Matté Marcello
Servire il mondo ammalato
2020/10, p. 8
Servire un mondo ferito, nella solidarietà interreligiosa. Un invito cristiano a riflettere e agire durante il COVID-19 e oltre1 è il titolo di un documento pubblicato il 27 agosto a firma del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e il Consiglio ecumenico delle Chiese. Fondamenti, principi e raccomandazioni.

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DOCUMENTO CONGIUNTO CEC-WCC
Servire il mondo ammalato
Servire un mondo ferito, nella solidarietà interreligiosa. Un invito cristiano a riflettere e agire durante il COVID-19 e oltre è il titolo di un documento pubblicato il 27 agosto a firma del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e il Consiglio ecumenico delle Chiese. Fondamenti, principi e raccomandazioni.
«Cosa significa per i cristiani amare e servire gli esseri umani a noi prossimi in un mondo al quale la pandemia COVID-19 ha inflitto una vasta sofferenza?». È l’interrogativo che dà inizio al testo elaborato dal Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC-WCC) e dal Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Scopo dell’intervento congiunto: «offrire un fondamento cristiano a una solidarietà interreligiosa che possa ispirare e confermare, nei cristiani di ogni Chiesa, la provocazione a servire un mondo colpito non solo dal COVID-19 bensì da molte altre ferite».
Le divisioni, spesso sanguinanti, che affliggono l’umanità sono tra le ferite più dolorose del nostro tempo. La pandemia rischia di acuirle. Ma possono trovare lenimento – e forse guarigione – nell’azione delle comunità cristiane che, identificandosi con il Buon samaritano, accolgono e rilanciano l’invito a «trascendere i confini nel farsi solidale e soccorrere chi soffre».
Il Buon samaritano è icona insieme di Cristo, che si china sull’umanità anche se a lui “estranea”, e della Chiesa che in nome di Cristo annulla ogni divisione in se stessa e si riconosce solidalmente corpo unico con l’umanità intera.
In un mondo già ferito dalla pandemia è ancor meno ammissibile ogni forma di intolleranza religiosa, discriminazione, razzismo, ingiustizia economica, sociale o ecologica, veri e propri peccati, di azione e omissione.
Al cospetto di Cristo, crollano i «pregiudizi religiosi, le diversità culturali, in riferimento sia ai destinatari sia ai collaboratori del nostro servizio, unificati nell’intento di alleviare le sofferenze e offrire guarigione e ricostituire integrità in un mondo pluralistico».
Descrizione della pandemia
La prima parte del testo – non particolarmente esteso – descrive la crisi della pandemia adottando gli aggettivi affini alla famiglia lessicale della “vulnerabilità”, connaturale all’intera umanità, a prescindere da ogni qualifica di censo, etnia, religione... È l’essere umano in quanto umano a trovarsi esposto alla possibilità di essere ferito.
La pandemia si è insinuata nella vulnerabilità che ci accomuna e ha dilatato le linee di frattura che ci dividono: malati e sani, poveri e ricchi, deboli e potenti. Non si è limitata a raggiungerci nella carne e ci attacca anche nello spirito: disperazione, ansia e insicurezza.
La chiusura forzosa (lock down) ha messo a repentaglio l’equilibrio dei più deboli e, a livello religioso, ci ha privati del conforto dei sacramenti e dell’incontro ecclesiale.
Il bisogno di individuare un colpevole ha dato fiato alle discriminazioni razziali e sociali. «Emarginati, specialmente migranti, rifugiati e carcerati hanno sofferto doppiamente della pandemia».
Diventare uomini e donne di speranza
La seconda parte identifica la sollecitudine necessaria per guarire le ferite della pandemia nella chiamata del Vangelo a diventare «uomini e donne di speranza». È quanto mai necessario dar vita insieme a un patrimonio comune «di valori etici e spirituali per infondere nuova speranza nel mondo devastato dalla pandemia».
La speranza è caratteristica di tutte le religioni. Per questo il Pontificio consiglio e il CEC concordano nell’estendere l’appello a prendersi cura del mondo ferito al dialogo e collaborazione con le altre religioni.
La solidarietà interreligiosa si fonda su alcuni asserti condivisi:
1) In quanto famiglia umana abbiamo responsabilità l’uno dell’altro. Ciò che ci unisce in quanto famiglia umana creata dall’unico Dio è di gran lunga più forte delle divisioni introdotte dall’uomo.
2) «La compassione, nel senso etimologico di patire-con, che ha la sua più alta espressione nella croce di Gesù, spinge al limite la sua forza guaritrice, in un amore che sorpassa ogni conoscenza».
3) Attingendo alla parabola del Buon samaritano, riconosciamo Cristo nell’uomo sofferente che giace ai margini della strada. Il dolore non ha connotazioni religiose e siamo perciò chiamati a non ignorare «nessuno di questi piccoli».
4) Lo Spirito di Dio ci spinge al servizio solidale e alla preghiera, ad essere voce e mano di Cristo oggi, favorendo le connessioni con le persone di ogni fede.
I due organismi firmatari condividono la convinzione che la comune responsabilità di cristiani verso il mondo ferito trovi esito naturale nel dialogo con i fedeli di altre religioni e gli uomini di buona volontà. La fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo è obbedienza a un disegno che non esclude e anzi è rivolto all’intera umanità.
I sette pilastri del disegno
Sette i pilastri di questo disegno universalistico.
1) Umiltà e vulnerabilità. Come Giacobbe, dobbiamo essere disposti al rischio di venire feriti per ricevere la benedizione. «Veniamo resi vulnerabili proclamando la verità al cospetto del potere, dando voce a coloro che soffrono ingiustizia».
2) Rispetto. Lo stile evangelico del servizio chiede che questo venga esercitato in forma libera da ogni esercizio di potere, anche morale. «Siamo chiamati a guardare e trattare la gente come soggetti delle loro storie e non oggetto delle nostre». Il servizio cristiano non dilata le differenze, anzi si propone di guarirle.
3) Comunità, compassione e bene comune. «È soltanto nella relazione che sperimentiamo pienamente la nostra umanità». Soffrendo compassionevolmente con gli altri diventiamo profondamente umani come Dio vuole che siamo e come in Cristo ci ha mostrato essere lui.
4) Dialogo e apprendimento reciproco. Ci rivolgiamo a chi soffre non solo con le mani aperte, ma anche con gli orecchi e la mente pronti ad ascoltare e imparare da coloro che stanno soffrendo e vogliamo aiutare. «Abbiamo bisogno di essere pronti a vedere cambiare le nostre vite tanto quanto cerchiamo di cambiare le vite degli altri».
5) Conversione e rinnovamento. La centralità della misericordia nell’esperienza e nel contenuto della fede cristiana ci rende più liberi nel servizio di guarigione. Noi stessi siamo stati guariti dalle ferite del nostro peccato e, certi del perdono di Dio, possiamo domandarci con sincerità dove noi possiamo aver ferito gli altri e l’intero creato. Duro il richiamo alla conversione: «Una riflessione autocritica ci aiuterà a resistere alla tentazione di incolpare i poveri della loro povertà, o chi è stato colpito delle loro ferite. Ci aiuta anche a rigettare l’idea che Dio scelga alcuni per la prosperità e altri per la sofferenza in base alle loro azioni».
6) Gratitudine e generosità. Sono i risvolti passivo e attivo della medesima esperienza. Gratuitamente abbiamo ricevuto, gratuitamente diamo; generosamente abbiamo ricevuto, generosamente diamo. «Dobbiamo resistere alla tentazione di aggrapparci a ogni forma di possesso», guardando come modello alla Chiesa primitiva.
7) Amore. Nella logica dell’indicativo che prevale sull’imperativo, l’amore, più che un comandamento, è un’urgenza sorgiva che scaturisce in noi e ci porta ad amare – per quanto di un amore finito – perché abbiamo fatto esperienza di essere amati di un amore infinito. L’amore, tuttavia, non è grazia “a buon mercato” né qualcosa che possa darsi per scontato. In molte circostanze, presenti e della storia, i cristiani mostrano un volto che non sempre è facile amare. Anche questa è una ferita che ci portiamo dietro. «Lavorare insieme per un mondo migliore è partecipare alla costruzione del regno di Dio ... e modella le nostre esistenze come segno della presenza di Cristo».
Le raccomandazioni conclusive invitano stringatamente ad alcune azioni e atteggiamenti cui dar seguito insieme: trovare i percorsi per una testimonianza comune verso chi soffre; promuovere una cultura inclusiva che celebra le differenze come dono di Dio; alimentare la solidarietà radicandola nella spiritualità; curare la formazione, soprattutto del clero e dei religiosi/e; coinvolgere i giovani e dare loro sostegno; moltiplicare gli spazi del dialogo, della solidarietà interreligiosa, della comprensione reciproca e della cooperazione; attivare progetti di solidarietà interreligiosa che esprimano il valore della diversità nella quale siamo stati creati.
Portata del documento
La portata del documento risiede soprattutto nel metamessaggio: le divisioni, acuite dalla pandemia, costituiscono una ferita la cui portata va al di là degli effetti e del tempo del COVID-19. La chiamata del Vangelo di Gesù a guarire queste profonde ferite chiede ai cristiani di superare le divisioni interne. Il Buon samaritano è l’icona evangelica che esprime la missione: superare le divisioni naturali, sociali, storiche e religiose per soccorrere il fratello ferito. L’appartenenza all’unica condizione umana precede e supera qualunque successiva qualifica. La sofferenza, qualunque ne sia la causa, ci accomuna. Per guarire le divisioni causate dalle ferite della pandemia è anzitutto necessario guarire le ferite della divisione. I cristiani, a partire dall’appartenenza a Chiese diverse, si sentono chiamati a muovere il primo passo per proporsi di guarire le divisioni interreligiose.
Ne scaturisce non soltanto un’etica comune, fondata sulla comune umanità, ma anche una teologia diversa. Un discorso su Dio (teo-logia) che ci parla di lui come di un Padre che si prende cura di tutti, al di là del nome con il quale lo si chiami; un Dio conosciuto dai discepoli di Gesù come comunione trinitaria e che chiama a comunione per dare al mondo salvezza-salute (salus).
Marcello Matté