Brena Enzo
Una sfida sempre nuova
2020/1, p. 31
L’internazionalità è un tema qualificante, ed è il futuro. Non deve rassicurarci la costatazione che i membri delle nostre comunità o famiglie religiose appartengono a diverse nazioni; non è sufficiente per dire che è maturato tra noi un atteggiamento di accoglienza reciproca, di internazionalità.

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INTERNAZIONALITÀ
Una sfida sempre nuova
L’internazionalità è un tema qualificante, ed è il futuro. Non deve rassicurarci la costatazione che i membri delle nostre comunità o famiglie religiose appartengono a diverse nazioni; non è sufficiente per dire che è maturato tra noi un atteggiamento di accoglienza reciproca, di internazionalità.
Dirci che l’internazionalità è un fuoco non secondario della nostra attenzione significa che è un atteggiamento da curare sempre all’orizzonte dei nostri obiettivi.
L’internazionalità ha un significato nel nostro percorso di maturazione spirituale e comunitaria perché fa parte della conversione evangelica. Grazie ad essa, ognuno viene riconosciuto per quello che è: un figlio/una figlia di Dio. Non ci sono figli di Dio di seconda o terza categoria. Siamo tutti figli. Ciò che ci definisce ulteriormente non è la nostra provenienza etnica, sociale, nazionale – da qualunque luogo veniamo – ma ciò che ci sta davanti, dove andiamo.
Imparare a vivere insieme accogliendoci in questo modo non è scontato né spontaneo. Richiede, appunto, una continua conversione. In questo senso mi sembra importante la sottolineatura spesso ribadita nei programmi delle famiglie di consacrazione e dallo stesso papa Francesco: è necessario un cuore misericordioso, un cuore pieno di misericordia. Questo è l'obiettivo centrale del nostro cammino di vita, della nostra conversione, perché la misericordia è di Dio. È lui il misericordioso. Noi cerchiamo di arrivare a condividere con lui e a sintonizzare il nostro cuore sul suo cuore. È come quando si mette in sintonia una radio: per sentire bene una emittente bisogna regolare la sintonia in modo giusto. E la nostra vita è un continuo tentativo di regolare il nostro cuore su quello di Dio.
Penso di non deludere nessuno se dico che non siamo mai arrivati a una sintonia perfetta: la dobbiamo cercare continuamente. Sappiamo tutti che basta poco per uscire di sintonia e non ricevere più il segnale o riceverlo molto disturbato, inascoltabile. Un piccolo sgarbo, una disattenzione, un’incomprensione e già cominciamo a vedere che le nostre relazioni degradano, si trasformano, perdono in umanità, smarriscono la tensione evangelica dovuta. Ebbene, è lì che bisogna ricordarsi del Cuore misericordioso di Dio al quale noi apparteniamo. E proprio perché apparteniamo al Cuore di Dio abbiamo il diritto e il dovere di fare tutto quanto ci è possibile oggi – ora! – per diventare, per essere misericordiosi. Tra mezza giornata, domani, tra un mese, tra un anno… sempre saremo chiamati a fare qualcosa di nuovo per essere misericordiosi.
Interiorizzare questa mentalità, che mette al centro il “processo” e non lo “stato”, è una condizione importante per evitare confusioni e frustrazioni. Abbiamo successo, riusciamo a far bene una volta e pensiamo di essere già arrivati, e invece non è così. È necessaria tanta umiltà. L’umiltà è sapere che, per quante cose belle abbiamo fatto, c’è ancora da camminare, da imparare. Con questa coscienza si vive bene anche il traguardo raggiunto ogni giorno.
L’ascolto della Parola
La condizione per lasciare che Dio ci metta in piena sintonia e comunione con lui è l’ascolto della Parola. Tale ascolto avviene sempre in un equilibrio, in un continuo discernimento tra quello che la Parola ci dice e l’avventura della nostra storia personale, sociale ed ecclesiale. Riuscire a portare nel vissuto di oggi la parola di Dio, che è valida per sempre, è compito nostro e in questo abbiamo molto da aiutarci. Ciascuno con l’apporto della propria cultura, del colore della propria pelle, della lingua con la quale parla a Dio. È questo davvero uno degli aiuti che non dovrebbe mai mancare nelle nostre comunità, nei nostri incontri: avere le sensibilità di saper leggere le vicende della storia alla luce della parola di Dio, e nelle vicende della storia saper cogliere come la parola di Dio ci inviti a rivestirci del Vangelo, perché anche le sorprese della storia quotidiana sono provvidenza di Dio, sono parte della sua Parola e della sua volontà di bene che ci interpella.
Papa Francesco ci sollecita continuamente a stare nella storia, perché se noi ci limitiamo a leggere, rileggere, o rispolverare il Vangelo senza inserirlo nella storia diventiamo gente che vive dalla mansarda in su, non ha fondamenta a terra, nella storia. E quando diventiamo teorici del Vangelo siamo già lontani dalla vita e dalla realtà dei nostri fratelli.
Per questo è importante riuscire a mantenere sempre in un consapevole equilibrio la storia e la parola di Dio: il nostro ascolto della parola di Dio e la nostra reale capacità di stare nella storia alla luce di questa Parola.
Per quanto riguarda la capacità di “ascoltare” e “dire” la Parola, mi sembra importante fare attenzione ai nuovi linguaggi, soprattutto quelli del mondo giovanile. È un modo anche questo di dare spazio all’internazionalità, perché saper ascoltare e parlare linguaggi diversi è un modo per favorire il dialogo e tenere in connessione mondi diversi: il mondo dei giovani con quello degli anziani, il passato con il futuro, ecc.
C’è bisogno di imparare nuovi linguaggi, altrimenti non ci si capisce. È anche vero che, nel tempo, i linguaggi e gli idiomi cambiano. Il Vangelo rimane sempre quello. In che modo, allora, essere attenti ai nuovi linguaggi, diventare capaci di comprendere il mondo giovanile sintonizzato su nuovi linguaggi, restando radicati nel Vangelo? In qual modo costruire ponti tra "mondi" diversi? La libertà evangelica ci permette di stare in dialogo con tutti, senza tagliar fuori nessuno, senza escludere nessuno; se abbiamo questa consapevolezza e cerchiamo di metterla in pratica, allora la nostra vita diventa davvero arricchente, così come il nostro rapporto coi giovani e con chi proviene da mondi geograficamente o culturalmente diversi.
Questa disposizione sarà utile non solo per i nostri interlocutori, ma anche per noi. C’è un criterio di reciprocità sempre attivo: se pensiamo di poter/dover soltanto insegnare, siamo noi fuori posto e non loro a non capirci. Nessuna cultura è soltanto maestra; nessuno è dottore o professore, tutti noi umani siamo sempre discepoli, viandanti, tutti in cammino. Chi ha più esperienza o più conoscenza ha qualcosa in più da condividere, ma questo non fa di loro delle persone esenti dal compito e dalla fatica di continuare a imparare.
Perciò è importante l'apertura e l’apprendimento di nuovi idiomi e linguaggi, soprattutto interagendo con il mondo giovanile, senza dimenticare che l’unico modo per rimanere sempre giovani nonostante l’età è vivere una vita evangelica, cioè imparare la libertà di Gesù Cristo che non si nascondeva dietro traguardi già raggiunti e mai si vantava della sua sapienza; semplicemente si manteneva attento alle persone, si lasciava toccare dalla loro vita, si giocava nella relazione.
La formazione permanente è la vita quotidiana
La formazione permanente è un passaggio importante che permette di fare sintesi, perché formazione permanente non sono tanto i corsi teorici, ma la vita quotidiana vissuta alla luce del Vangelo. Questa è la formazione permanente, è la conversione permanente alla quale siamo chiamati e che produce davvero frutti se ci manteniamo sempre consapevolmente in cammino.
La sorella o il fratello vicino a noi non è lì per caso, o purtroppo, con la sua diversità: è lì perché, insieme, ci aiutiamo a diventare sempre più capaci e liberi di amare. Se non sappiamo leggere e rileggere il "mondo" e la "storia" del nostro quotidiano, possiamo riempire i calendari di incontri di formazione permanente ma serviranno a ben poco, non porteranno da nessuna parte, perché la formazione permanente non è un patrimonio di nozioni o teorie con cui riempire la nostra testa ma è vita, vita da vivere, e da vivere insieme.
Quando ci chiediamo “che cos’è per me la formazione permanente?”, le nostre risposte possono essere le più elaborate, ma non potranno fuggire il dato della realtà: formazione permanente sono i fratelli e le sorelle che vivono con me, è la situazione in cui mi trovo quotidianamente a vivere. Questa è la permanenza della formazione. Se continuiamo a vivere male con chi abbiamo accanto, la partecipazione al corso di formazione permanente non cambierà nulla, perché la formazione permanente non fa miracoli. Anzi, può diventare dannosa, poiché spesso la si vive come una giustificazione: «ah! io ho fatto la formazione permanente». Non è cambiato niente ... però ho fatto il corso di formazione permanente. I rischi per noi sono questi, e dobbiamo essere molto realistici sul pericolo che la nostra umanità rimanga lì, ancora in germe, non pienamente sbocciata e, quindi, incapace di portare frutti apprezzabili.
Se questo accade, non è perché il Signore non ci abbia dotato di doni, di capacità e talenti diversi, come diverse sono le lingue che parliamo, ma perché viviamo al di sotto delle nostre possibilità, della nostra vocazione, inseriti in modo statico in un quadro di riferimento che non è quello schiettamente dinamico suggerito dal Vangelo e dalla vita di Gesù.
In alternativa, ci riesce bene farci altri tipi di viaggi: efficienza, avere visibilità, riconoscimento pubblico, produrre dei risultati. Sarebbe già un risultato che noi ci volessimo bene a partire da quel che siamo, così come siamo. Non è un discorso minimalista, anzi è un discorso enorme: vivere il Vangelo insieme. Se non ci impegniamo a vivere questo, che cosa può mai farci pensare che andando agli altri porteremo dei frutti? Le persone che ci ascoltano lo capiscono subito, a pelle, se la nostra vita sa di vangelo, se siamo o non siamo veri, credibili oppure no.
La formazione permanente è da vivere soprattutto nella vita quotidiana, nelle relazioni, nel sentirci responsabili gli uni degli altri, nel non far diventare le differenze individuali un problema, o un alibi che giustifichi la nostra mancata volontà di crescere e convertirci. Semmai, le differenze individuali dovremmo viverle come la via preferenziale per maturare la nostra identità di figli di Dio. Il Signore non ci ha fatti diversi perché si diverte a metterci in difficoltà, ma perché mi chiede di accoglierlo, oggi, nella persona che ho accanto. E se non so vivere accanto a questa persona accettando le sue diversità e i suoi limiti – che magari considero “insuperabili” – non riuscirò ad accogliere e vivere con altri, da un’altra parte... e, implicitamente, considero "insuperabili" anche i miei limiti e difetti.
Essere mediazione
Essere consapevoli di quanto viviamo e responsabili gli uni degli altri: questo mi sembra un aspetto fondamentale della nostra libertà, vissuta per essere umile mediazione della grazia di Dio. Normalmente il Signore non giunge a noi attraverso esperienze mistiche. Nella vita secondo lo Spirito si può ricevere anche questo dono, ma non si tratta certamente di esperienze frequenti. Lo Spirito, che parla tutte le lingue, ci raggiunge attraverso la faccia simpatica o antipatica di chi ci sta accanto: la libertà di stare davanti e accanto all'altro accogliendolo senza giudizi o pregiudizi, nella normalità dei giorni feriali, questo sì ha una valenza mistica!
Io sono una mediazione di Dio per l'altro, come l’altro è mediazione di Dio per me. Accettare questo dato di fatto è una bella sfida, per quanto sia anche esigente. Normalmente, guardando l'altro, noi ci fermiamo soprattutto all'apparenza esteriore, alla buccia, e spesso la buccia non ci piace. Se però riusciamo ad andare oltre la superficie, allora le cose cambiano. Anzitutto comprendiamo che anche la persona più problematica è comunque amata da Dio. E ci rendiamo conto che anche lei ha la possibilità di fare un passaggio di crescita: un passaggio che noi ancora non conosciamo nel dettaglio – neanche lei, forse – ma che diventa possibile se e quando ci disponiamo a un atteggiamento di accoglienza, di ascolto, di pazienza, di perdono, di condivisione, ecc.
Questi sono i carismi dello Spirito, a disposizione della nostra libera scelta di lasciarci coinvolgere nella dinamica dell'amore di Dio. Se andiamo a vedere quali sono i frutti dello Spirito (cfr. 1Cor 13,1–13), riusciamo a comprendere in che modo è possibile essere mediazione vitale e trasformativa, non solo culturale, nell’ottica di Dio. E scopriremmo che non ha alcun senso vivere in continua difesa di noi stessi, di quel che già siamo, poiché una vita, un amore, un bene molto più grande è disponibile per chi ha il coraggio dell'umiltà di imparare da Gesù, nostro unico Maestro, come vale la pena stare al mondo.
Enzo Brena