Lasciare che la storia ci parli
2019/7, p. 29
Scappare dalla realtà è come vivere in una bolla, forti solo
del proprio consolidato quasi che la vita con il suo
continuo divenire non c’entri. Da qui la situazione di crisi
di persone, di progetti, di linguaggi, di rapporti, di
leadership.
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Per una vita carismatica e profetica
LASCIARE
CHE LA STORIA CI PARLI
Scappare dalla realtà è come vivere in una bolla, forti solo del proprio consolidato quasi che la vita con il suo continuo divenire non c’entri. Da qui la situazione di crisi di persone, di progetti, di linguaggi, di rapporti, di leadership.
È sotto gli occhi di tutti che nella vita religiosa di questi ultimi sessant’anni, la conclamata «fedeltà creativa» o profezia, nei fatti si è espressa prevalentemente in interventi di sopravvivenza, ma non di “progresso”, perché «irretita nell’ immaginario dell’organizzazione e dell’efficienza», portandosi così a essere carente di stupore, meraviglia, gioia, speranza. Questo è conseguenza del trovarci –scrive J.Maria Vigil, cmf – in una situazione di cattività istituzionale, mentre per sua natura la VC dovrebbe essere chiaramente e perennemente carismatica e profetica.
A soffrirne è la vita di quei religiosi e religiose che si ritrovano nel dire di una giovane suora: «Che senso ha oggi abbracciare un genere di vita in cui tutto, dal pensare al parlare, dal modo di pregare al modo di rapportarsi agli altri, rimanda ad usi e costumi di epoche lontane?»
C’è dunque da prendere atto della fine di quei sistemi istituzionali pensati per mantenere, conservare ed esportare e non per gestire la trasformazione; fine di quei sistemi concepiti per contesti sostanzialmente rurali, dalle trasformazioni lente, e non per contesti multiformi e vigili.
Non scappare dalla realtà
per permetterle di parlarci
La storia cammina veloce, non tenerne il passo conduce ad essere portatori di una cultura residua, sbiadita. È ciò che sta avvenendo per tutte le grandi e piccole narrazioni di senso che per secoli hanno guidato l’umanità portandole a una situazione in cui sembra che la realtà non parli più a loro.
Scappare dalla realtà è come vivere in una bolla, forti solo del proprio consolidato quasi che la vita con il suo continuo divenire non c’entri. Da qui la situazione di crisi di persone, di progetti, di linguaggi, di rapporti, di leadership.
È tempo allora di non pretendere di dominare i cambiamenti, ma di servire la vita che il Signore continua a suscitare, della quale stiamo capendo la direzione ma non abbiamo ancora messo a punto soluzioni concrete.
Per dare senso al suo modo di essere - scrive M. Tenace - la VC deve concretamente rivisitare il suo modo di stare nell’attuale realtà, così distante da quella in cui è nata. A tal fine servono itinerari formativi intesi non solo come acquisizione di nozioni tramandate, ma come ricostruzione di significati che aiutino a far sintesi tra il saputo e le domande tipiche di questa epoca.
Non è più possibile rigettare la storia. C’è rigetto quando non si ha il coraggio di andare per le strade che la novità di Dio offre o quando ci si difende serrati in strutture mentali caduche che hanno perso la capacità di reinventare la vita con ciò che la vita oggettivamente mette a disposizione. C’è rifiuto della storia quando in tempo di post-modernità, non si prendono le distanze da forme sociali di impronta teocratica, cioè da un sistema sacralizzato, categorico, ostentato, con forme di governo più sul versante istituzionale che del servizio alla persona.
C’è rigetto quando la comunità diventa un gruppo di “eletti” che guardano a se stessi, arenati a motivo delle ormai deculturate funzioni storiche, a cui si accompagna la crisi numerica di membri su cui contare.
Riconsiderare la teologia della VCnei suoi elementi costitutivi»
La tradizione teologica di una realtà vivente non sta nella trasmissione materiale di un contenuto ripreso tale e quale negli anni; ma è la vita di un principio attraverso tutta la sua storia, poiché tutto è storia». Allora dire che il significato di una proposizione teologica espressa in un dato momento sia irreformabile è bloccare il paradigma ermeneutico, vale a dire il cammino verso una più piena verità.
Ciò che della teologia è oggi particolarmente rifiutato è la pretesa di forzare l’intelligenza ad assumere come norma lo stile di nozioni certe, lineari, inconfutabili, non attente all’evolversi dei bisogni. Per troppo tempo la teologia della VC si è attardata in discorsi estetici sui suoi ideali, quasi che il compito della Chiesa fosse comunicare delle idee piuttosto che una persona vivente, apportatrice di speranza. I valori sottesi nelle istanze teologiche, nell’attuale cultura non hanno altra possibilità che essere presentati come il dono di una verità evangelica che non umili la ragione, non essendo più ammissibile, per l’uomo d’oggi, abiurare alla ragione a proposito di questioni legate al senso della propria esistenza: solo risposte ragionevoli possono essere adeguate a domande poste dalla ragione.
La teologia deve ritrovare la credibilità innanzitutto nel porre al primo posto il significato biblico di verità, privilegiandolo rispetto al significato dottrinale, e ospitando una visione dinamica della verità e non più statica. Le nuove generazioni non amano niente di ciò che in campo religioso, viene presentato dogmaticamente, vale a dire in termini imperativi, normativi, inglobanti o autoritari. Scrive un giovane: «A noi interessa la “vita” più che la proclamazione di principi “alti” calati in adempimenti dalle tinte fondamentaliste ed arcaiche».
Nella vita religiosa sembrava essere soprattutto l’imperativo del “dovere”, della norma, della sacra osservanza ad essere espressione della fede e dunque della verità, mentre il giusto interprete della verità della fede non può che essere – come soleva dire Urs von Balthasar – l’amore fraterno di persone il cui modo di vivere faccia trasparire «che credere non è un farsi imbrigliare l’umanità, la corporeità, la vitalità, la bellezza, la spontaneità, ma semmai farla esplodere in pienezza». Il monaco F. Mosconi nel commentare la prima lettera di Pietro disse: “Santità significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio».
Non è detto che i «valori» anche quelli sottesi alla vita consacrata non possano essere accolti dai giovani; non lo sono le formulazioni in cui i valori spesso vengono declinati non tenendo in debito conto che «non è più possibile che l’istituzione venga prima della persona, che la legge venga prima della coscienza, che l’obbedienza venga prima della libertà». Diceva Etty Hillesum: «Non ha o non trasmette senso tutto ciò che non è manifestazione di una sana soggettività».
A questo punto, penso che la teologia debba innanzitutto capovolgere il tragitto: partire dall'oggi, che è la cosa più concreta in cui siamo immersi, per vedere quale risposta teologico-carismatica possiamo dare a delle istanze profondamente evangeliche, piuttosto che elaborare premesse spirituali, teologiche carismatiche per poi calarle sull'oggi.
Nuova prospettiva di VC
da situazioni inedite
La novità del Concilio è consistita, in gran parte, nell’ammettere che è nel grembo di un dato momento della storia che c’è il seme generativo che dà corpo al «vero» e al «buono» di ogni nuova stagione. Dunque ogni momento della storia non è il punto fermo di un cammino, per cui la verità è sempre e necessariamente apertura ad un processo evolutivo che implica l’irruzione di situazioni inedite: la verità non si possiede ma la si cerca attraverso i segni iscritti nelle pieghe del tempo (segni dei tempi).
L’attuale VC sembra non avere questa consapevolezza. Lo si coglie dagli atti capitolari di quasi tutti gli Istituti i cui canonici accadimenti sessennali pur spinti dall’intento di squarciare il futuro terminano con ineccepibili verità virtuali espresse con parole senza molto senso per l’attuale sensibilità culturale. D'altronde non può essere diversamente perché i Capitoli sono diventati, volenti o meno, luoghi convenzionali, ricchi di “saputo"» o di «messa a norma», quando invece la novità per essere a casa nel tempo, è fuori dal convenzionale, perché inadeguato ai fini della vita che corre.
Se nel passato la continuità era data dalla immutabilità, per questa generazione la sopravvivenza è data dalla capacità di mettersi in gioco senza reiterazioni del passato da parte di gente interrogata non solo dall’eterno ma anche dal presente. Il suo futuro sarà allora in diversificate forme espressive, che siano il riflesso di qualcosa che è mutato nei rapporti Chiesamondo, persona-istituzione, sacro-profano. Diversamente, la figura del religioso/a, corre il rischio di essere messa fuori dal gioco della vita, come si intravede nel dire di una religiosa: «Amo la vita, amo Dio, amo il suo amore, amo la gente ma non riesco più a trovare il senso di questo nostro modo di vivere e di operare come religiose».
«La fedeltà sta nella qualità della «sequela»
oppure nella continuità della forma?»
L’attuale situazione di mondo interdipendente sollecita la ridefinizione di tante figure storico-culturali di identità.
Che ne sarà dei nostri carismi giunti al punto in cui «l’universo simbolico del passato è in contrasto con l’attuale cultura?
Scriveva B.Secondin già oltre dieci anni fa: «una certa forma di vita religiosa intesa come organizzazione compatta, articolata, controllata, minuziosa e insieme multinazionale, chiesa nella Chiesa, autoreferenziale in quasi tutto, credo che stia andando a termine».
Dopo il Concilio ci troviamo con forme di vita evangelica caratterizzate da una grande bio-diversità. Ad aprire nuovi cammini discepolari particolarmente attrattivi, furono coloro che per primi hanno saputo sentire ciò che era vivo nel cuore del mondo, anche al di fuori dello spazio del sacro, per cui con la gioia di prendere il largo, abbandonarono la dimensione securizzante delle strade spianate, già da molti anni fissate nei modi e nei linguaggi.
Oggi siamo chiamati al coraggio di abitare nuovi orizzonti con il saper imparare gli uni dagli altri, diventando compagni di strada, facendo nostro l’invito del card. Suhardne al Sinodo sulla «nuova evangelizzazione», a mutuare da quanti (nuove aggregazioni ecclesiali, movimenti ecc.) vanno alla ricerca di spiritualità depositarie di universi simbolici che possano dare un sovrappiù di senso alla vita. In varie occasioni anche papa Ratzinger parlando dei movimenti, ebbe a dire che in questi ci sono dei tratti di universalità che vanno valorizzati anche dalle altre forme discepolari, perché attingono a categorie della contemporaneità nelle forme di approccio e di comunicazione, di spontaneità e di immediatezza. In particolare la forma attuale della vita religiosa non potrà sopravvivere se non saprà attestarsi sul fronte di quella liberazione e promozione della dignità di ogni uomo e donna che comporta il pieno sviluppo di tutte le loro capacità.
«Mettiamo invece a dimora granelli di senape,
in cui brilli l’intensità del segno»
Nel tempo di desertificazione spirituale, ci si deve interrogare circa il “dove” siamo chiamati a stare: in alto? irretiti nell’immaginario della grandezza, dell’organizzazione, dell’efficienza oppure fra la gente, integrati nelle relazioni significative facilitatrici di fermentazione evangelica? La principale propensione della VC dovrebbe stare nel saper cogliere i segni di Dio nella realtà del mondo, abilitandosi a leggere le domande profonde, inespresse, per collegarle alle proposte del Vangelo.
La vita religiosa del futuro – scrive fr. J.R.Carballo – «si misurerà essenzialmente per la sua qualità evangelica», il cui primo segnale è nella bellezza di una vita che non è data dalla religiosità ma dalla fede, da cui scaturisce l’etica che chiama a essere un prolungamento delle azioni di Cristo, risonanza delle sue parole, moltiplicazione delle sua tenerezza. Ciò significa che il senso del nostro essere è nel narrare con la vita il Gesù delle azioni guarenti, simboliche e trasformatrici, avendo intravisto che Dio stesso non è un concetto ma è il cuore dolce, forte e caldo della vita.
Da qui il dire di una relatrice del convegno internazionale sulla VC: «Cambiate il vostro atteggiamento di perpetui donatori e sentitevi viandanti con coloro che camminano, e cercatori con coloro che cercano». Per questo fine servono scelte evangeliche osate nello stile dell’umile e del piccolo, come risposta suscitata dallo Spirito ad una sfida di un dato momento storico. È la contemporaneità il paradigma in grado di reinterpretare l’evangelo, liberandolo dal conformismo abitudinario ed artefatto. Il credere di cui oggi si va alla ricerca è quello - come direbbe Kierkegaard - di «porsi positivamente, da contemporanei, con il Cristo». In particolare le fraternità discepolari dovranno riscoprirsi come comunità traduttrici della fede oggi, mettendo al centro la Parola di Dio letta in un fecondo rapporto tra testo e contesto sociale, culturale, ecclesiale». Fraternità che nel territorio abbiano la capacità di «contaminarsi» fecondamente con mondi, linguaggi, volti, senza chiudersi nelle proprie auto-rassicuranti prospettive e nei propri abituali linguaggi.
Rino Cozza csj