Antoniazzi Elsa
Per una Chiesa di fratelli
2019/6, p. 14
L’aspetto che ha decisamente attirato l’attenzione è stata la presenza di un ambito specifico per la vita religiosa. Sappiamo anche quanta poca attenzione sia data ad essa dalla riflessione teologica, al di fuori della vita consacrata.

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Testimoni
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Convegno Triveneto sulla sinodalità
PER UNA CHIESA
DI FRATELLI
L’aspetto che ha decisamente attirato l’attenzione è stata la presenza di un ambito specifico per la vita religiosa. Sappiamo anche quanta poca attenzione sia data ad essa dalla riflessione teologica, al di fuori della vita consacrata.
Il convegno presso la facoltà teologica del Triveneto: Sinodalità: una chiesa di fratelli e sorelle che camminano insieme, ha avuto diversi pregi.
Il convegno è stato il punto di approdo di una riflessione piuttosto lunga, di cui il settimanale on line Settimananews (edito gratuitamente da EDB) ha riportato le diverse riflessioni preparatorie.
Un aspetto importante è stato che il gruppo di lavoro era di diverse facoltà teologiche: quelle del Triveneto, dell’Italia, della Sicilia, dell’Emilia Romagna, e l’Istituto teologico di Assi e Sophia. La sinergia ha prodotto una riflessione comune dove, però, le differenze non erano date solo dalle diversità degli autori, piuttosto da diversi punti di approccio alla questione che hanno contribuito ad offrire una sorta di lettura a tutto tondo di questa categoria, importante ma pure consumata dall’uso del termine un po’ indiscriminato, e che ha già prodotto un senso di saturazione.
È mancato
il dibattito
Il numero di comunicazioni rendeva impossibile un minimo di dibattito tra relatori e uditorio e tra i relatori stessi. E questo indicava che l’appuntamento era un approdo più che essere un momento della ricerca, anche se ciò poteva non piacere. Però la seconda parte del pomeriggio era dedicata a gruppi di lavoro (Formare alla mentalità sinodale; Sinodalità e vita consacrata, Sinodalità e organismi di consiglio, Sinodalità e dinamiche relazionali) in cui il dibattito si è svolto sia sugli aspetti teoretici sia con la loro rilettura alla luce dell’esperienza.
I titoli dei diversi gruppi dichiaravano l’intento di riflettere sulle pratiche alla luce dei contenuti offerti.
Ha senso che un convegno di teologia adotti questo stile? Il tema induceva a un’attenzione specifica all’esperienza.
Termine antico quello in esame e da sempre noto. Oggi esso è ripreso autorevolmente da papa Francesco, ma il volto di Chiesa all’interno della quale è nato il termine, e la prassi, è ormai molto differente; per questo è stata una buona idea tornare ad offrire una sorta di mappa del concetto che riesca a delineare i confini di ciò che s’intende quando impieghiamo questa categoria. E per questo è anche stato utile e necessario fare l’esercizio nelle relazioni, e nei lavori di gruppo, di chiedersi che ricadute abbia per la vita della Chiesa, pensata e vissuta, un uso più proprio del termine stesso.
Segnalati i fraintendimenti
teorici e pratici
Sette comunicazioni, quali sono state quelle del convegno non possono essere riportate adeguatamente. Nel loro complesso esse hanno aiutato a specificare il termine. Non si sono sentite affermazioni assolutamente inedite, e questo vuol dire che la consapevolezza della sinodalità è ancora ben presente. Piuttosto sono stai segnalati fraintendimenti teorici e pratici e le difficoltà che viverla comporta, e queste sì sono meno consapevoli.
Così la comunicazione dedicata alle dinamiche psicologiche con cui affrontiamo le decisioni, è stata collocata quasi al centro delle relazioni, e ha contribuito a ricordare che non basta definire un termine per appropriarsene. Il timore del nuovo rende impermeabili a recepire logiche diverse dalle proprie e da qui nascono le fatiche a vivere decisioni comuni. Visentin ha però aiutato ad uscire da ciò che spaventa dell’esercizio della sinodalità: il confronto. Lo si teme, perché sembra che mini la comunione e l’unità. Ci esortiamo a vicenda per un ascolto sincero, ma la decisione comune resta difficile da individuare a da attuare. È necessario uscire da un’ingenua buona volontà e riconoscere di dover rispondere ad esigenze della nostra mente per costruire una decisione. Abbiamo bisogno di informazioni, prospettive multiple, di affrontare la complessità e le emozioni negative. Cercare risposte a questi e prima di tutto chiarirli a se stessi renderebbe il confronto più produttivo.
La sinodalità
non è un metodo
Traditi dalla mentalità scientifica riduciamo il procedere in modo sinodale a un metodo. E come tale deve funzionare senza intoppi. Il termine è qualcosa di più: rimanda alla rivelazione di Dio ed è sostenuta dalla volontà e dal desiderio di camminare insieme come Chiesa di fratelli e sorelle. Torciva ha ben evidenziato la necessità di una decisione in questo senso: la fraternità risponde alla domanda. Son forse io il custode di mio fratello? La fraternità va oltre l’uguaglianza; essa è una presa in carico dell’altro e vissuta nella Chiesa rimanda in modo sacramentale alla fraternità universale, che potrebbe trovare espressione concreta nella vita partecipativa delle comunità. Parole preziose di cui però la vita ecclesiale ha visto anche tante derive, legate al potere. Il passaggio che oggi siamo chiamati a compiere è verso un atteggiamento genitoriale dai connotati femminili, come già avviene negli scritti di san Francesco e prima ancora di Basilio.
Al percorso biblico ha fatto eco quello filosofico ricordando come il nostro tema attinga alla dimensione costitutiva dell’essere che è la relazione.
Per questo fatiche ed errori non possono farci accantonare la prassi sinodale, come indica la Commissione Teologica internazionale (La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa 2018) è un cammino che risponde a processo avviato da Evangelii gaudium. Dalla relazione di Coda almeno due importanti sottolineature del documento. La sinodalità quale dono per la vita della Chiesa, da accogliere« come dono e impegno dello Spirito che va esercitato nella docilità alle sue mozioni, per educarsi a vivere nella comunione la grazia ricevuta nel Battesimo e portata a compimento dall’Eucaristia: il transito pasquale dall’”io” individualisticamente inteso al “noi” ecclesiale, dove ogni “io”, essendo rivestito di Cristo (cfr. Gal 2,20), vive e cammina con i fratelli e le sorelle come soggetto responsabile e attivo nell’unica missione del Popolo di Dio» (107). Ed è passaggio che chiede conversione, come dice il documento: «La conversione pastorale per l’attuazione della sinodalità esige che alcuni paradigmi spesso ancora presenti nella cultura ecclesiastica siano superati, perché esprimono una comprensione della Chiesa non rinnovata dalla ecclesiologia di comunione. Tra essi: la concentrazione della responsabilità della missione nel ministero dei Pastori; l’insufficiente apprezzamento della vita consacrata e dei doni carismatici; la scarsa valorizzazione dell’apporto specifico e qualificato, nel loro ambito di competenza, dei fedeli laici e tra essi delle donne» (105).
In tutto ciò si parla di vita e per questo la relazione di Noceti che ha riflettuto sulle pratiche di decisione del Sinodo diocesano ha aiutato tutti. Perché fatte le debite proporzioni sono pratiche trasferibili, perché ha segnalato che è un esercizio concreto e paziente di costruzione di percorsi, questi sì metodologici. Soprattutto perché la sinodalità indica un processo piuttosto che un risultato. Importante ricordare il metodo di redazione dei documenti adottato dal Consiglio delle Chiese. che supera la temuta e certo divisiva pratica del voto a maggioranza. Scrivere un testo, giungere a una decisione attraverso passaggi che si propongano di integrare le posizioni minoritarie, potrebbe aiutare molti contesti. E farebbe comprendere la critica come elemento necessario di ogni riflessione comunitaria in vista di una decisione.
Un ambito in cui
le donne sono escluse
La conclusione lapidaria della sua relazione evidenziava poi un problema di fondo perché quando si parla di decisioni ecclesiali, a tutti i livelli, si parla sempre di un ambito in cui le donne sono escluse.
Verrebbe qui da passare immediatamente al gruppo della vita consacrata, però credo che sia importa registrare il senso delle due relazioni del pomeriggio dedicate specificatamente alla collegialità episcopale. La relazione di Vitali, canonista, e di Visioli, della Congregazione per la dottrina della fede, hanno segnalato passaggi importanti di teorie che hanno precise ricadute e che devono averle. Per definirle è necessaria la possibilità di parlare con parresia, come oggi viviamo nella Chiesa, che permetta di chinarsi con acribia sulle diverse pratiche per affrontare le domande che nascono spontanee. Per esempio all’ultimo Sinodo sulla questione di chi poteva votare oltre ai Vescovi.
Sinodalità termine antico e per fortuna non abbiamo ascoltato parole sconosciute. Il bello del convegno è stata la ricchezza di approcci, il clima di libertà che si è respirato nel mettere a fuoco le distanze nella consapevolezza che questo è il tempo in cui si può e si deve “por mano all’aratro”.
La vita consacrata ha camminato con la Chiesa e ne ha recepito anche le lentezze, eppure resta luogo strutturalmente sinodale: pensiamo, per esempio, all’inevitabile ruolo dei capitoli generali.
La vita consacrata consiste proprio in questo decidere insieme come intraprendere il cammino di sequela e annuncio. E qui le congregazioni femminili, messe al riparo dal rischio di clericalismo di cui soffrono molte di quelle maschili, hanno la consapevolezza di un patrimonio da non disperdere.
Il riferimento alle scienze umane (psicologia, sociologia) delle diverse relazioni nel lavoro di gruppo è apparso come strumento capace di ridare consapevolezza di antiche pratiche per poterle poi condividere con fratelli e sorelle.
Quando parliamo di sinodalità certo pensiamo anzitutto a quella episcopale, ma una volta ribaltata la piramide, come dice papa Francesco, nessun battezzato può e deve esimersi dal partecipare al cammino insieme, come succede nelle comunità religiose.
Elsa Antoniazzi