Gellini Anna Maria a cura
Quale comunità genera alla fede?
2019/6, p. 27
Riportiamo ampi stralci della relazione di mons. Erio Castellucci all’ultimo Convegno Nazionale dei Direttori e dei Collaboratori degli Uffici Catechistici Diocesani.

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Una domanda vitale per il cristianesimo oggi
QUALE COMUNITÀ
GENERA ALLA FEDE?
Riportiamo ampi stralci della relazione di mons. Erio Castellucci all’ultimo Convegno Nazionale dei Direttori e dei Collaboratori degli Uffici Catechistici Diocesani.
"Quale comunità" è chiamata a generare? Da dove nasce la generatività della Chiesa, la sua maternità feconda? Mons. Erio Castellucci, arcivescovo di Modena – Nonantola e attuale Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l'annuncio e la catechesi, aprì il Convegno promosso dall’UCN assumendo come filo conduttore «una figura biblica, presente nelle Scritture di Israele come matriarca del popolo ebraico e nel Nuovo Testamento come "tipo" della Chiesa: Sara, moglie di Abramo, sterile fino a novant'anni e poi madre di una moltitudine».
Le condizioni
della sterilità
Sara, intesa come "tipo" della Chiesa, convoglia cinque sterilità consistenti: lamento, strategia, invidia, scetticismo e falsità. La comunità cristiana è un grembo sterile quando cade in questi atteggiamenti. Allora si potranno avere anche i catechisti migliori della diocesi, le strutture più adatte e il parroco 4.0, ma tutto cadrà nel deserto, nell'aridità. Allora chiunque verrà a contatto con la comunità, avrà l'impressione di un grembo sterile e non ne verrà certo conquistato.
Il lamento è talmente diffuso nella società attuale e nelle nostre comunità cristiane, che sembra quasi essersi cronicizzato. Tutti sentono il diritto di lamentarsi di tutti. A cominciare dal lamento verso i ragazzi e i giovani, per proseguire con le recriminazioni verso le famiglie "che non sanno più educare" e terminare, ovviamente, con le rimostranze verso il parroco e il vescovo; e non sempre si salva il papa. Una comunità affetta da lamentosi cronica, che si piange addosso come Sara, diventa un grembo sterile; le persone ne stanno alla larga o la avvicinano solo quando è inevitabile, per certificati o prestazioni religiose.
Anche la seconda espressione della sterilità di Sara, la ricerca degli stratagemmi a prescindere dalla parola di Dio, è fatale per le comunità cristiane. Certamente è importante programmare, pianificare e progettare; ma per farlo evangelicamente, dovrà trattarsi sempre di abbozzi mai incorniciati, tratti di matita mai compiutamente colorati. Perché, come ricorda spesso papa Francesco, si insinua nella Chiesa quella mentalità mondana che porta a cercare il riscontro quantitativo dei numeri più che la qualità dell'azione dello Spirito. Se le iniziative comunitarie non rispondono alla logica missionaria dell'annuncio, possono coinvolgere anche le folle e portare in cassa tanti proventi, ma finiscono nella sterilità.
L'invidia di Sara verso Agar è l'espressione forse più evidente della sterilità. Ed è anche la contro-testimonianza maggiore nei confronti di chi si affaccia alla vita di una comunità, bambini e ragazzi soprattutto. L'invidia infatti muove il chiacchiericcio, così virale anche negli ambienti ecclesiali e non solo curiali; spinge ad un confronto continuo con l'altro, quasi che la comunità fosse impegnata in una perenne olimpiade; crea quel clima di sfiducia reciproca che le persone respirano ben più delle parole e delle iniziative.
Sara è scettica verso la promessa di Dio e ne ride dentro di sé. Lo scetticismo, quarta espressione della sterilità, può colpire le nostre comunità sotto varie forme. Sappiamo bene quanto sia difficile appassionarci e appassionare per la parola di Dio, per la celebrazione dei misteri del Signore, per l'incontro con le persone in difficoltà; è difficile, perché richiede fiducia nelle promesse di Dio, che non garantiscono mai il successo immediato, ma si proiettano sui tempi lunghi. La formazione ha bisogno di tempi lunghi; e la comunità cristiana a volte è scettica sui tempi lunghi, i tempi di Dio, e cerca delle scorciatoie che diano risultati rapidi, sicuri, misurabili. Così fanno anche, ad esempio, gli organismi di partecipazione, quando si riducono a circoli puramente organizzativi, abdicando al loro servizio del "discernimento comunitario".
Infine, la falsità. Sara nega di avere riso dentro di sé. La menzogna è sterile di sua natura, perché non può produrre altro che nuove negazioni e nuove bugie. Nelle nostre comunità la prima dote dovrebbe essere la trasparenza nelle relazioni, la schiettezza reciproca: in una parola, la parresia, letteralmente la libertà di "dire tutto"; una virtù che san Paolo richiama una decina di volte nelle sue lettere. Parresia non è certo brutalità, sfogo o aggressione dell'altro; è correzione fraterna, ammissione delle proprie responsabilità, riconoscimento dei propri limiti. Quando nelle comunità si instaura un clima falsamente rispettoso, o si sente il bisogno di nascondere dietro ai ruoli le proprie debolezze - creando piccole isole di potere intoccabili - esse diventano grembi sterili.
Dio opera
per la fecondità
Il Signore dona la fecondità a Sara passando attraverso le espressioni di sterilità. Dio non ignora la sterilità e nemmeno la accantona, ma la tratta come un'opportunità e agisce trasformandola. Proprio i segni di sterilità diventano segni di fecondità: il lamento diventa lode, la strategia consegna a Dio, l'invidia veicolo di elezione, lo scetticismo gratitudine, la menzogna verità. Queste trasformazioni possono essere solamente opera di Dio.
Solo il Signore è capace di portare vita nell'aridità di un grembo sterile. L'iniziativa attivata da Sara con la schiava Agar rispondeva alle tempistiche umane, all'impazienza di vedere in qualche modo i frutti della promessa divina; ma "Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato" (Gen 21,2). Il tempo della realizzazione è riservato a Dio e non agli stratagemmi umani, nemmeno ai più scaltri e logici. L'intervento di Dio mostra tutta la goffaggine degli uomini quando vogliono aiutarlo o difenderlo con le loro forze.
Il grembo fecondo
della Chiesa
Le nostre comunità non sono mai al riparo dal rischio dell'aridità, che rispunta quando alle relazioni serene e distese subentrano relazioni sospettose, segnate dalla preoccupazione per il potere e la ricchezza.
L'esperienza-chiave per la fecondità è l'accoglienza. Una comunità è feconda nella misura in cui si rende ospitale. Grembo e accoglienza sono in realtà due parole inseparabili, perché il grembo è il simbolo stesso dell'accoglienza. Genera colui che accoglie; genera la comunità ospitale. Non c'è nulla di nuovo: già la prima comunità cristiana, pur essendo ancora un piccolo gregge, cercava di superare la tentazione di chiudersi come una cittadella fortificata e si sentiva invece grembo fecondo: "erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere" (At 2,42). Una koinonia così forte, nella comunità di Gerusalemme, da estendersi ai beni e alle proprietà. In un clima fecondo, che ci ricorda l'esultanza di Sara dopo la nascita di Isacco: letizia e semplicità di cuore, lode a Dio, favore da parte del popolo. È una bellissima descrizione del grembo fecondo della Chiesa.
La maternità della Chiesa è maturata e cresciuta per secoli "nelle case", come testimoniano sia gli Atti degli Apostoli sia le Lettere paoline. La connotazione domestica rimane fondamentale nelle nostre comunità cristiane, che sono feconde quando coltivano relazioni familiari, più che aziendali; quando si aprono all'accoglienza dell'ospite, più che rifugiarsi nell'affermazione della propria identità; quando la comunione al pane eucaristico si traduce nella condivisione del tempo, degli affetti e delle risorse e non si limita alla precisione del rito. Anche di qui deriva l'importanza del coinvolgimento della famiglia nell'itinerario dell'iniziazione cristiana e della mistagogia; sappiamo bene che non esistono ricette sicure, ma sappiamo anche l'importanza di provare le strade possibili per proporre itinerari "domestici", come si sta tentando attraverso vari metodi di catechesi "alla" famiglia - cercando la strada di un "secondo annuncio" che faccia leva sulla genitorialità - ma anche "con" la famiglia, "nella" famiglia e "della" famiglia.
La Chiesa genera alla fede, da sempre, attraverso i sacramenti, la parola, il servizio, la preghiera. Genera e accoglie con affetto nel battesimo i nuovi cristiani, immergendoli nel mistero della Pasqua; come una madre fa con i figli, li lava con l'acqua e poi li profuma con il crisma, li nutre con l'eucaristia nel giorno del Signore, li corregge e li perdona con la penitenza, e nel frattempo li educa ad amare insegnando loro a parlare, senza perdere tempo nelle parole secondarie ma concentrandosi su quelle essenziali, sul kerygma; la madre è dunque anche la prima maestra. La Chiesa-madre poi introduce i figli ai momenti festosi della famiglia e li rende a volte anche protagonisti di questi eventi; educa poi al servizio e, come ogni madre attenta, abitua i figli a rispettare gli altri e ad una particolare cura verso i fratelli meno fortunati e più bisognosi.
Prepara poi tutti i suoi figli alla vita adulta, aiutandoli a compiere le scelte fondamentali con responsabilità. Una brava madre non pretende lo stesso passo e il medesimo ritmo di crescita da tutti i figli, ma sa rispettarne l'indole, le capacità, le possibilità e i limiti; prevede cioè dei cammini graduali, scanditi da tappe e diversificati.
Una comunità
madre e libera
A partire dalla consapevolezza che di fatto è l'intera comunità che genera - o non genera alla fede; Sara non è, e non deve essere, solamente "la catechista", ma l'intera assemblea eucaristica, e specialmente l'équipe degli operatori pastorali, a partire da presbiteri, diaconi, ministri e consacrati, per comprendere animatori della liturgia e dell'oratorio, allenatori, persone impegnate nelle realtà caritative e assistenziali, capi scout ed educatori di Azione Cattolica e così via. O l'intera comunità si rende conto di essere grembo, oppure questo grembo sarà sterile.
Non possiamo sognare una comunità-rambo, fatta di supereroi con capacità eccezionali. Ma nemmeno ci possiamo rassegnare ad una comunità-zombie, fatta di morti viventi che destano forse più compatimento che timore. Una comunità madre e libera, come dice san Paolo, è una comunità normale. La nostra madre probabilmente non ci ha educati consultando i capitoli di un manuale di psicologia, ma ci ha accolti nel suo grembo, ci ha messi al mondo, ci ha lavato, nutrito, pulito, profumato, curato, corretto, educato. Se le persone, fin da piccole, si sentono accolte e guidate da una comunità che li ospita dentro a tutte le proprie esperienze, magari poi prenderanno le distanze, ma conserveranno quella gratitudine sulla quale il Signore, nelle occasioni che lui conosce, potrà innestare un nuovo interesse per la vita di fede.
a cura di Anna Maria Gellini