo è di meno il formare alla missione, formare alla passione dell’annuncio».
Accompagnamento
Molto legato al tema della formazione è l’accompagnamento. È quel processo vitale che permette l’integrazione nella vita religiosa e in una particolare comunità con il suo carisma e il suo linguaggio. Esso si può declinare in molte maniere. Può essere un aiuto a fare un cammino o piuttosto un favorire l’unificazione della persona. Può essere l’aiuto a nascere e a crescere oppure a superare alcuni passaggi dolorosi e difficili. Ma, nella vita consacrata esso è anzitutto opera dello Spirito. Le competenze umanistiche e psicologiche sono in funzione della costruzione dell’alleanza spirituale propria del consacrato. Accompagnare è quindi il riconoscere il lavoro che Dio compie in ciascuno, avvertendone tutta la tenerezza e il travaglio di liberazione e purificazione. Al centro dell’attenzione è la persona da accompagnare. Se all’accompagnatore è chiesto una capacità di decentramento da se stesso, all’accompagnato si chiede di mettere in movimento in modo integrale tutte le sue dimensioni, da quelle spirituali a quelle fisiche e intellettuali. È l’insieme della personalità che va provocata alla ricerca. Con una dissimmetria fra le due figure che non può essere annullata. Questo ministero di affiancamento richiama la virtù cristiana dell’ospitalità e la straordinaria pazienza di Dio nel procedere della consapevolezza del credente. Esso concerne la vita spirituale, il riconoscimento del lavoro di Dio, le mozioni dello Spirito, lo stile richiesto al singolo ricercante. Anche se non immediatamente intuibile esso è retto da una sorta di contratto fra accompagnatore e accompagnato che scandisce le attese, chiarisce i contrasti, definisce i ritmi e i tempi, delimita i confini tra confidenza e libertà. È un contratto di confidenza che richiede discrezione sulle parole che vengono scambiate, a meno di un esplicito consenso. Si richiede all’accompagnatore di interrogarsi sul fondamento del proprio servizio. Quale piacere può derivare dall’ascolto della vita spirituale altrui? È conforme al cammino della consacrazione o ha a che vedere con l’istinto negativo del potere? Per questo è importante chi (autorità ecclesiale) autorizza a simile servizio, così come la disponibilità a una supervisione del proprio lavoro. Il confronto con un supervisore, con un gruppo di “pari”, con professionisti è caldamente consigliato. Il processo di revisione può illuminare la specifica modalità di ciascuno nell’opera di accompagnamento. Vi può essere chi accentua la dimensione della comprensione in collisione possibile con le domande di indicazioni vincolanti da parte dell’accompagnato. Un atteggiamento più energico può non essere efficace davanti ad opposizioni ragionate. Un approccio critico può indebolire la confidenza. Una nota più simpatetica può tradire una scarsa implicazione personale, così come l’aggressività può risultare senza frutto. Un buon accompagnamento avvia un processo di libertà che trasforma il vissuto secondo uno stile spirituale, facendo crescere la comunione e l’amicizia con Dio. Papa Francesco ha detto ai responsabili del dicastero dei religiosi il 29 gennaio 2017: «È necessario che la vita consacrata investa nella formazione di accompagnatori qualificati per tale servizio. Parlo di vita consacrata, perché il carisma dell’accompagnamento spirituale, della direzione spirituale, è un carisma laico» che riguarda sia i religiosi come le religiose. «Dobbiamo evitare ogni forma di accompagnamento che crei dipendenza. È importante: non deve mai creare dipendenza».
Le crisi
Il tema delle crisi è riletto con una attenzione specifica al momento formativo, anche se le dinamiche possono essere ritrovate in momenti successivi del vissuto consacrato. Il primo impatto destabilizzante è quello iniziale della rinuncia ai beni e alle abitudini del giovane comune. C’è una vera rottura che innesta da subito la distanza fra l’ideale sognato e la realtà incontrata. È uno scarto positivo che l’educatore è chiamato a svolgere senza accelerazioni improprie e senza accondiscendenze contraddittorie. Un secondo passaggio è l’entrata in noviziato che coincide spesso con l’indossare l’abito della famiglia religiosa. Arrivano i rituali, le posture, le relazioni faccia a faccia con gli altri religiosi e religiose. È il tempo dell’accomodamento che costruisce una prima forma di sicurezza affettiva, di appartenenza a una “famiglia”, di attraversamento di tempi di silenzio, di preghiera, di solitudine. Esperienze assai rare nella normale vita giovanile. Un passaggio che non sempre le famiglie di origine condividono subito. Spesso ne sono distanti o l’avversano. Una fase in cui si sperimenta con forza la scelta di Gesù come amico e maestro, ma in cui si fanno i conti con lo choc di incappare in altre culture, in restrizioni di libertà, in comparazioni non gradite, nelle difficoltà della fraternità realmente vissuta. Il formatore/formatrice è chiamato ad evitare comparazioni improprie, ad evitare una seduzione non controllata e l’illusione di conoscere i giovani religiosi, a non approfittare della disponibilità all’obbedienza. Bisogna invece aiutarli alla conferma della scelta, a rimuovere le sicurezze improprie, a raccontare la vocazione, a superare la frattura con la cultura giovanile comune in Occidente. Arriva poi la stagione della maturazione o dell’assimilazione dello stile religioso. Qui i pericoli possono derivare da silenzi improvvisi, dal confronto intellettuale fra ambiente d’origine e paese ospitante, dall’incapacità di capire la problematica specifica di ciascuno, dalla critica sistematica e dal sottile rifiuto degli insegnamenti e dei modi di vita. Si ristagna, o come dice la tradizione spirituale, si cede all’accidia. Il formatore deve vegliare perché i cammini non si divarichino a tal punto da rendersi incompatibili con la vita comune. Arriva, alla fine, la fase dell’adattamento o dell’entrata formale nella “famiglia religiosa” quando il giovane o la giovane affrontano il dopo-professione, senza quella stabilità di supporti che la tappa precedente garantiva. In questo momento, come immediatamente dopo l’ordinazione presbiterale, i giovani hanno l’impressione di essere lasciati soli senza la spinta a trovare riferimenti negli adulti. Come ricorda papa Francesco nel discorso al dicastero già citato: «È difficile restare fedeli camminando da soli, o assieme a fratelli e sorelle incapaci di ascolto, di pazienza, o con coloro che non hanno una buona esperienza di vita consacrata».
Violenza invisibile
La violenza fa parte della vita ma spesso si rende invisibile nell’esperienza dei consacrati. Invisibile, ma reale e quindi da affrontare. Va riconosciuta nelle sue manifestazioni, nella sua durata, profondità, forza, radici e caratteristiche. Può essere veicolata dalla collera improvvisa, dal silenzio pertinace, come da una aggressività costante. Essa può essere canalizzata ed evidenziata dagli interdetti della tradizione della propria cultura, dalla trasgressione che persegue il possesso di altri, dalla pretesa di un amore fusionale, dalle forme mitologiche circa i fondatori o le figure di riferimento, resi feticci intoccabili, dalle pretese esibizionistiche che nascondono domande di attenzione. Con molto realismo la fede cristiana conosce la violenza come una polarità della vita e sa di doverla gestire. Si possono indicare alcune manifestazioni specifiche. Quando, ad esempio, le comparazioni portano il più debole a rinchiudersi o al formarsi di categorie gerarchizzate. Oppure quando si manifesta la volontà di dominio e il desiderio di avere degli incarichi di prestigio. Oppure quando si condannano all’insignificanza fratelli e sorelle considerati di scarso valore. O ancora con la costruzione di un “capro espiatorio” su cui scaricare ogni malcontento (e può essere anche il superiore). Vi possono essere esperienze molto dure, in parte già accennate. Fra queste il suicidio di confratelli o sorelle, l’allontanamento improvviso e senza motivazioni (è successo nelle forme settarie), la “scomparsa” di un confratello, la violenza indotta da malattie ingestibili, per non parlare della violenza sessuale. È utile attrezzarsi per sviluppare una saggezza di gestione dei conflitti, una forma condivisa di governance per un ascolto più diffuso. Vanno evidenziati e usati gli strumenti che la tradizione mette a disposizione. L’insieme dei testi costituzionali e fondativi facilitano la vita comune e costituiscono un argine alla violenza. Così l’attitudine spirituale al dono di sé e l’esercizio dei voti religiosi. Riconoscere il ruolo dei superiori consente di alimentare l’interdipendenza comunitaria e limitare gli scontri personali. Di fronte alla violenza esiste anche la dolcezza. I religiosi e le religiose riconoscono più facilmente il bene che ricevono dalla loro famiglia religiosa che non la dolcezza che pur esperimentano. Essa alimenta la pace ed è radice di confidenza reciproca.
La difficile obbedienza
«La vita religiosa si appoggia sui voti – che sono strumenti e non obiettivi - per aiutare ciascuno dei fratelli e delle sorelle ad avanzare verso Cristo e vivere l’incontro con lui. Fra i voti, quello dell’obbedienza è uno dei più difficili da far capire sia ai giovani che entrano come agli anziani (che si sono ripresi abitudini “di libertà”) e anche per quelli e quelle che esercitano l’autorità (ma di cui hanno paura e da cui traggono un malsano piacere)» (p. 67). Comincia così il capitolo dedicato alla rilettura dell’autorità nella vita consacrata. Sono un dato di evidenza le difficoltà relative all’esercizio dell’autorità nella contemporaneità: il prevalere di una cultura di autonomia rispetto all’eteronomia, una comunicazione che non tollera discrezione e segreti, una democrazia rivendicata (e poco praticata), una cultura del contratto e del diritto personale, un sistema complesso di regole che “giuridicizza” ogni vissuto, la fuga dalle responsabilità del governo, la paura di portare decisioni, il mancato rispetto dei corpi sociali intermedi ecc. Sappiamo di dover distinguere fra la leadership che trascina, il “superiore” che è chiamato a vedere oltre, il potere che è capacità di fare e l’autorità che è servizio alla crescita di tutti. Nella vita religiosa l’autorità è data dalle Costituzioni, dalla regola di vita, dagli atti dei capitoli ed è disciplinata da regolamenti interni e dal Codice di diritto canonico. Testi di riferimento che sono ispirati al rispetto della persona, oltre che all’identità collettiva. Certo l’obbedienza richiede anche una parte di volontaria frustrazione, ma le limitazioni sono ispirate al bene di tutti. I testi sono un argine alle pretese totalitarie. La formulazione del voto nel canone 601 (l’obbedienza «obbliga alla sottomissione della volontà ai superiori legittimi, quali rappresentanti di Dio, quando comandano secondo le proprie costituzioni») suona abrasiva nella cultura contemporanea e implica una certa violenza se non si percepisce la sottomissione ispirata dall’amore e dal rispetto della libertà. Non si può invocare l’obbedienza religiosa fuori dal quadro evangelico e giuridico che la determina. La legge evangelica è per la vita e la libertà. Gesù fu un uomo libero e liberante. Egli propone anche oggi una scelta libera, non un obbligo o una costrizione. La vita religiosa, che è una manifestazione della sequela, non può indicare qualcosa di diverso. La regola e i suoi confini giuridici custodiscono la fiducia dell’appartenenza che va rinnovata oltre gli scandali e le debolezze. È necessario distinguere gli atti di potere che sono necessari per ogni corpo sociale, vita consacrata compresa, dalle pretese di un potere senza limiti. La legge va garantita e fatta rispettare per il buon funzionamento del tutto e di ciascuno. In particolare nella vita consacrata l’autorità deve chiamare tutti a una rinnovata creatività, ad andare più lontano dalla semplice ripetizione. Va compreso il travaglio dei superiori davanti alle scelte di mobilità dei fratelli e delle sorelle e al dovere dire di no in alcuni casi. Sapendo che la decisione resta un atto solitario e spesso doloroso che il superiore può condividere, ma non delegare. La comunicazione, il dialogo, le visite canoniche o fraterne, le consultazioni e i luoghi di confronto sono tutti elementi preziosi che costruiscono un senso positivo all’esercizio dell’autorità. La vita religiosa anche attuale è talvolta tentata dal privilegiare l’eteronomia più spinta rispetto all’autonomia, ma in essa convergono persone impaurite e incapaci di maturità e di libertà. Per questo il dicastero dei religiosi sottolinea la dimensione spirituale del potere nella vita consacrata, il suo dovere di garanzia di una vita di preghiera, la piena difesa della dignità delle persone, l’incoraggiamento per i più deboli, la responsabilità per il carisma e il profondo legame con il sentire ecclesiale. Ciò che significa esercizio dell’autorità nella vita consacrata di oggi è possibile capirlo dalle parole accorate pronunciate da sr. Veronique Margron, presidente dei religiosi e religiose di Francia, in un colloquio del 9 dicembre 2019 davanti alle vittime delle violenze sessuali subite: «Quello che tristemente oggi ci riunisce è la menzogna e l’impostura, l’usurpazione che abusa della libertà della fede, dell’incontro vivente con Cristo, della generosità e del desiderio del dono totale di sé per trasformare tutto ciò in sottomissione servile e silenziosa … Se tali abusi hanno avuto e hanno luogo non è solo perché uomini e donne hanno pervertito la verità del vangelo e della giustizia umana. Non è solo perché l’una o l’altra comunità ha lasciato fare e talvolta ha persino organizzato tutto ciò. È anche perché noi tutti, in una maniera o in un'altra, possiamo avere parte ad un accecamento, ad una pigrizia o paura di esaminare ciò che tradisce la condizione divina di ciascuno, nella sua stessa umanità».
La globalizzazione e l’interculturalità
La compresenza nelle comunità religiose di culture, etnie e nazionalità diverse è arrivata prima che la globalizzazione imponesse a tutti l’attenzione alla connessione mondiale di ogni popolo e nazione. Di fatto la vita consacrata anticipa in vitro una necessità di condivisione e cammino comune che i processi migratori impongono alle società occidentali e no. I religiosi e le religiose possono far forza sulla comune sequela cristiana, sulla condivisione di un carisma e sulla comune appartenenza ecclesiale. Ma il vivere assieme di uomini e donne di razze, nazioni, culture e popoli diversi non si produce senza costi e senza conflitti. Si possono indicare alcuni spazi per tali conflitti. Anzitutto quello della comunità o fraternità che conosce rivalità, gelosie e incomprensioni, alimentate dalle differenze culturali. Poi vi è uno spazio personale che in nome della “propria cultura” nasconde spesso egoismi e difficoltà non espresse. C’è lo spazio del privilegio che con varie motivazioni distingue i religiosi in prima, seconda, terza categoria. C’è uno spazio quotidiano che è fatto di pasti, bevande, odori, consuetudini le cui differenze sono difficilmente rimuovibili. C’è uno spazio generazionale che enfatizza le distanze che si formano fra le generazioni. C’è lo spazio della debolezza, di quanti, per varie ragioni (di cultura, di salute, di equilibro) si sentono inutili e marginali. C’è lo spazio del governo, dei gruppi nazionali o meno più direttamente coinvolti nell’esercizio dell’autorità. E c’è lo spazio culturale (riti, riferimenti, proverbi, gestualità) che possono alimentare conflitti e differenze dolorose. Gestire tutte queste tensioni non è affatto facile, sapendo che nessuna cultura è più vera dell’altra, che la questione del potere non è marginale e che sentimenti come la gelosia non possono essere rimossi con troppa facilità e supponenza. La comune confidenza in Dio, l’appartenenza ad uno stesso carisma, il riferimento alla medesima regola di vita rende possibile la condivisione nella vita consacrata. Consapevoli che la “traduzione” di un carisma è opera di più generazioni e di uomini e donne capaci di dono totale di sé.
Psicologia e spiritualità
Il testo dedica il primo capitolo al rapporto fra psicologia e spiritualità. Mi limito a due brevi citazioni in merito. «Si può dire che diversi decenni fa l’attenzione alla psicologia era nulla, considerata una scienza troppo laica per essere applicata alla vita religiosa. Grazie a studi più specifici, questo approccio ha guadagnato credibilità ed è oggi riconosciuto come utile, anche se ci sono persone poco informate e sospettose che mantengono un atteggiamento reticente» (p. 6). «L’analisi, nel senso psicanalitico, ricerca nel passato, attraverso i sogni e le associazioni di parole, le efflorescenze dell’inconscio; essa non è l’obiettivo della formazione religiosa. L’obiettivo è l’impegno nella vita spirituale. È la spiritualità a guidare le danze e a diventare riferimento; è in rapporto ad essa che si definiscono le esigenze della formazione. E questo vale non solo nella formazione iniziale, ma in tutta la vita consacrata» (p. 8).
Lorenzo Prezzi