La famiglia umana nella pandemia
2020/10, p. 30
Di fronte al dramma del Covid – 19, la pontificia Accademia per la vita ha diffuso
due Note auspicando una nuova alleanza tra scienza e solidarietà umana e per
contribuire ad ampliare un responsabile discernimento collettivo.
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DUE NOTE DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA
La famiglia umana nella pandemia
Di fronte al dramma del Covid – 19, la pontificia Accademia per la vita ha diffuso due Note auspicando una nuova alleanza tra scienza e solidarietà umana e per contribuire ad ampliare un responsabile discernimento collettivo.
L’irruzione di una nuova malattia genera sempre forte incertezza e paura, mostrando nel contempo una sua specifica capacità di rivelazione. Il Covid-19 si sta presentando come un silente rivelatore di tante realtà che spesso rimangono nascoste nei nostri sistemi economici, politici, sociali e culturali. La pontificia Accademia per la vita, con due recenti documenti, ha voluto contribuire ad ampliare la prospettiva di questo svelamento per sostenere un autentico e responsabile discernimento collettivo. Come Chiesa infatti sembra necessario continuare a interrogarsi e a interrogare tutti su ciò che questo flagello porta alla luce nel suo propagarsi.
La prima Nota (“Pandemia e fraternità universale”) registra sia il fatto dell’impreparazione socio-tecnologica di fronte al diffondersi del contagio sia il debole riconoscimento della nostra vulnerabilità (fisica, culturale e politica). Per questi motivi il fenomeno sta creando una destabilizzazione esistenziale che sembra fuori dalla portata della scienza e della tecnica degli apparati terapeutici. Pertanto, sottolinea il documento, una maggiore profondità di visione e una migliore responsabilità sui valori dell’umanesimo hanno la stessa urgenza della ricerca dei farmaci e dei vaccini. L’esercizio di questa profondità e di questa responsabilità vuole aiutare a creare un contesto di alleanza e di fraternità, per sostenere l’impegno di uomini e donne di scienza e di governo in questa congiuntura eccezionale.
In questa chiave, l’Accademia per la vita, che promuove l’alleanza fra le scienze e l’etica, cerca di focalizzare alcuni elementi peculiari per alimentare la socialità e la cura della persona. La sfida chiave è quella della crescita della fraternità nella humana communitas, perché lo spirito dell’umanesimo possa informare la cultura istituzionale del nostro tempo. I punti decisivi messi a fuoco sono, nell’ordine, la solidarietà nella vulnerabilità e nel limite, il mutamento dell’interdipendenza nella solidarietà, il legame sociale messo alla prova.
Innanzitutto, «appare traumaticamente evidente che non siamo padroni del nostro destino. E anche la scienza mostra i propri limiti…Tocchiamo con mano quanto strettamente siamo tutti connessi: anzi, nella nostra esposizione alla vulnerabilità siamo più interdipendenti che non nei nostri apparati di efficienza». Questa minacciosa nuova epidemia mostra di saper adattare la sua pervasività al nostro odierno stile di vita e di aggirarne le protezioni. Dobbiamo pertanto prendere atto degli effetti del nostro modello di sviluppo, con lo sfruttamento di aree forestali inviolate dove risiedono microrganismi ignoti al sistema immunitario umano, con una rete di connessioni e di trasporti veloce e globalizzata. Occorre quindi avere consapevolezza del fatto che questo tipo di minaccia sta accumulando una sua potenzialità sistemica di lungo periodo.
La relazione di cura: un paradigma della convivenza
In secondo luogo, siamo chiamati a diventare consapevoli della reciprocità che sta alla base della nostra vita. Vanno messi in discussione due modi di pensare, diventati senso comune e punti di riferimento quando si parla di libertà e diritti: il primo è “La mia libertà finisce dove incomincia quella dell’altro”; il secondo è “La mia vita dipende solo ed esclusivamente da me”. Sono formule che generano ambiguità: «Noi siamo parte dell’umanità e l’umanità è parte di noi: dobbiamo accettare queste dipendenze e apprezzare la responsabilità che ce ne rende partecipi e protagonisti». La convivenza dei liberi e uguali è un tema squisitamente etico, non tecnico. La relazione di cura diventa quindi il paradigma fondamentale dell’umana convivenza. Però il mutamento dell’interdipendenza di fatto in solidarietà voluta non è una trasformazione automatica, anche se già abbiamo vari segni di questo passaggio verso comportamenti di fraternità. Lo vediamo nella dedizione degli operatori sanitari, nella messa in comune delle competenze tra i ricercatori e gli scienziati, nelle persone che ogni giorno scelgono di custodire questa fraternità (madri e padri di famiglia; anziani e giovani; lavoratori e volontari; responsabili di comunità religiose che continuano a servire le persone loro affidate).
La Nota afferma insomma che un’emergenza come quella generata dal Covid-19 si sconfigge anzitutto con gli anticorpi della solidarietà. «I mezzi tecnici e clinici del contenimento devono essere integrati all’interno di una vasta e profonda ricerca per il bene comune, che dovrà contrastare la tendenza alla selezione dei vantaggi per i privilegiati e alla separazione dei vulnerabili in base alla cittadinanza, al reddito, alla politica, all’età». Questo vale anche per tutte le scelte di “politica della cura”, comprese quelle più collegate alla pratica clinica. Le condizioni di emergenza possono arrivare a costringere i medici a decisioni di razionamento delle risorse limitate: a questo punto andrà sempre tenuto presente che «la decisione non può basarsi su una differenza di valore della vita umana e della dignità di ogni persona, che sono sempre uguali e inestimabili. La decisione riguarda piuttosto l’impiego dei trattamenti nel modo migliore possibile sulla base delle necessità del paziente, cioè la gravità della sua malattia e il suo bisogno di cure, e la valutazione dei benefici clinici che il trattamento può ottenere, in termini di prognosi».
La fede evangelica alla prova
La Nota si chiude con importanti considerazioni che scaturiscono dall’obbligo di tutela dei deboli. In particolare, la maggiore penalizzazione a cui vanno incontro i più fragili deve spingere la Chiesa a usare molta attenzione quando parla dell’agire di Dio, soprattutto quando si hanno di fronte non credenti. L’ascolto della Scrittura e il compimento della promessa che Gesù opera, indica che essere dalla parte della vita prende corpo in gesti di umanità per l’altro. «Ogni forma di sollecitudine, ogni espressione di benevolenza è una vittoria del Risorto. È responsabilità dei cristiani testimoniarlo. Sempre e per tutti».
Questo vale anche per le altre calamità che oggi si abbattono sui più fragili del pianeta: profughi e immigrati, popoli che continuano a essere flagellati dai conflitti e dalla fame. In questo senso il grido d’intercessione del popolo dei credenti diventa lo spazio decisivo dove «poter fare i conti con il mistero tragico della morte, la cui paura segna oggi la vicenda di noi tutti».
Questo straordinario dialogo con Dio diventa sorgente per poterci affidare anche gli uomini, rendendo possibile una più umana convivenza nel nostro mondo. Riecheggiano alla fine le parole del vescovo di Bergamo mons. Francesco Beschi: «Le nostre preghiere non sono formule magiche. La fede in Dio non risolve magicamente i nostri problemi, piuttosto ci dà un’interiore forza per esercitare quell’impegno che in tutti e in ciascuno, in modi diversi siamo chiamati a vivere, in modo particolare in coloro che sono chiamati a arginare e a vincere questo male». Anche chi non condivide tale lettura di fede può trarre dalla testimonianza di questa fraternità universale tracce che orientano verso la parte migliore della condizione umana.
Le dure lezioni della pandemia
L’Accademia pontificia ha dedicato un secondo documento alle conseguenze della crisi sanitaria mondiale e alla sua interpretazione. Il sottotitolo rimarca che si tratta di riflessioni “inattuali” per indicare l’urgenza di ritrovare un pensiero della comunità che non sembra più di moda, per trovare il coraggio di discutere condizioni migliori per orientare il mercato e l’educazione, piuttosto. Con questo spirito, il testo porta il titolo “L’Humana communitas nell’era della pandemia” e si apre con alcune domande fondamentali: «È possibile fare “un passo indietro” ponderato, che non significhi inazione, un pensiero che possa trasformarsi in un ringraziamento per la vita data, come se fosse un passaggio verso una rinascita della vita?... quale conversione del pensiero e dell’agire siamo preparati a vivere nella nostra responsabilità comune per la famiglia umana?». Per rispondere, si può partire dalle invasive metafore principali della comunicazione massmediale, che sottolineano l’ostilità e un senso pervasivo di minaccia: c’è l’invito costante a “combattere” il virus, i comunicati stampa risuonano come “bollettini di guerra”, gli aggiornamenti quotidiani fissano il numero dei contagiati “caduti” in battaglia. In questa atmosfera dobbiamo leggere in profondità le dure lezioni che impariamo di giorno in giorno: la prova della fragilità, il peso della finitezza, i segni della comune vulnerabilità.
Rispetto al primo documento, si fa più deciso il giudizio sul presente politico-sociale e sui frutti di una costante prevaricazione. «Il fenomeno del Covid-19 non è solo il risultato di avvenimenti naturali. Ciò che avviene in natura è già il risultato di una complessa interazione con il mondo umano delle scelte economiche e dei modelli di sviluppo, essi stessi “infettati” con un diverso “virus” di nostra creazione: questo virus è il risultato, più che la causa, dell’avidità finanziaria, dell’accondiscendenza verso stili di vita definiti dal consumo e dall’eccesso. Ci siamo costruiti un ethos di prevaricazione e disprezzo nei confronti di ciò che ci è dato nella promessa primordiale della creazione. Per questo motivo, siamo chiamati a riconsiderare il nostro rapporto con l’habitat naturale. A riconoscere che viviamo su questa terra come amministratori, non come padroni e signori». Superando le letture autoreferenziali, dobbiamo denunciare che mentre nei paesi ricchi le persone possono rispettare i requisiti di sicurezza, in quelli poveri il “distanziamento fisico” è semplicemente impossibile a causa delle tragiche condizioni di vita: ambienti affollati e impraticabilità di un distanziamento sostenibile diventano un ostacolo insormontabile. «Il contrasto tra le due situazioni mette in luce un paradosso stridente, che, ancora una volta, racconta la storia della sproporzione di benessere tra paesi ricchi e poveri».
Verso una rinascita della vita
La risposta che occorre dare alla pandemia Covid-19 non può ridursi sul piano organizzativo-gestionale. Rileggendo la crisi attraversata, il testo fa emergere quanto possiamo imparare a un livello più profondo. La fragilità, la finitezza e la vulnerabilità che ci hanno accomunati, sollecitano a una conversione che includa ed elabori esistenzialmente e socialmente l’esperienza della perdita, come parte costitutiva della condizione umana. Le lezioni della pandemia conducono in questo senso alla soglia di una nuova visione, evidenziando le condizioni per una rinascita della vita.
In generale occorre far germinare un’etica del rischio che consideri un ampio numero di fattori per una sfida che è multidimensionale. «Focalizzarsi sulla genesi naturale della pandemia, senza dare ascolto alle disuguaglianze economiche, sociali e politiche tra i paesi del mondo, significa non cogliere il senso delle condizioni che l’hanno fatta diffondere più velocemente e l’hanno resa più difficile da affrontare… dobbiamo elaborare un concetto di solidarietà che si estende ben oltre l’impegno generico di aiutare coloro che soffrono. Una pandemia ci invita tutti ad affrontare e plasmare nuovamente le dimensioni strutturali della nostra comunità globale che sono oppressive e ingiuste, quelle che la consapevolezza religiosa definisce “strutture di peccato”».
Sul piano dell’etica e della salute pubblica, occorre dunque incamminarsi in alcune direzioni essenziali: la distribuzione equa dei rischi nello svolgimento della vita umana, anche per quanto riguarda l’accesso alle risorse sanitarie (fondamentale è il tema delle vaccinazioni); la tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della ricerca scientifica (contrastando ogni forma di sottomissione a interessi particolari di tipo economico o politico); il coordinamento e la cooperazione a livello globale per rendere effettivo il diritto universale ai livelli migliori di cura della salute. Secondo gli accademici che hanno elaborato le due Note, questo è il tempo propizio per «immaginare e attuare un progetto di coesistenza umana che consenta un futuro migliore per ciascuno».
Mario Chiaro