Cencini Amedeo
16 tesi per il futuro
2020/1, p. 40
Il 30 ottobre 2019, all’università Urbaniana di Roma, si è inaugurato l’anno accademico con una lectio magistralis di p. Amedeo Cencini sul tema «Prospettive e segni di futuro, oggi, nella vita consacrata». Riprendiamo in forma abbreviata la conferenza che apparirà integrale in Sequela Christi della Congregazione per i religiosi.

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Testimoni
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UNA BUSSOLA PER LA VITA CONSACRATA
16 tesi per il futuro
Il 30 ottobre 2019, all’università Urbaniana di Roma, si è inaugurato l’anno accademico con una lectio magistralis di p. Amedeo Cencini sul tema «Prospettive e segni di futuro, oggi, nella vita consacrata». Riprendiamo in forma abbreviata la conferenza che apparirà integrale in Sequela Christi della Congregazione per i religiosi.
In questi anni abbiamo spesso tentato di indicare prospettive credibili di vita e di futuro per la vita consacrata (VC), con minor o maggior capacità di immaginare questo futuro, a volte persino temendolo. In questa riflessione voglio dare un senso preciso a questo termine (“prospettive”), più come indicatori d’un cammino che si sta rivelando promettente e ricco di vita, e che potrebbe oggi costituire elemento di verifica dei nostri percorsi istituzionali e comunitari. Elemento di verifica per ogni istituto, ma anche per ogni comunità; in circostanze ufficiali, come un capitolo provinciale o generale, così pure nella vita di ogni giorno e di ogni consacrato.
Credo che oggi ci stiamo davvero rinnovando e camminando verso il futuro alle condizioni che seguono. Ovvero solo se constatiamo in noi e nelle nostre comunità i segni seguenti. Sono una quindicina, qui presentati con un breve commento.
Abitare, non fuggire
Un modo nuovo di abitare il mondo e la chiesa, lontano dalla vecchia fuga mundi e da ogni forma di superiorità/potere, e ispirato a un più reale e cordiale inserimento nella storia e nelle realtà secolari come proprio ambito di vita e di azione, per poter esser fermento d’un mondo più bello.
Si tratta di avere uno sguardo nuovo sul mondo e la chiesa, che ci porti ad abitare entrambi (non “in” entrambi): questo mondo e questa chiesa non sono solo luogo ove abbiamo piantato le nostre tende, ma realtà in cui Dio ci ha posto e a cui ci invia, sono la nostra casa, da amare anzitutto; da questa duplice realtà abbiamo ricevuto e continuiamo a ricevere, a questa storia di pellegrini apparteniamo senza sentirci a nessuno superiori, desiderosi di camminare insieme, ognuno donando e ricevendo dall’altro. È bello ed espressivo quanto l’Instrumentum laboris del Sinodo per l’Amazzonia chiede ai religiosi/e che vanno come missionari: che siano capaci di “condividere la vita locale con il cuore, la testa e le mani…”.
Basta, dunque, con quella fuga mundi, modello del passato, che per tanto tempo ha finito per legittimare una sottile distanza e malcelata superiorità (espressa persino da quel certo pregare “per i poveri peccatori”) e la paura d’una vicinanza pericolosamente contagiosa.
Maggior attenzione, più che all’opera da compiere, alla qualità della relazione umana, come luogo privilegiato dell’annuncio evangelico e della manifestazione della tenerezza e misericordia dell’Eterno.
Per molto tempo la VC s’è definita, ed è stata riconosciuta e apprezzata, per le opere che compiva, di notevole impatto sociale ed ecclesiale, in vari ambiti (educativo e assistenziale), spesso in situazioni d’emergenza assoluta e con una dedizione – va riconosciuto – al limite dell’eroico. Ma anche col rischio d’identificarsi con l’opera stessa, con conseguenze almeno ambigue (bisogno di risultati positivi, grandezza delle opere e visibilità del lavoro, importanza alla quantità più che alla qualità, criteri di gestione non sempre chiari, privilegi e protezioni, dubbie collusioni politiche, fama e ricerca di prestigio, competizione anche interecclesiale, efficientismo, problemi d’identità nei singoli, bisogno di titoli…). Oggi l’attenzione va più alla relazione umana e alla sua qualità, all’incontro con la persona, soprattutto di chi soffre. Alla virtù della com-passione, in particolare, come libertà di soffrire con e per l’altro, ospitando nel proprio cuore almeno un po’ della sua sofferenza, e quale trasparente testimonianza del modo di amare di Dio. Il cuore del consacrato è vergine se ha questa libertà e in funzione d’essa.
Fede ospitale
Priorità esplicita, nel cuore e nelle scelte operative, per i poveri e gli emarginati dalla società dello scarto. Con conseguente scelta d’una vita di fatto più povera e libertà di lasciarsi evangelizzare dai poveri.
È un punto di radicale cambio. Non possiamo più continuare con una serie di stridenti contraddizioni, al riguardo, per cui – ad es. – riusciamo a “osservare” la povertà professata senza esser poveri; o lo siamo individualmente, forse, ma non certo come comunità o istituzione. O con la contraddizione tra ciò che è scritto in quasi tutte le Costituzioni o Regole di vita degli istituti religiosi sulla preferenza da dare ai poveri, e la realtà d’una vita e di preferenze ben diverse. O, infine, forse la contraddizione più profonda tra una povertà professata, ma di cui non conosciamo la beatitudine.
E fa forse parte di questa sensibilità per i poveri il coraggio di denunciare le situazioni di povertà, ingiustizia, sopraffazioni varie…, possibilmente con una voce unica, che avrebbe una particolare forza, da parte di “tutta” la VC: maschile e femminile, giovane e anziana, di vita attiva e contemplativa, dei grandi ordini e delle piccole comunità, dagli istituti tradizionali alle nuove forme di VC… C’è chi ha detto che abbiamo predicato troppo la rassegnazione, invece di educare all’indignazione! E ricordiamoci che non basta nemmeno pregare…
Ripresa dell’antico valore monastico dell’ospitalità, come modo di accogliere l’altro, frutto dell’accoglienza incondizionata che Dio ci accorda in Cristo, e pure quale offerta dei propri spazi abitativi a chi ne è privo.
Quello dell’ospitalità è un valore della VC delle origini. Ospitalità non vuol dire poi solo accoglienza dei migranti, ma vuol dire rendere la propria comunità luogo aperto, casa accogliente, dimora ove ogni persona può trovare quel che non trova così facilmente altrove, ovvero una fraternità di persone diverse tra loro riunite dall’amore unico dell’Eterno, e dunque ove ognuno si sente invitato a partecipare soprattutto a quel momento che celebra quest’amore, ovvero la preghiera.
Periferie
Maggior coraggio missionario nella scelta di annunciare il vangelo (e di aprire nuove comunità) nelle “periferie” del mondo, dove mai è risuonato l’annuncio e l’uomo pare più lontano da Dio, o ove il primo annuncio è stato ormai smarrito, ove maggiori sembrano rischi e ostacoli e più scarso il raccolto, ove occorre dire Dio e la sua parola in modo nuovo, soprattutto con la propria affabilità e solidarietà, senza ansia di proselitismo né spinti da alcuna “angoscia vocazionale” (che ci fa anteporre la preoccupazione per la nostra sopravvivenza all’annuncio del Regno).
Non siamo chiamati ad aprire comunità ove speriamo di ricavarne un utile istituzionale (in termini di nuove vocazioni, appunto), ma ove il Signore ci chiama e invia, ove maggiori sono le necessità, ove ci è dato di vivere in modo nuovo e ancor più autentico il carisma, ove ci è chiesto un impegno maggiore, una fedeltà più creativa, una innovazione dei nostri metodi e contenuti d’annuncio. Oggi c’è, da questo punto di vista, una grande pigrizia, o paura, sfiducia, miopia, mancanza di fantasia e di passione…, spesso camuffate da prudenza realistica (“siamo pochi, semmai dobbiamo chiudere…”), quella prudenza che soffoca e strangola la profezia.
Tendenza progressiva verso l’internazionalizzazione, che rende sempre meno eurocentrica la VC, e consente di superare l’idea che il “centro” (o il luogo d’origine del carisma) sia il modello che esprime tutti gli aspetti culturali, progettuali e carismatici dell’istituto in qualsiasi parte del mondo. E tendenza parallela a valorizzare gli apporti originali dei singoli, senza pretendere che tutto sempre nasca dal centro o passi attraverso esso.
La VC è stata forse la prima forma di globalizzazione nel mondo. Le nostre comunità ormai parlano diverse lingue e rappresentano dinanzi a tutti, nel loro piccolo, quella che sarà la società di domani. Tuttavia ciò va inteso non solo come destino e corso ineluttabile della storia, ma come chiamata a esser sempre più aperti al diverso, all’altro-da-sé, alla novità che emerge da altre culture, alla libertà d’imparare da chi è venuto dopo di noi e viene dalla periferia (rispetto al centro che siamo noi!).
Il passato non torna
Abbandono d’ogni nostalgia per il passato (che non tornerà più), accoglienza realistica del presente (con le sue ombre ma pure le sue luci), fiducia nel cammino verso il futuro (che appartiene a Dio) discernendo con la concretezza e la fantasia del profeta quale apporto dare – alla luce del proprio carisma – per costruire un mondo più bello e umano, più rispettoso e pacificato, casa di tutti e per tutti.
Il rapporto con il tempo o con i tempi è uno degli esercizi o dei test più rivelatori dello stato di salute psicologica e spirituale di un istituto. Molte volte tale rapporto è per vari motivi squilibrato: si enfatizza il passato, finendo per rimpiangerlo, si litiga col presente perché non è come lo vorremmo, si ha paura del futuro, perché si teme che… non ci sarà. È dunque molto importante ribadire alcune cose.
È importante capire che il passato, ad es., il nostro glorioso passato, fatto di noviziati pieni, di opere di successo, di istituti in crescita non ci sarà più. E non solo, ma sarà inevitabile che non ci sarà più, perché – parlo soprattutto della situazione occidentale – è figlio d’un cristianesimo che non è certo quello di oggi, un cristianesimo, quello di 50 anni fa – a sua volta in apparente ottima salute, di grandi masse, ma in realtà piuttosto convenzionale, un cristianesimo dell’obbligo e dell’abitudine, semplicemente trasmesso di generazione in generazione, di massa, appunto, in una società che si qualificava come cristiana e in cui al soggetto non era richiesta una scelta esplicita in tal senso. Ebbene, oggi non è più così, molti se ne rammaricano, ma in realtà non è così negativa questa transizione storica: stiamo passando da un cristianesimo dell’obbligo e della convenzione a una decisione credente fatta in libertà, a una fede per convinzione, a un cristianesimo della grazia, a un processo personale di scelta…, naturalmente, e proprio per questo, sarà un cristianesimo non più di massa, ma ridotto quantitativamente. In altre parole ritorneremo a vivere una situazione simile a quella dei cristiani dei primi secoli, quando Tertulliano giustamente diceva: “Non si nasce cristiani, si diventa”.
Ora, mi sembra di poter dire, siamo proprio a metà del guado. Per utilizzare un termine dell’esperienza del parto possiamo dire che “si sono rotte le acque”. Dire questo è già una valutazione: interpreta il disequilibrio attuale come un processo in vista della vita, e di una vita nuova. Non è la fine del mondo, quindi, ma di un certo mondo che si pensava cristiano; non è la fine del cristianesimo ma di un certo cristianesimo, quello puramente convenzionale o che si trasmetteva in automatico; non è la fine della fede ma di una certa figura di fede, quella di massa, non abbastanza personalizzata. Allo stesso modo possiamo dire: non è la fine della VC, ma d’una certa VC, quella che forse andava bene un certo tempo, ma che poi – al di là dell’apparenza d’una certa solidità ed efficienza- finiva per riassumere in sé inevitabilmente le conseguenze o le contraddizioni d’una fede di bassa qualità. E dunque è una fine in prospettiva d’un cammino e d’un futuro diverso. La situazione critica attuale è un passaggio obbligato per giungere a esser quel che siamo chiamati ad essere. Per questo è indispensabile il coraggio e il realismo di attraversare il deserto attuale.
Tempo favorevole
Dire poi, in concreto, che questa è l’epoca delle inevitabili perdite e contrazioni numeriche, in cui avviene lo ‘smaltimento’ progressivo di chi è cattolico solo per anagrafe, potrebbe equivalere a dire che in modo corrispondente avviene un analogo smaltimento progressivo nella VC. Lo constatiamo come processo già in atto (vedi il calo quantitativo di vocazioni e la chiusura di opere). Ma ciò che conta è che non sia subìto e maledetto, bensì accolto come processo di crescita ed evento da cui lasciarci toccare e mettere in crisi, come cammino di purificazione a livello personale e comunitario, e dunque anche come luogo della nostra rinascita, ove qualcosa di noi è destinato a morire per lasciar vivere qualcosa di nuovo. Ovvero come momento di formazione, di quella formazione che continua nel tempo, la formazione permanente, poiché davvero “cristiani non si nasce, si diventa”, e lo si diventa sempre più lungo il tempo, fino alla morte.
Capacità di tradurre il proprio carisma in lingua e dialetto locale, in messaggio significativo anche per una cultura secolarizzata, perché non resti proprietà privata (rischiando di smarrirsi e morire) e anche altri lo possano non solo sentire rivolto a sé, come beatitudine per la loro vita, ma pure coglierne aspetti nuovi e inediti.
Ecco un modo concreto di costruire futuro. Che implica una concezione diversa del carisma, dono che viene dall’alto di cui non siamo noi i destinatari ultimi, ma il mondo e la chiesa. Noi siamo solo i destinatari immediati di qualcosa di prezioso che Dio ci ha donato, perché noi lo viviamo, come singoli e come gruppo, al fine di renderlo a nostra volta dono per gli altri. Questo non avviene automaticamente, ma a condizione che noi sappiamo tradurre il carisma davvero in lingua e dialetto locali, ovvero lo sappiamo dire e ridire in termini secolari, secondo la sensibilità dell’uomo e della donna d’oggi, in modo da farlo percepire-gustare come qualcosa di ricco di senso e bellezza anche per loro, di illuminante la vita, come fonte di gioia e beatitudine.
Nascita o fioritura delle Famiglie carismatiche, quale possibilità offerta a laici di condividere il carisma nella vita secolare, nella professione, nella famiglia, aggregandosi in varie modalità di appartenenza all’istituto titolare di quel carisma, perché sia a vantaggio di tutta la chiesa.
Tutto questo genera per natura sua modi diversi di vivere un determinato carisma. E secondo diversi gradi di appartenenza all’istituto stesso, e di collaborazione alla sua opera. Il denominatore comune è costituito dal carisma, naturalmente, vissuto nella vita del laico qualsiasi, in famiglia, nella professione, nei rapporti di ogni giorno; anche attraverso delle vere e proprie promesse, che possono dar luogo ad aggregazioni ufficialmente riconosciute dall’istituto stesso e pure dotate d’una certa autonomia, giustificata dalla obiettiva originalità e specificità della situazione, ossia dalla sua laicità. Siamo dunque ben lontani dall’idea del terz’ordine d’un tempo, come pure ben oltre la semplice idea del laico di buona volontà che si presta a collaborare con l’istituto quando ce n’è bisogno. No, qui il laico è interprete del carisma da un punto di vista solo suo, quello del laico, che inevitabilmente vede e vive la vita in modo diverso dal consacrato, e dunque può anche cogliere aspetti diversi e originali rispetto a quelli ufficiali dell’istituto. D’altro canto, se il carisma è dono che viene dall’alto non potrà mai essere interpretato completamente da un’unica forma di vita, e si presta a esser letto e vissuto in forme distinte per quanto convergenti.
I sentimenti di Cristo
Formazione intesa come progressiva conformazione ai sentimenti di Cristo, tesoro e centro della vita del consacrato/a, e fondamento dell’unità interiore, oltre ogni schizofrenia e contraddizione tra comportamenti e motivazioni, tra vita attiva e contemplativa, tra mistica e ascetica, tra ragione e sensibilità.
Con grande intuito Vita consecrata ha definito natura e obiettivo della VC (oltre le classiche categorie della sequela, del discepolato, dell’imitazione di Cristo), come un avere in noi stessi gli stessi sentimenti-sensibilità di Cristo, rivelazione – a sua volta – della sensibilità divina. Il documento lo dice e ripete con chiarezza, ma non so quanto abbiamo recepito l’originalità di questa proposta, che mette insieme prospettiva umana e divina, psicologica e teologica, preghiera e azione, e che potrebbe da sola rivoluzionare il nostro sistema formativo. Che non può mirare, infatti, semplicemente a cambiare i comportamenti o farne apprendere di nuovi, quanto a imparare ad avere gli stessi sensi (esterni e interni), sensazioni, emozioni, sentimenti, desideri, gusti, affetti, sogni, criteri decisionali, passioni… del Figlio obbediente, del Servo sofferente, dell’Agnello innocente. Se la formazione non attinge e converte la sensibilità della persona non serve a nulla, è puro estetismo di facciata o fariseismo di ritorno, con tutte le contraddizioni che sappiamo. Se invece evangelizziamo la sensibilità allora formiamo il credente che ha abbandonato la logica dell’osservanza cocciuta e persino perfetta (con le sue ossessioni di perfezione, depressioni e sensi di colpa), e sta lentamente entrando nella logica di quella libertà che nasce dal far le cose con gusto e per amore.
Recupero della centralità e specificità del carisma nell’identità del consacrato/a, evitando – per gli istituti maschili – il rischio della progressiva clericalizzazione-parrocchializzazione e promuovendo –per quelli femminili – la stessa identità/sensibilità della donna.
È un cammino iniziato nella riflessione post-conciliare, e che deve procedere a livello individuale e comunitario. Il carisma deve essere sempre più scoperto anzitutto nel suo ruolo di punto di riferimento della identità del singolo, come ciò in cui il consacrato ritrova ciò che è e che è chiamato ad essere, ciò che gli dà una percezione stabile e positiva di sé. E quindi, e a livello comunitario, come ciò che è anche il punto di coesione nella comunità, come ciò che riflette il volto di tutti, e che indica un corrispondente stile esistenziale, e che dunque va costantemente riscoperto nel suo contenuto (ai vari livelli: mistico, ascetico, missionario…).
In tal senso è importante per gli istituti maschili vigilare sulla “storica” tentazione di appiattirsi sul ruolo presbiterale con tutte le sue seduzioni e distorsioni (clericalismo e dintorni), rischiando di perder progressivamente di vista la specificità carismatica e la sua naturale priorità a livello d’ identità.
Forse ancor più complesso e decisivo, nel presente momento storico-culturale, dovrebbe essere l’impegno della VC femminile nel riscoprire, proprio all’interno dell’originalità carismatica, il proprio modo di esser donna, oltre tutti quegli stereotipi che purtroppo hanno offuscato la dignità femminile (anche in nome d’una malintesa antropologia cristiana). In tal senso il carisma è assieme la chiave ermeneutica per leggere ed esprimere la propria femminilità, ma anche viceversa, quest’ultima è un modo di leggere e interpretare il carisma stesso.
Formazione e probazione
“Promozione d’una VC alternativa e profetica, intercongregazionale e interistituzionale
Prendo ancora lo spunto da una sottolineatura dello Strumento di lavoro del sinodo amazzonico, ove per l’appunto si dice con estrema chiarezza: “Si propone quindi di promuovere una vita consacrata alternativa e profetica, intercongregazionale, interistituzionale, con un senso di disponibilità a stare dove nessuno vuole stare e con chi nessuno vuole stare”.
La VC deve essere alternativa, ovvero essere attenta a non appiattirsi nella linea della mediocrità e della mondanità, per poter dire una parola forte non solo al mondo, ma anche alla chiesa. Secondo: dev’essere intercongregazionale e interistituzionale, ovvero aver il coraggio di uscire da certe appartenenze orgogliose e presuntuose, per lavorare assieme ad altri, altri istituti, altre forze ecclesiali, anche a costo di perdere la titolarità del lavoro fatto, dei suoi frutti e dei suoi meriti; e magari disponibilità a lavorare con altre forze, pure al di fuori della chiesa, con chi non crede, ma condivide con noi la voglia di migliorare il mondo. Qualcuno dirà, e con buone ragioni, che in tal modo si corre il pericolo dell’oscuramento o persino della perdita del carisma fondazionale. E se fosse il contrario? Ovvero, non potrebbe o dovrebbe essere il carisma quel chicco di grano che cade in terra e muore e dà frutto?
Maggiore attenzione alla formazione iniziale, dalla serietà del discernimento vocazionale alla qualità dell’accompagnamento personale. Maggior investimento nella formazione permanente, alla sua dimensione ordinaria nella vita d’ogni giorno e alla crescita della docibilitas (=imparare a imparare), perché ognuno sia libero di lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita. Alla luce della Parola, e alla scuola della Parola-del-giorno.
Se essere consacrati significa avere gli stessi sentimenti di Cristo, allora c’è un unico modello formativo, quello pasquale, che conduce a Gerusalemme. E che suggerisce un corrispondente metodo formativo, quello della ricapitolazione in Cristo, o della integrazione della propria storia e della propria persona in lui e nel suo mistero di morte e resurrezione.
Anche per questo la formazione deve essere permanente, poiché non può compiersi pienamente tale processo in un tempo limitato. La formazione iniziale dovrebbe mirare a formare nel giovane la disponibilità a lasciarsi formare dalla vita per tutta la vita, ovvero la docibilitas, liberandolo da quanto lo chiude in se stesso (paure, rigidità, precomprensioni…) o lo rende superiore agli altri, e aprendolo invece verso la realtà, capace di discernervi l’azione formativa del Padre.
Santità comunitaria
Cura particolare della formazione del cuore, della maturità affettiva generale (dunque anche affettivo-sessuale), non solo per evitare scandali, ma perché il vergine per il regno dei cieli impari sempre più ad amare Dio con cuore umano, e l’uomo col cuore di Dio.
Gli eventi scandalosi accaduti nella chiesa ci dicono quanto sia stata carente la formazione iniziale (e continui a esserlo quella permanente) nel settore della maturità affettiva e affettivo-sessuale. Oggi ancora in alcuni contesti formativi non esiste una vera e propria proposta metodologica in tale campo. Che vuol dire che non esiste formazione alcuna, poiché l’istinto affettivo-sessuale è quello per natura sua al centro della persona umana, qualsiasi scelta faccia di vita. Occorre dunque mettere a tema tale aspetto, come cammino di gruppo e individuale. Occorre soprattutto mostrare il versante umano-psicologico della opzione celibataria, per mostrare anzitutto la bellezza misteriosa della sessualità e la sua propria grammatica (l’ordo sexualitatis), ma anche cosa avviene in chi rinuncia all’esercizio della pulsione genitale-sessuale, quali rischi corra, a quali condizioni la scelta sia possibile, quali le tentazioni e le compensazioni d’una scelta poco appassionata, o poco coerente, o non abbastanza rimotivata continuamente lungo la vita. Occorre specificare la natura positiva della scelta celibataria, che annuncia la verità del cuore umano, la cui sete d’affetto può esser colmata solo da Dio; ma anche aver il coraggio di indicare le caratteristiche precise dello stile relazionale-verginale. La relazione interpersonale è luogo di formazione permanente del cuore vergine, e assieme è manifestazione di quanto un cuore vergine possa divenire mediazione misteriosa del cuore amante dell’Eterno!
Abbandono della concezione piramidale della comunità, da costruire e ricostruire sempre più sul modello della fraternità, ove ognuno, e non solo l’autorità, si prende cura in modo adulto dell’altro e della sua crescita, e tutti assieme si cerca Dio, nella condivisione, anzitutto, dei beni spirituali, non solo materiali.
Una comunità di consacrati è una fraternità di credenti che non si sono scelti tra loro, ma che si riconoscono in una identità e in un progetto di vita che viene dall’alto ed è al di sopra di tutti. Esser fratelli significa camminare assieme verso la sua realizzazione, ogni giorno della vita. Mettendo in atto le varie forme d’integrazione del bene (condivisione della Parola e dei beni spirituali, discernimento personale e comunitario, forme varie di promozione fraterna e di servizio reciproco…), ma pure del male (perdono, correzione fraterna, revisione di vita). In tale fraternità ognuno è mediazione della presenza di Dio per l’altro e chiamato ad ob-audire all’altro, ma d’essere ob-audiens anche nei confronti dei poveri e di chi soffre, dei segni dei tempi e di chi non crede, delle fatiche della vita e dell’infermità del proprio corpo…, non solo verso i superiori.
La testimonianza più convincente: la gioia di vivere insieme. Il sogno finale: la santità comunitaria, non solo individuale.
Oggi la testimonianza che risulta più umanamente decodificabile e dunque la più decisiva e convincente penso che sia la gioia, e non una gioia qualsiasi, ma quella di vivere insieme. Neanche l’ateo più convinto può restare indifferente dinanzi alla testimonianza gioiosa di chi, in nome di Dio, compie rinunce significative ed è nella gioia, soprattutto quando questa gioia non è un’eccezione, qualcosa che prova qualcuno, ma è d’un gruppo: è la gioia di vivere insieme sempre in nome di quel Dio, giovani e anziani, liberi di condividere le diversità d’ogni genere che rendono più ricca e colorita l’unità! Si tratta di operare un passaggio, anzitutto nella nostra mente, da una certa concezione ascetica della “vita communis, mea maxima poenitentia”, al “com’è bello e com’è dolce (jucundum) che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133,1), senz’alcuna poesia e romanticismo.
E il sogno? È strettamente legato a quanto appena detto: alla gioia di vivere insieme. Quella gioia è già santità, santità comunitaria. Il sogno allora è quello che Francesco 4° o 5° (un po’ di tempo ancora dovrà passare), in una bella domenica di sole romano, canonizzi in S.Pietro una comunità di consacrati/e che si sono santificati vivendo assieme, condividendo le loro fatiche e debolezze, imparando a perdonarsi, l’uno responsabile e pure bisognoso dell’altro…
Amedeo Cencini