Le ragioni della povertà evangelica
2020/1, p. 27
«Non serve una povertà teorica, ma la povertà che si impara toccando la carne di Cristo povero, negli umili, negli ammalati, nei bambini». È questo il modo con cui il Papa oggi si pone a contatto con il mondo.

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Le ragioni
della povertà evangelica
«Non serve una povertà teorica, ma la povertà che si impara toccando la carne di Cristo povero, negli umili, negli ammalati, nei bambini». È questo il modo con cui il Papa oggi si pone a contatto con il mondo.
«Non darmi Signore né povertà né ricchezza»: è la preghiera del saggio riportata in Proverbi (30,7-9) con cui intendeva trovare il significato e ragion d’essere della povertà non tanto nella rinuncia in se stessa, ma soprattutto nella fecondità e nella generatività di quanto può nascere da cuori che osano l’amore senza contraccambio.
Agli inizi del Concilio, il 6 dicembre 1962, nel suo discorso programmatico il card. G. Lercaro lanciò nell’aula come idea dominante dell’ecclesiologia conciliare quella della «Chiesa dei poveri», un temine ripreso dal magistero giovanneo. L’urgenza di questa prospettiva, Lercaro la percepiva anzitutto come urgenza stessa della storia, per essere l’aspetto essenziale e primario del mistero di Cristo, per cui – disse – «questa è l’ora dei poveri». Non si trattava di un motivo da sviluppare accanto agli altri ma piuttosto dell’unico tema di tutto il Vaticano II. Ma la prospettiva era troppo in anticipo rispetto alla comune coscienza conciliare per cui rimase sostanzialmente un sasso gettato nello stagno, capace solo di provocare una effimera increspatura del plauso e del consenso. I più lucidi dei padri conciliari però sentivano che bisognava andare oltre e ritrovare quella forma essenziale di Chiesa, che si qualifica per il considerare i poveri parte della propria vita per sentire con loro, per partecipare alle loro difficoltà, collaborando a nome e nella forza del Signore, nella soluzione di situazioni di bisogno di chi aveva perso il lavoro, la casa, gli affetti.
Nessuna cultura, né ieri né oggi dice che la privazione è bella; bello è vivere con poco e far circolare le cose, le idee, le energie positive e mangiare lo stesso pane. A Dio non interessano sacrifici, offerte, olocausti: non esistono eroismi che ci svuotano del vivere, per cui anche «il voto di povertà non può togliere il diritto di obbedire veramente alla vita».
Da dove
ha tratto origine?
Ritornare agli inizi del cristianesimo significa cogliere e rendere più chiaro ciò che Gesù ha proposto in pari misura a tutti i cristiani, come riportato da Luca: «tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno»? (Atti 44-45). Con queste parole intendeva dire – scrive lo storico della chiesa G. Krodel - che «l’assenza o la presenza dello Spirito sono segnalate da ciò che facciamo o non facciamo con i nostri beni terreni».
Rimane comunque vero che il concetto che sta alla base di tale atteggiamento fu sicuramente mutuato da quello praticato da Gesù e dai discepoli, quando trascorrevano insieme buona parte del loro tempo svolgendo un ministero itinerante, nel corso del quale dovevano necessariamente attingere a una cassa comune (Gv 1,6) dove confluivano i doni e le offerte dei sostenitori. Non si hanno indicazioni del fatto che abbiano venduto o permanentemente abbandonato i beni in loro possesso. In Giovanni (21,3) notiamo che Pietro ritornò a pescare stabilendosi a Cafarnao.
È inoltre probabile che molti dei pellegrini presenti a Gerusalemme, ad esempio nel giorno di Pentecoste, abbiano deciso di rimanere a far parte della nascente comunità cristiana, creando così un gruppo di «profughi» al cui sostentamento si provvedeva mettendo a disposizione i beni di tutti. Alla fine, anche gli abitanti gerosolimitani che avevano aderito a questa comunità, essi stessi indigenti, probabilmente si staccarono dalle normali fonti di assistenza sinagogale giudaica.
Dopo il periodo apostolico, con il nascere delle comunità monastiche e poi di quelle conventuali, lontane dal mondo, la sussistenza di una collettività di poveri passava necessariamente dal mettere a disposizione ciò che ognuno aveva, caricando però le ristrettezze della vita anche di un valore ascetico, ed è così che l’esperienza monastica è andata sempre più configurandosi quale esperienza etico-virtuosa prevalentemente individuale dai tratti austeri. Da qui il modo di intendere e di vivere la povertà trasferitosi successivamente lungo i secoli fino ad arrivare a noi attraverso le molteplici successive forme di vita religiosa.
Però da una “narrazione” – scrive L.Blomberg – non si possono trarre prescrizioni che abbiano valore normativo. L’evangelista Luca descrive una situazione che si protrasse per qualche tempo. In ogni caso «la struttura indicataci da Luca denota l’attuazione di periodici atti di carità a seconda delle necessità che di volta in volta si presentavano e non è configurabile con una definitiva rinuncia alla proprietà privata». Dunque Luca descrive come la prima Chiesa diede vita ad un temporaneo meccanismo di condivisione comunitaria a Gerusalemme, al quale poi si ispirarono più duraturi princípi di interessamento per i poveri. All’interno dello stesso libro degli Atti, questi princípi avrebbero condotto in seguito alla più permanente istituzione di un fondo diaconi a favore dei poveri del posto e a collette per i bisognosi esterni alla comunità. In seguito nelle comunità paoline, la spogliazione dai beni era favorita dal credere che il tempo si era ormai fatto breve pensando prossima la fine del mondo.
Attualmente
quale povertà serve?
«Non serve una povertà teorica, ma la povertà che si impara toccando la carne di Cristo povero, negli umili, nei poveri, negli ammalati, nei bambini». È questo il modo con cui il Papa oggi si pone a contatto con il mondo, che suona come provocazione a ricredersi riguardo al nostro modo di sentire e toccare il mondo. Il suo modo si avvicina a quello che ebbe Francesco di Assisi. Scrive lo storico Andrè Vauchez: la povertà non era per il santo di Assisi un esercizio ascetico, quanto la condivisione della vita della gente; era vivere come tutti gli altri, come quei minori (i poveri) che sopportavano le fatiche quotidiane, quindi diversamente da quella di un monachesimo che aveva perso il senso della povertà considerandola una pratica ascetica o giuridica. Povertà inoltre, quella di s. Francesco, quale prospettiva della creatura che non spadroneggia sul creato né sulle creature ma che tende ad affermare la dignità di tutti coloro che non possiedono né visibilità, né beni, né dignità.
Quali altre ragioni
della povertà?
Per una vita povera la prima delle ragioni è quella della «sequela». Seguire Gesù «significa credere quello che lui credette, dare importanza a quello che lui disse, interessarsi di quello di cui lui si interessò, guardare le persone come lui le guardò, confidare nel Padre come lui vi confidò, affrontare la vita con la speranza con cui lui l'affrontò e soprattutto difendere la causa che lui difese. La prima di queste è di aver fatto proprie le cause dei poveri, non per fare distinzioni ma perché l’uomo le ha fatte: «Se si rivolge ai poveri – scrive B. Maggioni – è perché noi li abbiamo esclusi». Gesù lo fece assumendo la povertà in un senso più profondo di quello meramente economico: i poveri in quanto emarginati. È il concetto di emarginato che Cristo vuole togliere. I pubblicani non erano poveri economicamente ma emarginati, così come erano le donne, gli stranieri, i bambini, i peccatori. Oggi è povero anche il divorziato, l’anziano, il disoccupato, il malato, l’orfano, e tutti coloro che cercano amore, affetto, vicinanza, lavoro, assistenza.
La seconda delle ragioni della povertà per una vita da discepoli, è quella della «giustizia» a partire dal fatto che buona parte dei mali nel mondo è frutto dell’accaparramento dei beni da parte di pochi che hanno sottratto ai più quanto è necessario alla sopravvivenza o a una vita dignitosa. Da qui l’accorato appello del papa: «Siate ancora oggi, per la Chiesa e per il mondo, gli avamposti dell’attenzione a tutti i poveri e a tutte le miserie, materiali, morali e spirituali, come superamento di ogni egoismo nella logica del Vangelo che insegna a confidare nella provvidenza di Dio».
Oggi di fronte allo spettacolo della spaventosa miseria di masse enormi di uomini, ridotti alla fame e al degrado, nessuno dovrebbe essere capace di tollerare manifestazioni di ricchezza là ove si predica il Vangelo..
Un’altra ragione per una vita discepolare povera è l’intravvedere in questa la scelta di una migliore «qualità della vita» il cui senso non trova il suo fine ultimo nel fatto di possedere qualcosa. Oggi più che mai ci rendiamo conto che la spinta ad andare verso l’accumulo quantitativo dei beni, come appropriazione della natura, ha creato le condizioni per una dequalificazione progressiva della vita; allora la povertà, come autolimitazione dei bisogni e dei desideri e di conseguenza come limitazione concreta dei beni posseduti, può essere intesa come sobrietà e come occasione per cambiare la qualità della vita puntando su un modello non più puramente quantitativo. La sobrietà è per il gusto delle cose, non lo è l’abbondanza e l’accumulo.
Cambiare la qualità della vita significa cambiare la qualità dei rapporti dell’uomo con se stesso, con gli altri; è la scelta di essere liberi nei confronti del mondo e del suo dominio e di usare dei beni senza dipendere o essere da essi consumati; liberi come forma di un cuore affrancato dalla schiavitù dell’egoismo nelle sue molteplici forme.
Quando poi la libertà dai beni è vissuta come carisma porta o potenzia in se stessi o attorno a sé la gratuità, quella che fa fiorire il non ancora e che migliora il mondo. È la vita segnata dalla gratuità che attira lo sguardo dei poveri, uno sguardo che rende il carisma vivo, non lo fa morire né diventare una semplice istituzione.
Dopo quanto detto non rimane che una domanda ricca di attesa: quando la vita religiosa potrà essere vista come laboratorio nel quale ogni persona, credente o no, possa imparare la libertà e aprirsi alla giustizia, alla condivisione, alla sobrietà, alla gratuità?
Rino Cozza csj