Pontara Pederiva Maria Teresa
L'arte di "trasmettere"
2019/6, p. 34
Non ha bisogno di maestri l’acquisizione dell’arte di trasmettere, ma richiede un apprendimento permanente, che si snoda lungo tutto l’arco della vita. Chi trasmette diventa un costruttore di ponti per connettere culture e generazioni differenti.

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Un atto fondamentale tra generazioni
L’ARTE
DI «TRASMETTERE»
Non ha bisogno di maestri l’acquisizione dell’arte di trasmettere, ma richiede un apprendimento permanente, che si snoda lungo tutto l’arco della vita. Chi trasmette diventa un costruttore di ponti per connettere culture e generazioni differenti.
«Non c’è questione più urgente»: non usa mezze misure lo scrittore e critico letterario Emanuele Trevi nel presentare un breve saggio che l’editrice Qiqajon, per la Collana Sympathetika, pubblica con una foto di copertina che cattura l’attenzione e induce alla lettura: una manina di bimbo che si appoggia a quella di un adulto (padre, nonno?) e un titolo affascinante L’arte di trasmettere.
Autrice è NathalieSarthou-Lajus, PhD a San Francisco, già insegnante di filosofia nei licei francesi e, dal 2007, vicedirettrice di Etudes, la nota rivista di spiritualità e cultura dei gesuiti di Francia.
«È evidente che tutti noi viviamo oggi in una crisi della trasmissione», spiega Trevi in riferimento alla sfera della vita intellettuale e culturale, ma altresì in quella della vita privata e delle sue tonalità emotive fondamentali. Si tratta di una crisi che coinvolge tutti, dai genitori agli insegnanti, dai maestri spirituali ai legislatori e persino gli artisti. E dire che il concetto di futuro viene sempre associato a quanti sono più giovani, i quali però, almeno secondo la percezione diffusa, sembrano faticare più di ieri a “recepire” quanto trasmesso loro dagli adulti.
Forse è necessario intendersi sui termini, e qui entra in gioco la riflessione dell’autrice. Non è un trattato filosofico, come qualcuno potrebbe aspettarsi, e neppure un racconto esperienziale: piuttosto un misto di poesia e di psicologia (molti gli agganci alla spiritualità ignaziana) con tratti di vita vissuta e quel continuo rimando alle regole del rugby (sport che Nathalie ha praticato fin da bambina), con l’inseguimento dei volteggi della palla ovale, metafora della vita.
Trasmettere non è
insegnare, né educare
Filo conduttore è l’esperienza di figlia e poi di madre che si respira ad ogni passo (è diverso parlarne in prima persona o raccontarla «dall’esterno», men che meno inventarla, come accade talvolta nei blog). Un’esperienza sempre più fonte di riflessioni, allorquando i figli diventano grandi e si sperimenta la loro «partenza» tanto da farla concludere: «La vita intera mi è parsa come un figlio che parte».
Sappiamo tutti di essere eredi di qualcuno, collocati in un momento della storia che non è dipeso da noi: eredi senza alcun testamento. Superato il senso di vertigine, siamo però consapevoli di essere, a nostra volta, depositari di un’eredità alquanto incerta: ciononostante «non possiamo rinunciare al gesto di trasmettere», perché «senza trasmissione non c’è più memoria delle origini, non c’è più proiezione nel futuro, non c’è più cultura e noi cadiamo nella barbarie».
Ma c’è un’equivalenza da sfatare: «trasmettere» ed «educare» sono due atti che non si confondono, come spesso invece accade nell’immaginario comune.
Educare significa condurre fuori dallo stato di ignoranza e di dipendenza nell’intento di emancipare gli individui e far loro acquisire una serie di conoscenze, sviluppare attitudini e competenze.
Trasmettere indica, invece, che noi non siamo la nostra origine: noi riceviamo un’eredità da altri e quelli che ce la trasmettono l’hanno a loro volta ricevuta dalle generazioni precedenti.
Ma qui iniziano i problemi, perché «l’atto di trasmettere è un processo sempre aleatorio». Trasmettere non significa riprodurre il medesimo, ma, come accade per ogni nascita, suscitare e accettare la sorpresa. In quest’ottica ogni contenuto trasmesso non viene recepito alla stregua di un contenuto conoscitivo (ecco la grande differenza con l’educazione o l’insegnamento), ma viene ripreso in modo del tutto nuovo e personale nelle nuove generazioni.
Ogni madre sa che il figlio portato nel proprio utero per nove mesi, diventerà altro da sé e il suo destino consisterà proprio nell’allontanarsi e «partire». Anzi, sa bene che è pura illusione che un figlio adolescente anche solo «parli» del suo vissuto alla madre ed è del tutto anacronistico che lei, come ogni genitore, proietti su di lui le proprie attese. Perché il figlio è «altro» e si realizza pienamente solo al momento della partenza e del distacco. È la storia del figlio del Vangelo, che parte senza voltarsi indietro, o le parole di Gesù in croce – figlio «in partenza» – che indica a Giovanni: «Ecco tua madre».
Trasmettere
è aprire ai sogni
Una trasmissione autentica è solo quella in grado di spezzare il recinto e aprire all’ospitalità, quella che rende i figli capaci di partire, attrezzati per abbracciare il mondo. Un’azione difficile da accettare da parte di genitori immaturi o troppo rigidi, che preferirebbero riprodurre nel figlio il sé.
Eppure, è un loro moto del cuore e una convinzione della mente direttamente proporzionale alla crescita dei figli, alla loro capacità di «vivere» autonomi e di diventare pronti a trasmettere a loro volta, in un ciclo della vita che fa appello essenzialmente alla fiducia.
Non ha bisogno di maestri l’acquisizione dell’arte di trasmettere, ma richiede un apprendimento permanente, che si snoda cioè lungo tutto l’arco della vita, associato allo sguardo fiducioso dei passeurs, i passatori o meglio traghettatori, perché «nell’atto di trasmettere non si tratta semplicemente di informare o comunicare conoscenze, ma di far passare qualcosa di sé ad altri», qualcosa che gli altri recepiranno a loro modo e soprattutto a livello inedito e personale.
Di qui un interrogativo che molti stentano a fare proprio, soprattutto in Italia (in particolare le mamme troppo apprensive che si ritengono indispensabili nella vita di un figlio): «Chi diventerà grande se qualcuno prima di lui non ha formulato il desiderio della sua grandezza?». Indurre a volgersi altrove per ritrovare o rinforzare la fiducia che manca, significa conferire loro «un proprio potere, mutare riva e vincere la paura dell’ignoto». Per inseguire ciascuno i propri sogni.
È quella dimensione che l’autrice chiama «soglia» e il cui potere assume talvolta i connotati dello straordinario, come nelle raffigurazioni dell’Annunciazione del Beato Angelico, o su quel cancello o portone di casa dove due ragazzi innamorati si scambiano le ultime parole in un dialogo che non vorrebbe più aver termine («magia della soglia»).
Sulla soglia genitori e figli scoprono che possono vivere separati, senza angoscia. Nonostante ogni partenza sia strappo e lacerazione, non è più il momento di porsi domande: si parte e si lascia partire. Si prendono distanze, perché siamo esseri di passaggio e la soglia è «quella zona in cui anche amici e amanti si lasciano sì, ma per ricaricarsi nella certezza di ritrovare poi il piacere di stare insieme».
Trasmissione non è
conservazione
La conclusione di Nathalie non lascia spazio ad interpretazioni: «se oggi la trasmissione è diventata più incerta, è in primo luogo perché l’atto di trasmettere ha cambiato di significato». Abbiamo dimenticato il «gusto» della trasmissione, perché l’abbiamo male interpretata e ci siamo costruiti negli anni una sua rappresentazione conservatrice: in altre parole, pretendiamo una riproduzione identica dell’eredità e un restare nel posto che si è deciso essere il nostro una volta per tutte, senza chiedere il parere ad altri.
In tal modo i gusti dei figli, diversi dai propri, vengono contrastati con angoscia nel timore di veder scomparire l’eredità familiare. Un modello «deviato» e conservatore che sta alla base dell’individualismo di una società contemporanea dove il vuoto della trasmissione è altrettanto pesante oggi quanto lo è stato in passato l’eredità che veniva imposta dai padri o da quanti avevano la presunzione di essere «maestri».
Un disorientamento, quello attuale, che ha condotto al timore del superamento di qualunque soglia che diventa ostacolo insormontabile e paralizzante al punto da considerare ogni partenza come un evento inconsolabile e ogni trasmissione un indottrinamento che blocca la libertà di adesione individuale. Segno tangibile dell’insicurezza dei contenuti trasmessi: chi non è autentico passeur teme di veder morire o perdere per sempre i contenuti della sua sbagliata trasmissione, finendo inevitabilmente per cadere nella depressione e nello stato di accusa del mondo e del prossimo, in una negatività priva di risurrezione.
Senza una trasmissione corretta, che presume di un’adesione interiore e personale, l’eredità verrà solo percepita non come tesoro, bensì come un fardello, e lo vediamo accadere quotidianamente con la tradizione, la cultura e pure con la fede.
Non dimenticare mai – il consiglio si fa appello – il «gioco del passaggio», come avviene in ogni gioco dove esiste un pallone. Una serie di gesti che consiste nel «fecondare letteralmente il pallone, nel renderlo quasi vivente, in modo tale da portarlo come un tesoro tanto prezioso e imprevedibile quanto un neonato uscito dal grembo della madre».
Nel rugby, come in ogni altro gioco di squadra, ogni giocatore non può essere fecondo per il pallone, senza la collaborazione del gruppo: bisogna, pertanto, procedere a livello di collettivo dove ognuno dipende dall’altro, guardando avanti sì, senza però dimenticare chi è alle spalle. Non si esclude affatto la penetrazione o lo scatto solitario, che non è per se stessi, bensì per la squadra: come in una fraternità corale, si gioca per la maglia ed è motivo di sanzione il conservare per troppi minuti il pallone per sé.
Trasmissione è costruire ponti
e abbattere muri
Né conservazione, allora, né rigidità a scatola chiusa: il passeur non fa altro che «passare», non cerca discepoli, non cerca approvazione (l’ultima frontiera dei blog è inventarsi un alter ego che ti dia ragione…). Ma soprattutto chi trasmette così diventa un costruttore di ponti per connettere culture e generazioni differenti abbattendo i muri che altri intendono costruire. È richiesta la presenza di persone dalla cultura «antica», capaci di interpretare (senza rischio di autoreferenzialità) altre culture e altre identità, sull’esempio delle più grandi figure di missionari che varcavano gli oceani senza rimpianti.
«Rifiutando una fissità mortifera, il passeur è votato ad un’erranza infinita»: il suo gusto per il viaggio o l’incontro verso il diverso, la sua energia e movimento sono animati da una ricerca inesauribile che presuppone grande libertà e fiducia; perché il passeur teme l’appartenenza rigida, l’identità preconfezionata che imprigiona e inaridisce, ma induce invece la crescita dell’altro (gli angeli ne diventano la figura emblematica). Se così vissuta, senza rimpianto né timore, la trasmissione diventa gioia, o anche – come scrive Sarthou-Lajus – «un modo per avere la meglio sull’angoscia della propria finitezza umana».
Gli autentici passeurs sono allora «dei grandi ostetrici che salvano la posta in gioco della trasmissione, perché hanno saputo sormontare l’angoscia di morire, stupendosi del ritorno della primavera e di tutti i cominciamenti». Persone così sono protese verso la vita e il domani, genitori ed educatori capaci di trovare la giusta distanza con se stessi e con i più giovani, senza ricatti affettivi di sorta e, tantomeno, proiezioni narcisistiche, persone che vivono con lo scopo di nutrire e dischiudere i sogni, che non saranno i loro.
«La tradizione senza libertà è qualcosa che schiaccia e la libertà senza tradizione gira a vuoto». La vera trasmissione richiede che «ci si appoggi ad una tradizione non scelta, per affrancarsene e poi riappropriandosi di essa», in un’azione che dura una vita.
Maria Teresa Pontara Pederiva