La tenerezza nel vangelo di Marco
2019/6, p. 46
Manicardi, sacerdote della diocesi
di Carpi, rettore del Capranica
e docente alla Gregoriana, offre
una articolata riflessione sul tema
della tenerezza. Spesso “screditata come
virtù dei deboli” o vissuta a bassi
profili, “la tenerezza è un grande bisogno
del nostro tempo, il correttivo a
una globalizzazione che ha reso troppo
formali non pochi rapporti”. Fonte
per la riflessione è il vangelo di
Marco.
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NOVITà LIBRARIA
LA TENEREZZA
NEL VANGELO DI MARCO
Manicardi, sacerdote della diocesi di Carpi, rettore del Capranica e docente alla Gregoriana, offre una articolata riflessione sul tema della tenerezza. Spesso “screditata come virtù dei deboli” o vissuta a bassi profili, “la tenerezza è un grande bisogno del nostro tempo, il correttivo a una globalizzazione che ha reso troppo formali non pochi rapporti”. Fonte per la riflessione è il vangelo di Marco.
Quando il ramo
diventa tenero
Nella parabola del fico (Mc 13,24-32) Gesù presenta un paradigma di tenerezza particolarmente educativo: «Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l'estate è vicina». La lezione che Gesù vuole dare con queste sue parole, è quella della giusta reazione al tempo e ai suoi segni. La maturazione di un essere vivente è infatti connessa col tempo, sia nel suo semplice trascorrere sia nelle trasformazioni che il tempo inevitabilmente produce. Perché la tenerezza maturi, è necessaria la collaborazione del soggetto, ma è anche conseguenza dell'accoglienza di quanto viene dall'ambiente esterno. La metafora dell'arrivo dell'estate allude chiaramente a una variazione che viene da Dio e dalla sua azione nel tempo. Contemporaneamente, però, la tenerezza di quel ramo è dovuta al fatto che la pianta si mantiene ben esposta, sa girarsi verso il caldo, è in grado di assorbire bene la situazione che la circonda e di farsene coinvolgere adeguatamente. Sul piano umano, la tenerezza proviene in definitiva anche dalla capacità di saper accogliere le situazioni esterne, di riuscire a utilizzare il tempo accettando con spontanea simpatia i suoi «segni», lasciandosi toccare positivamente dai cambiamenti.
Tenerezza
come dono
Un’altra grande testimonianza di tenerezza può essere colta in modo particolare nel racconto evangelico dell’Ultima cena di Gesù (Mc 14,17-25). Il dono del proprio corpo nella forma del pane spezzato e offerto come cibo, è il prendere in mano tutto se stessi e il donarsi completo, con una generosità senza sconti. Il corpo, che sta per morire sulla croce, viene consegnato alla vita dei discepoli: questo dono è un cibo che li custodirà e li farà vivere. In maniera complementare, anche il corpo di Gesù non morirà semplicemente sul patibolo romano degli schiavi, ma sarà così custodito nell'esistenza dei discepoli e potrà continuare a vivere in loro sulla terra. Il collegamento marciano tra dono del proprio corpo e tenerezza provata da Gesù diventa ancora più evidente se si leggono in parallelo la seconda moltiplicazione dei pani (Mc 8,1-9) e l'Ultima cena.
Tenerezza
e cuore indurito
Un successivo apporto della narrazione dell’evangelista Marco alla riflessione sulla tenerezza è il costante richiamo al pericolo del cuore indurito. La folla e i discepoli sono descritti spesso come “rovinosamente bloccati dall'indurimento del loro cuore”. Un ulteriore modello di tenerezza — accanto a quello della capacità di fare largo, nel proprio spazio, a un altro di cui si percepisce un bisogno tanto importante quanto i nostri diritti e le nostre libertà — è quello del discepolo che supera l'indurimento originario del proprio cuore e riesce a comprendere e ad accogliere il dono portato da Gesù. Una tale comprensione, però, si realizza soltanto dove accada un ascolto veramente capace di «tirarci fuori da noi stessi». La conferma di quanto ciò sia difficile ma, al tempo stesso, possibile è data dalla parabola del seminatore (Mc 4,1-20). Un terzo modello di tenerezza è quello rappresentato dalla stagionatura di una persona che sa crescere, maturare e invecchiare. Il discepolo ha sempre bisogno di continuare a maturare, perché c'è senza dubbio un necessario processo di interiorizzazione, che esige tempi lunghi. Inoltre ognuno di noi incontra un incessante variare di situazioni esterne, di culture, di collocazioni personali differenziate che possono aiutare a comprendere di più e a maturare meglio. Il maturare alla luce del susseguirsi delle stagioni culturali è un passo importante per riuscire nel passaggio dall'emozione e dal sentimento alla virtù della tenerezza. In questo senso non solo “si escludono sdolcinature fuori luogo, ma anche ogni imprecisione etica e ogni ambigua connivenza”. Proprio su questo punto talvolta la tenerezza ha dei nemici, che suppongono che la commozione su di una persona possa condurre a sconti sulla sua condotta, con mosse ambigue, diseducative e colpevoli.
Le parole che, al culmine della narrazione marciana, le donne trasmettono ai discepoli — «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto» (16,7) — mostrano che la risurrezione è una forza che non solo interessa la corporeità di Gesù ma si estende all'esistenza dei discepoli come forza che li rende capaci di riprendere la sequela dietro di lui. La rinascita del discepolato avviene perciò nel clima di una rinata circolarità della tenerezza. “Se sono piante diventate tenere, i discepoli di Gesù metteranno fuori rametti che, in ogni tempo, sono preparazione e inizio concreto del futuro”.
Anna Maria Gellini