Cencini Amedeo
Uomini e donne insieme per il Regno
2019/6, p. 40
Una ragione buona per parlarne, con l’animo di chi si pone dinanzi a un fenomeno che può esser significativo e profetico, ma pure con il realismo di chi non si nasconde possibilità di equivoci e rischi.

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Il carisma della vita mista
UOMINI E DONNE
INSIEME PER IL REGNO
Una ragione buona per parlarne, con l’animo di chi si pone dinanzi a un fenomeno che può esser significativo e profetico, ma pure con il realismo di chi non si nasconde possibilità di equivoci e rischi.
È un elemento che caratterizza la vita di molte delle Nuove Forme di Vita Consacrata (NFVC), elemento di novità rispetto a una vita consacrata (VC) rigorosamente distinta in maschile e femminile, anche all’interno della medesima ispirazione carismatica. Oggi, invece, molti degli istituti o famiglie religiose che stanno nascendo adottano uno stile di vita mista.
Una ragione buona per parlarne, con l’animo di chi si pone dinanzi a un fenomeno che può esser significativo e profetico, ma pure con il realismo di chi non si nasconde possibilità di equivoci e rischi.
Altra premessa non secondaria: osservo il fenomeno dall’esterno, con la conoscenza e l’esperienza maturate accompagnando alcune di queste NFVC, ma in ogni caso senza il coinvolgimento di chi vive in prima persona tale stile di vita e ne ha conoscenza ed esperienza dirette.
Tratterò la questione, conseguentemente, solo da un punto di vista teorico, sperando di dare alcuni elementi utili per la comprensione del fenomeno.
Comunità mista: opportunità e attenzioni
Vivere insieme da consacrati, uomini e donne, appare a livello psicologico (la prospettiva nella quale io mi pongo), un problema double-face, con aspetti positivi e pure con qualche punto interrogativo.
Opportunità
A prima vista la cosa sembra naturale e persino conveniente. Semmai, da un punto di vista rigorosamente psicologico, la cosa strana sarebbe la convivenza determinata dalla stessa appartenenza di genere. Sembra molto più normale la comunità mista, che oltre a rispondere a un dato di natura, sul piano relazionale, dà una sensazione come di completezza a livello della personalità di ognuno, maschio o femmina, inevitabilmente arricchito dalla presenza e dalla convivenza con persone dell’altro sesso. Non solo, la diversità è anche provocante, fa venir fuori, quasi costringe, a esprimere rispettivamente la propria mascolinità e femminilità.
Un dato è certo: una certa omosessualità nel passato era favorita anche dalle convivenze di persone appartenenti allo stesso sesso (magari fin dai tempi della prima formazione). Non è sicuramente questo l’elemento che dà valore alle comunità miste, né la loro motivazione originaria, ma in ogni caso anche tale osservazione va nella linea della normalità di questa situazione che pure non è così tradizionalmente presente nelle varie esperienze comunitarie di VC.
Un altro dato positivo è che la convivenza uomo-donna normalmente arricchisce la qualità umana del vissuto, con conseguenze positive anche nell’ambito spirituale e relazionale, ad es., per quanto riguarda il discernimento, dunque le scelte da fare, la condivisione della Parola, l’interpretazione del carisma, la sua visibilità e capacità di attrazione, il rapporto con il mondo esterno, la ricchezza della proposta fatta dalla comunità, la sensibilità generale con cui s’affronta il vissuto… Una comunità mista dà un senso maggiore di completezza, che può facilitare la vita al suo interno e render più efficace la testimonianza all’esterno.
C’è un altro elemento che vorrei sottolineare: la convivenza armonica tra uomini e donne consacrati/e potrebbe assumere oggi, nel presente contesto liquido che rende liquidi anche i confini tra i sessi e giunge a misconoscere la naturale distinzione sessuale, un significato particolarmente attuale e preciso, come una risposta a tale confusione e indefinitezza. Risposta che sottolinea la ricchezza e bellezza del rapporto uomo-donna quand’è vissuto nella chiarezza della propria identità sessuale e nell’apertura reciproca all’apporto arricchente dell’altro. Ma imparare a vivere la reciprocità dei rapporti tra uomini e donne è un’urgenza anche nella Chiesa (vedi certi maschilismi ancora imperanti nella comunità credente).
Anzi, forse la dinamica relazionale che nasce da un progetto comune di consacrazione, alla cui origine c’è sempre la fantasia dello Spirito di Dio, consente anche di uscire da certi stereotipi al riguardo e di identificare nuove vie per vivere in pienezza la propria identità sessuale e provocare l’altro a fare altrettanto. imparare che sia nella società sia nella Chiesa.
Attenzione/i
Il dato positivo, comunque, va assunto con realismo. Voglio dire che al tempo stesso la convivenza pone problemi, chiede una particolare vigilanza, domanda per l’appunto molto realismo nella considerazione di quella normalissima attrazione che lega l’uomo alla donna.
Nessun allarmismo, solamente la consapevolezza che su questo occorre esser molto obiettivi e coerenti. L’ideale carismatico, infatti, non è detto che renda automaticamente le persone libere e mature, al punto da consentir loro qualsiasi tipo di condotta senza alcuna regola, e da non far sentire l’esigenza d’un serio cammino formativo, iniziale e permanente.
Anzi, potremmo dire che proprio la convivenza mista esige un più alto livello di maturità generale e affettivo-sessuale particolare.
La storia racconta che più di qualche volta una certa ingenuità al riguardo ha finito per creare presunzione e assenza di riflessione sulle piste di formazione, e minore attenzione alla condotta e al proprio mondo affettivo. Con conseguenze facilmente immaginabili.
Ma esiste anche la tendenza opposta. Quella di chi, di nuovo con una certa ingenuità (e non conoscenza dell’animo umano, in definitiva), pretende o s’illude di risolvere il problema con semplici accorgimenti di tipo disciplinare-comportamentale, ad es. stabilendo rigidi e innaturali confini tra i due gruppi in ogni contesto di vita, o creando di fatto una sorta di ossessione del pericolo o di paura dello scandalo, e rischiando alla fine di svuotare dall’interno il senso vero e nuovo dello stile di vita misto.
Ma vi possono esser altri rischi oltre quello affettivo-sessuale. Ad es. il rischio d’un certo predominio (leggi “potere”) del gruppo maschile, soprattutto laddove il maschile s’identifica con il ministero ordinato. E le donne che finiscono per ritrovarsi a preparare i pasti, fare le pulizie e stirare la biancheria.
O il pericolo, ancora, d’una sottile conflittualità, a volte implicita e nascosta, ma sempre reale, tra i due gruppi, e mai affrontata esplicitamente, con conseguenti rivendicazioni, risentimenti, nervosismi, dispetti e tensione sempre sul punto di esplodere. Insomma, non s’improvvisa la convivenza uomo-donna, nemmeno nella VC!
Vediamo allora di indicare qualche elemento che possa aiutare a intendere e vivere più autenticamente tale carisma della vita mista.
Condizioni e punti irrinunciabili
La tesi di fondo, già implicitamente enunciata, è che il convivere abituale di uomini e donne consacrati/e nella verginità chiede all’istituzione un’attenzione specifica al tema a partire anzitutto dalla formazione iniziale, e dunque la definizione di progetti formativi specifici.
A parer mio tali progetti dovrebbero esplicitamente prevedere piste educative attorno a questi temi.
Identità positiva e stabilecon stima di sé e conseguente senso di autonomia
Apparentemente questo non è un tema di tipo affettivo-sessuale, in realtà è il concetto-madre, nel quale nascono come conseguenza una ferma e solida identità sessuale, come vedremo meglio più avanti, e una capacità relazionale generica e poi specifica con l’altro sesso.
L’uomo, per altro, ha bisogno d’avere una percezione sostanzialmente positiva e stabile di sé, che gli venga dall’interno del proprio io, e non dall’esterno (dalla stima altrui o dai propri successi e risultati, dal ruolo o dallo status sociale o ecclesiale), fissata-radicata-costruita su quello che la persona è e su quel che è chiamata a essere, e sempre più edificata attorno alla relazione tra io attuale e io ideale. Di fatto tale percezione cresce grazie alla coerenza con cui il soggetto vive, o alla fedeltà con cui rispetta e conferma nella pratica della vita la propria identità.
La risposta piena e appagante a questo bisogno (cioè la sensazione d’una positività stabile e solida) dà alla persona equilibrio, autonomia e al tempo stesso capacità di relazione (senza “usare” l’altro), senso dei confini dell’io e del tu, capacità di riconoscere e apprezzare il proprio bene, e coraggio e onestà nel riconoscere e accettare i propri limiti, stima di sé e stima dell’altro (legata a quello che è, molto più che a quello che fa).
Particolarmente, in relazione con il nostro tema, tale soluzione del problema dell’identità-positività rende la persona solida sul piano affettivo, e non così bisognosa della stima e dell’apprezzamento altrui. Al contrario, chi non risolve tale problema diviene vulnerabile e dipendente dal punto di vista affettivo, ossia bisognoso ed estremamente sensibile a ogni segno di attenzione nei suoi confronti. Immaginiamoci cosa succede e cosa sente quando gli pare che qualcuno/a provi affetto o mostri interesse verso la sua persona. L’esperienza ci dice che la maggioranza delle crisi affettivo-sessuali del consacrato non sono di natura sessuale, ma nascono nell’area della (povera) stima di sé. In una comunità mista, dunque, un problema di identità potrebbe render ambigua la vita di relazione, esponendola al rischio d’un uso strumentale e compensativo.
Grammatica della sessualità
Altra esigenza per chi vive in un contesto misto è ricevere una vera e propria formazione a vivere positivamente la propria sessualità, a benedirla, per poi al suo interno fare una scelta di vita verginale. A volte una malintesa enfasi spiritualeggiante, unita a un certo manicheismo, ci fa assumere un atteggiamento negativo nei confronti della sessualità come fosse creazione diabolica.
È importante allora prendere atto di quanto ci dice l’analisi psicologica, secondo la quale la sessualità ha queste caratteristiche:
Energia
È anzitutto energia, qualcosa di estremamente prezioso che dà forza, dinamismo e creatività a ciò che facciamo, a ogni livello, anche spirituale e in rapporto con Dio; non è solo né primariamente qualcosa di oscuro e ambiguo, o tentazione diabolica. Quando la sessualità è vista in modo sospettoso o negativo ne soffre inevitabilmente la nostra umanità e il modo di vivere la nostra verginità: saremo forse celibi, allora, ma incapaci d’indicare la bellezza del celibato consacrato, o osservanti, ma senza la passione del cuore che suscita attrazione.
Energia relazionale…
È energia relazionale, che spinge ad aprirsi agli altri e impedisce il ripiegamento su di sé, o tutte quelle forme di autoerotismonarcisista, non solo genitale-sessuale, anche presbiterale. Il clericalismo, ad es., è sottile forma autoerotica, così come tante sue espressioni-variazioni in cui l’io è sempre al centro, come l’autoerotismo pastorale, intellettuale, liturgico, teologico, relazionale, gruppale-sociale, con discreto séguito di conseguenze molto negative per la vita di relazione: mania della carriera, bisogno di eccellere e di essere riconosciuti e promossi, attaccamento al ruolo, dipendenza dai risultati, aspettative irrealistiche, competitività, invidia e gelosia….
… aperta all’alterità
Terza caratteristica, la sessualità è energia che va nella direzione dell’alterità, ovvero provoca a vivere la relazione rispettando l’alterità-diversità del tu, senza ridurlo ai propri bisogni, interessi e pretese, e dando la libertà di rapportarsi a ciò e a chi è diverso dall’io, senza ricadere nelle varie forme di omologazione dell’altro, più o meno sottili e possibili anche nella vita del consacrato/a (fino a giungere a quella sessuale, all’omosessualità). Vedi tutti quei tentativi di rendere l’altro simile a sé nelle idee, gusti, tendenze…, di farlo proselito, direbbe papa Francesco; o come quella tendenza sempre clericale di chiudersi nel proprio gruppo, con chi mi dà ragione, con le 99 del recinto (senza cercare chi se ne va), di non confrontarsi mai con la diversità, a vari livelli, di evitare accuratamente le periferie, di ripetersi senza lasciarsi formare e provocare dalla diversità, di non aver mai nulla da imparare dall’altro,….
Potremmo qui vedere la radice di due devianze, oggi tutt’altro che eventuali: quella del potere maschile e quello della seduzione femminile. Entrambe quali forme di annullamento dell’altro e della sua alterità, ovvero della sua dignità e unicità.
… che crea complementarità
Ancora, l’energia affettivo-sessuale è ciò che consente di vivere la relazione non dall’alto (vedi tante forme più o meno subdole, passate e presenti, di potere clericale sulle donne), ma davvero in termini paritari e complementari, dando ognuno il proprio apporto e accogliendo-provocando quello altrui, quasi attivando nell’altro lo stesso dinamismo perché la relazione sia sempre qualcosa di originale e mai sterile.
Tale complementarità quand’è vissuta bene diventa un arricchimento anche per l’interpretazione del carisma, che non può che avvalersi d’un vissuto maschile e d’un vissuto femminile in dialogo serrato e costruttivo tra di loro.
Energia feconda
L’energia che caratterizza la sessualità è infine feconda, esattamente perché s’avvale dell’apporto di due persone uniche-singole-irripetibili. È l’ultima caratteristica della sessualità e quella che fa sintesi di tutte le altre: quando la relazione è vissuta in termini rispettosi di questa energia (affettivo-sessuale) lì nasce invariabilmente qualcosa di nuovo. Così per ogni relazione, e così dev’essere anche per la relazione del presbitero, altrimenti non c’è pastorale.
Ordo sexualitatis
Come si può ben vedere, l’impulso affettivo-sessuale ha una sua “grammatica”, una sua ratio o ordo, o una sua oggettività, con caratteristiche cui corrispondono modalità e atteggiamenti precisi che vanno decisamente in senso relazionale e che è interesse della persona osservare (l’oggettività salvaguarda la soggettività), con l’ascesi che questo naturalmente implica. Come non vedere una singolare sintonia tra questa prospettiva e l’antropologia cristiana? Benedire la sessualità (=coglierne e viverne la valenza positiva anche solo o anzitutto sul piano umano) è già creare equilibrio nella dinamica relazionale e nella vita affettivo-sessuale del consacrato/a, specie di chi ha scelto di vivere in una comunità mista.
Corretta tipificazione sessuale
Ovviamente è possibile una autentica vita “insieme” solo se gli elementi dell’insieme, uomini e donne, sono ben definiti, senza ombre d’incertezza a livello personale.
Come dice Bianchi «le sorelle siano donne di fronte ai fratelli e i fratelli siano uomini di fronte alle sorelle, perché questa differenza, fino a nuovo ordine del Regno, è essenziale e permanente».
Anche qui vale lo stesso principio già indicato: la condizione della vita mista esige ancor più, rispetto alla comunità tradizionale monosessuata, una identificazione precisa col proprio sesso d’appartenenza. Qualsiasi confusione al riguardo determinerebbe uno squilibrio relazionale, che potrebbe pregiudicare una delle finalità che si propone di raggiungere la comunità mista, cioè la relazione complementare tra uomini e donne. Per stabilire autentico dialogo occorre che i dialoganti siano ben piantati nella rispettiva identità e contenti di quello che sono. Il problema dell’identità e della stima di sé evidentemente passa anche attraverso la identità sessuale.
Capacità di gestione della vita emotiva
Altro punto importante in una dinamica di vita mista è la capacità della persona di gestire il proprio mondo interiore, quella che noi chiamiamo la sensibilità.
Il discorso ci porterebbe piuttosto lontano. Accontentiamoci di alcune note più essenziali. La sensibilità è quell’orientamento emotivo, e pure mentale e decisionale, impresso al nostro mondo interiore a vari livelli (le varie sensibilità) dal vissuto personale e in particolare dalle scelte della vita quotidiana. Tale orientamento, è fondamentale ricordare, non ci cade dal cielo, ovvero non esiste una sensibilità del tutto innata, che ognuno si ritrova dentro e su cui non ha alcun potere; al contrario, ognuno ha la sensibilità che si merita e che s’è costruito con le proprie scelte di ogni giorno, e in vari ambiti di vita (dalla sensibilità morale a quella credente, da quella intellettuale alla orante, da quella maschile a quella femminile…).
È nella sensibilità che nascono attrazioni, simpatie, desideri, affetti…, che – se gratificati con una decisione o con uno stile di vita corrispondente – a un certo punto possono anche condizionare la mente e divenire criteri abituali di scelta, criteri morali. E magari giustificare (agli occhi del soggetto) una certa condotta.
Per questo è indispensabile imparare a gestire-educare la propria sensibilità, in ognuna delle sue componenti: sensi (esterni e interni, sensazioni, emozioni, sentimenti, affetti, gusti, desideri, attrazioni, criteri di scelta, passioni…).
Criterio o punto di riferimento di questo processo formativo è l’identità del soggetto, ovvero la sensibilità deve essere in sintonia con la propria identità (= verità o vocazione).
Ora, se la nostra identità è quella di essere come il Figlio, allora il criterio formativo è evidente. D’altronde è quello che già Paolo aveva stupendamente intuito: “abbiate in voi gli stessi sentimenti (= sensibilità) di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Un principio chiarissimo a livello psicologico e spirituale. Per un impegno formativo che non potrà che durare tutta la vita. E che riguarda in egual maniera la formazione della sensibilità maschile e di quella femminile. Certamente in essa vi sono pure elementi innati, legati alla diversità sessuale, ma molto dipenderà da come il singolo consacrato, uomo o donna, cercherà di formare la propria sensibilità maschile o femminile. In altre parole, nessuno potrà giustificare quel che sente e poi attua (sensazioni, emozioni, sentimenti, gesti…) semplicemente perché maschio o femmina, ma dovrà domandarsi quanto la propria sensibilità è passata attraverso un percorso formativo e di conversione.
Insomma, occorre evangelizzare la sensibilità. In un cammino che darà un particolare tono e stile alle proprie relazioni incidendo sulla qualità della vita e sulla ricchezza della testimonianza individuale e comunitaria.
Questo è molto importante per una comunità mista, ma raramente –mi pare- è preso in considerazione.
Alcune indicazioni concrete
In ciò che segue mi permetto dare alcune semplici indicazioni molto concrete, che mi sembrano convenienti per l’organizzazione della vita nelle convivenze miste.
Non sono indicazioni assolute, ma semplici orientamenti.
La convivenza non sia un assoluto
Non credo che la convivenza debba diventare un assoluto, per cui tutto deve sempre e in ogni caso esser pensato, fatto, celebrato, consumato, interpretato, discusso… assieme. Attenti al rischio d’esser soffocati dal valore che si vuole vivere. Col rischio di smarrire una certa autonomia e capacità di giudizio e discernimento personale.
Ad esempio, certamente momento molto importante d’una comunità mista sono i pasti, o tempi di svago. Ma nulla di male se ogni tanto, una o due volte la settimana i pasti sono separati, e così alcuni momenti di svago. Come pure altri momenti significativi della vita d’una comunità consacrata.
Ogni comunità dovrebbe su questo operare un discernimento, cercando un giusto equilibrio anche attraverso tentativi e miglioramenti di rotta.
Non ricadere in alcuni stereotipi
La convivenza tra uomini e donne consacrati/e dovrebbe portare, come abbiamo visto, alla valorizzazione delle rispettive identità maschile e femminile, permettendo così di non ricadere in alcuni stereotipi culturali-sociali. Che non è purtroppo quel che è accaduto in alcune di queste comunità miste, in cui si è corso concretamente il rischio, come già accennato, che agli uomini venisse riservato un compito più direttivo o ministeriale (nel caso dei preti), o comunque più nobile e dignitoso, mentre le donne, di fatto, sono diventate le domestiche o le guardarobiere o quelle che provvedono ai servizi e lavori di casa e più umili. Sarebbe una contraddizione che non gioverebbe alla causa e alla sua novità.
In concreto, ferma restando la regola che gli incarichi devono esser affidati soprattutto in base alla capacità delle singole persone, e non della loro appartenenza di genere, è buona cosa, normalmente, che attività e lavori siano fatti il più possibile insieme, pur mantenendo attività e impegni personali e altri comunitari specifici per uomini o per donne, per valorizzare le diverse caratteristiche e attitudini dei diversi sessi.
In tal senso è bene che alcuni lavori di utilità comune possano essere distribuiti equamente anche tra gli uomini, per non lasciare alle donne in esclusiva un certo tipo di servizio casalingo che di fatto freni e riduca la loro capacità nell’annuncio (le donne prime annunciatrici della resurrezione di Gesù!) e la loro vocazione esplicitamente missionaria, specie in certi ambienti.
Così come dovrebb’esser sempre più normale prevedere anche per le donne la possibilità di ruoli di responsabilità in ambiti di azione comuni.
Formazione specifica
Altro punto rilevante è la garanzia d’una formazione specifica. Anzitutto nel senso della distinzione dei percorsi formativi, a cominciare dal responsabile d’essi: è preferibile, voglio dire, che vi sia una formatrice per le donne e un formatore per gli uomini, lo richiede quella comunanza di vedute e sintonia che facilita la comunicazione e la sensazione d’esser compreso/a dalla guida. Così come è bene che la formazione sia formazione specifica a vivere in una realtà mista, dia attenzione agli elementi fondamentali che garantiscono la convivenza serena e costruttiva tra i sessi, sia così realista da prevederne i rischi, o da contemplare la possibilità non così strana che possano capitare, ad es., situazioni di innamoramento o relazioni in qualche modo problematiche (gelosie sentimentali e dintorni), sia così personalizzata da intuire ed esplicitare la particolare disponibilità o meno del soggetto in formazione, anche in chiave di discernimento vocazionale. Attenti all’illusione di ridurre la formazione a un fenomeno di gruppo.
Sarebbe non solo ingenuo, ma pure pericoloso dare per scontata la libertà di vivere abitualmente in una comunità mista senz’alcun problema.
Formazione permanente
Il vivere in tale tipo di comunità esige un’attenzione costante: fin dall’inizio uno dev’esser aiutato e provocato a capire il perché di questo stile, quale significato esso abbia, per non correre il rischio di dargli un senso solo psicologico o di novità e originalità fine a se stessa. O perché, ancor peggio, non si disponga a viverlo come forma di sottile compensazione di bisogni psicologici irrisolti. Occorre caricare di senso spirituale-carismatico una opzione del genere. E dunque favorire anche tempi di dialogo approfondito e formazione specifica sui rapporti e sulle differenze uomo-donna e sulle difficoltà di relazione, in modo che la convivenza diventi davvero una crescita reciproca, una profezia di un modo diverso e non conflittuale di vivere insieme.
In tal senso è fondamentale curare la formazione dei formatori.
Amedeo Cencini, fdcc