Migrazione e nomadismo
2019/9, p. 30
Il frutto della maturazione avvenuta in questi anni ci ha
portato a capire che il cielo sopra il giardino di casa è
troppo piccolo per contenere la nostra chiamata
all’universalità, per cui il nostro dover essere è nella terra
di tutti, al fine di far aumentare i processi di integrazione.
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Testimoni
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L’identità della VC
MIGRAZIONE
E NOMADISMO
Il frutto della maturazione avvenuta in questi anni ci ha portato a capire che il cielo sopra il giardino di casa è troppo piccolo per contenere la nostra chiamata all’universalità, per cui il nostro dover essere è nella terra di tutti, al fine di far aumentare i processi di integrazione.
Nella logica della parabola umana ogni organismo cresce, invecchia e muore. Dunque, per sua natura, ogni cultura storica va verso la fine, a meno che abbia saputo generare tracce di cui altri si possano servire per nuove inculturazioni. In questa situazione non rimane che chiedersi se ora la scelta migliore sia quella di lasciarsi andare alla deriva, oppure quella di gettare l’àncora per avere la possibilità di ripensare radicalmente la rotta sulla forza dell'esperienza vissuta, oltre che per la forza di una qualche nuova intuizione di fondo. La risposta è nell’indicazione del Papa: «Uscite» perché è necessario essere una Chiesa che trova nuove strade.
Gli attuali recinti mentali sono dati da ortodossie i cui contorni teologici ed etici risultano oggi oltre misura sfuocati, o peggio costruiscono «certezze che possono diventare un muro, un carcere che imprigiona lo spirito Santo». In questo caso l’uscita consisterà nel «saper lasciare le vie di quelle epoche in cui il pensiero era chiuso, rigido, istruttivo-ascetico invece che mistico». Nel discorso all’unione internazionale delle madri generali, il Papa disse: «Vivete il cambiamento delle vostre comunità con gioia, e non come un male necessario per la conservazione perché la VC è come l’acqua, se stagnante imputridisce».
Per questo «andare oltre», dovrebbe esserci di aiuto la teologia dei segni dei tempi, la quale oggi ci viene incontro proponendoci l’urgente ridefinizione identitaria attraverso alcune migrazioni che qui di seguito prendo in esame.
Da identità “esclusiva”
a identità “comunicativa”
Nel corso degli anni, la VC è andata nutrendosi di una teologia «salvaguardata» anziché «inculturata», che l’ha portata a essere sempre più orientata a se stessa, contribuendo a far sì che i religiosi e le religiose venissero visti – dice il Papa – come «una casta di diversi che lentamente si separano differenziandosi dal suo popolo, facendo dell’identità una questione di superiorità». In queste parole è evidente l’invito ad accettare la sfida della mistica del “vivere insieme" ossia di mescolarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, vera esperienza di fraternità, perché i carismi non sono in funzione della separatezza ma sono i modi di essere insieme Chiesa. È il mettersi in rapporto che permette alla realtà di parlarci e renderci capaci di compiere un discernimento continuo tra ciò che nelle nostre prassi mentali e comportamentali è ormai morto e ciò che invece è gravido di futuro. Così facendo si capisce meglio di essere mandati per una comunità più grande della propria: quella di tutti.
Il frutto della maturazione avvenuta in questi anni ci ha portato a capire che il cielo sopra il giardino di casa è troppo piccolo per contenere la nostra chiamata all’universalità, per cui il nostro dover essere è nella terra di tutti, al fine di far aumentare i processi di integrazione. Da qui la necessità di «smarcarci da ogni schema dai confini troppo netti, marcati tra un "dentro" e un “fuori” che dovrebbe sancire l'appartenenza alla nostra realtà», per il fatto che «le forme troppo giuridiche prima o dopo soffocano la propria realtà».Ad una Chiesa chiamata a essere perennemente in uscita, dunque sognatrice, le forme troppo giuridiche, prima o poi, scrive A.Riccardi soffocano la vita: «Mi fa paura guardare la vita, la gente e la storia attraverso gli occhiali di un codice di princìpi».
Da identità “istituzionale”
a identità “movimentista”
È avvenuto che nella sua storia, la VC ha fatto proprie, acriticamente, quelle forme organizzative e di governo che la Chiesa, altrettanto acriticamente, via-via si era data, mutuando dalle forme a struttura spiccatamente gerarchica, portandosi a sistemi organizzativi complessi, inevitabilmente caratterizzati da spinte che creano dipendenza. Oltre che di questo la VC è anche vittima dell’esito di un processo istituzionale – malato in quanto religioso – portato ad essere maggiormente interessato a una vita consacrata «professionalizzata», dimenticando che «fondamentale per la VC non è prima di tutto l’efficienza caritativa delle opere ma la capacità di creare spazi di incontro dove Dio possa essere sperimentato pure oggi». Di conseguenza non ci si può ora stupire se ci troviamo esauriti per quanto andiamo facendo forse con un attivismo alienante, ma carenti nel far vedere il Signore con una vita realizzata in Dio. È forse questa consapevolezza che fece dire al card. Martini: «Non ci stiamo forse limitando mediante i vincoli dell’istituzione che sa di funzionalismo e per nulla di profezia?». Da qui la domanda: la possibilità di ri-significare la VC sta forse nel rafforzare l’istituzione o nel negarla in quel tanto di necessario perché possa far trasparire evidente l’identità carismatica? Nel documento della VC “Scrutate” si legge: «per narrare l’uomo sognato da Cristo, è evangelico destrutturare modelli senza vita». Certamente le istituzioni sono uno straordinario patrimonio di intelligenza collettiva, da cui non possiamo prescindere, ma è altrettanto vero che l’istituzione, tutta presa dal rendere efficiente l’organizzazione, è portata a «servirsi» delle persone piuttosto che a «servirle».
J. Ratzinger da giovane professore di teologia descriveva così il futuro della chiesa: «Quando non si sarà più in grado di abitare gli edifici costruiti in tempi di prosperità… si ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da minoranze che rimetteranno la fede al centro dell’esperienza». Successivamente, da Papa disse: «è tempo di più Spirito Santo e meno organizzazione». Il riferimento all’istituzione fa trasparire la consapevolezza che nell’attuale cultura si impone in modo sempre più forte, la posizione di preminenza del soggetto, il quale non ama i sistemi organizzativi che richiedono adesioni spersonalizzanti o che creano sudditanza. Pensava dunque a una molteplicità di mondi vitali con identità movimentista, cioè con una configurazione meno gerarchico-istituzionale, meno verticistica e più sinodale, «traduzione concreta dei principi di partecipazione, di comunione, di solidarietà».
Per meglio far intravedere alcuni elementi di identità movimentista mi soffermo, per esemplificare, su alcune tipicità di una comunità (quella di s.Egidio), che – con i possibili adeguamenti alle diversità carismatiche – possono essere paradigmatiche anche per altre varie forme movimentiste che nutrite di preghiera fatta di ascolto della Parola, si fanno carne nelle scelte quotidiane.
Uno dei punti caratterizzanti– dice il fondatore A. Riccardi – sta nella consapevolezza che se il cristianesimo è “uscita” dalla religione del levita e del sacerdote, non ci si può esimere dal camminare per strada come fa il Samaritano per mettersi al servizio dell'uomo ferito nello spirito o nel corpo.
A partire da questi presupposti la comunità offre speranza di un futuro migliore, a chi ne ha bisogno, con il riabilitare le risorse di umanità depositate in fondo all'anima della gente, risvegliare l'attitudine alla relazione, la disponibilità all'amicizia: è la spiritualità di prolungare la moltiplicazione dei pani e dei pesci dove il miracolo sta nel far circolare le poche risorse che ci sono o anche le risorse di pochi per farle bastare per tutti.
Altra particolarità è che nella comunità si relativizza la distanza tra chi è membro e chi non lo è, arrivando a comprendere che i poveri non sono utenti o assistiti della comunità, ma che in essa hanno un ministero; in essa sono protagonisti, vicari di Cristo; gente che aiuta la comunità ad aiutare: è un contagio virtuoso.
Infine, nella comunità la formazione è conseguente al credere che l’uomo attuale non arriva alla fede seguendo la strada dell’acquisizione di conoscenze, ma solo attraverso la via delle esperienze che fa, e che lo conducono a una decisione personale. Per cui quando ci si inserisce dentro una storia, per il mistero della comunione non si ha bisogno di fare un noviziato, in cui si spiega tutto quello che è successo e si studiano tutti gli scritti dei fondatori e altre cose del genere: ci si inserisce, piuttosto in una storia, attraverso la comunione; leggi il Vangelo, servi i poveri e capisci. Ci si siede sulle spalle dei «giganti» e si guarda in avanti. Insieme: chi è arrivato alla prima ora e chi nell'ultima.
Da una spiritualità compassata
a una che incarni prospettive cristologiche
È tempo di nuovi modelli di spiritualità personale e collettiva, non più sintonizzati sui parametri di una perfezione troppo debitrice al modello astorico del platonismo e dello stoicismo, e sovraccarichi di forme devozionali proprie di un’altra epoca, ripetute acriticamente. Si tratta allora di rivedere gli schemi di spiritualità e comportamenti che hanno portato i religiosi a essere riconosciuti come solitari campioni di un ascetismo defilato rispetto alla vita, alla corporeità e alla storicità dell’uomo. Ora serve uno schema che per essere veramente nuovo dovrà generarsi da un ascolto sistematico della Parola di Dio, accolta al centro del convenire assieme, sentita come lampada per i nostri passi.
Parola che si fa preghiera, vale a dire dialogo, ascolto, silenzio, incontro d’anima e grido del cuore nei confronti di Colui che è la fonte di tutto ciò che è vita. Una preghiera in grado di curare lo sguardo con un collirio particolare, che è il collirio della commozione. Le risorse migliori sono quelle messe in moto da uno sguardo commosso (il samaritano vide e si commosse). Questo dovrebbe essere il tratto fondamentale del cristiano e in particolare del religioso che vive nel mondo. È la commozione che permette di non distrarsi rispetto alla vita che corre, e spinge ad avvicinarsi agli altri, di conoscerne e di condividerne le debolezze e i limiti.
A tal fine non è più sufficiente una spiritualità "da consacrati" ma serve una spiritualità fornita di prospettiva laicale, cioè di «popolo di Dio» (laikos), irrinunciabile nell’attuale sensibilità ecclesiale. Vale a dire la spiritualità di chi è radicato in modo profondo all'oggi della storia, per incarnare nel mondo le nuove prospettive cristologiche: il liberatore, il guaritore, l’uomo per gli altri, il dissacratore di tabù, l’uomo libero e pieno di empatia. È questa la spiritualità di colui che va formandosi alla libertà come fedeltà matura, come immaginazione in grado di percepire nuovi sentieri dello Spirito, che relativizza idolatrie pseudo religiose.
E in particolare è questa la spiritualità capace di generare solidarietà, parola molto significativa, che suona come la traduzione laica del termine carità, quella che porta a guardare alle povertà come qualcosa per cui vivere con sapore, da cui traspaia una vita secondo Dio, capace di generare alcune virtù sociali, quali verità, responsabilità, libertà, dignità, pace, reciprocità, legalità, tolleranza, cultura della speranza e della vita.
In queste considerazioni mi è stato di aiuto ciò che mi scrisse un monaco: «continuo a pensare quanto sarebbe opportuno un monachesimo che mentre ti aiuta con tanti mezzi a cogliere la radicalità delle esigenze del vangelo, dall’altro possa essere giocato là, in mezzo ai peccatori, peccatore io stesso, semplicemente stando in mezzo. Anzi aiutato proprio da tanti strumenti che aiutano la vita spirituale a crescere, trovare in questi strumenti la forza e le motivazioni per sostenere la scelta di stare là, in mezzo. E in mezzo per stare sotto, per vivere insieme il nostro essere figli di Dio. Davvero non riesco più a pensare la via della vita monastica come via di perfezione. Penso che davvero si possa pensare diversamente l’esigenza di “separazione” che è implicita nel concetto stesso di “consacrazione”. È un pensiero che mi ha sempre accompagnato nel ritenere che un modo di vivere la separazione è quello di vivere come compagno in comunione con chi dal mondo è separato perché rigettato, a volte non senza qualche motivo, prescindendo da tutto».
Rino Cozza csj