Zaninelli Mario
Th. Merton la sua proposta
2019/5, p. 41
Potremmo definirlo postmoderno, eclettico e a volte trasgressivo verso quei temi che cercano di definire il monachesimo in una maniera poco corretta secondo la normale idea di monaco e di comunità monastica. La sua idea di rinnovamento del monachesimo.

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Testimoni
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Quando la profezia ha ancora qualcosa da dire
TH. MERTON
LA SUA PROPOSTA
Potremmo definirlo postmoderno, eclettico e a volte trasgressivo verso quei temi che cercano di definire il monachesimo in una maniera poco corretta secondo la normale idea di monaco e di comunità monastica. La sua idea di rinnovamento del monachesimo.
Thomas Merton è stato un importante punto di riferimento spirituale nel secolo scorso per molte persone: monaci, religiosi e laici. Ma è stato, probabilmente, anche, uno tra i personaggi più difficili da identificare nel panorama spirituale, in quanto, poco “incasellabile” in quei normali parametri, verso i quali siamo comunemente abituati a guardare. In altre parole non è semplice collocarlo e definirlo in maniera più ordinaria.
Ha sempre coltivato la tradizione e l’ha diffusa ampiamente nei suoi scritti, al punto che potremmo definirlo postmoderno, eclettico e a volte trasgressivo verso quei temi che cercano di definire il monachesimo in una maniera poco corretta secondo la normale idea di monaco e di comunità monastica. Così si esprimeva nel novembre 1965, nella prefazione al suo volume Diario di un testimone colpevole:
«Purtroppo molti credono che la vita contemplativa sia pura e semplice “clausura” e immaginano i monaci come piante di serra coltivate in una vita di preghiera gelosamente protetta e surriscaldata spiritualmente. Bisogna invece ricordare che la vita contemplativa è prima di tutto vita, e che la vita implica apertura, crescita, sviluppo. Rinchiudere il monaco contemplativo in una cerchia di orizzonti ristretti e di interessi esoterici significa condannarlo a una sterilità spirituale ed intellettuale» (Diario di un testimone colpevole, pag. 9, Garzanti, Milano 1992/1° edizione).
L’esperienza della vita lo aveva probabilmente convinto che il contemplativo, pur avendo scelto di vivere nel “silenzio” e nel “distacco”, non è “avulso” dal tempo, fuori dal mondo, nel quale, anch’egli, è saldamente radicato. Di conseguenza, come scriveva in un testo significativo: «Il mistico e l’uomo spirituale che oggi rimangono indifferenti ai problemi degli uomini loro compagni e che sono pienamente capaci di affrontare questi problemi, si troveranno inevitabilmente coinvolti nella stessa rovina» (Il contemplativo e l’ateo, pag. 6-7, La Locusta, Vicenza 1986).
Nel suo testo, ancora oggi più famoso: La montagna dalle sette balze, Merton allarga la riflessione alle strutture monastiche, al punto tale che, il 25 luglio del 1958, poco soddisfatto della propria vita monastica, così scriveva: «Un monastero senza un “programma”. Senza un lavoro particolare da compiere. Monaci per “vivere”, non per essere monaci, distinti da ogni altro tipo di essere, bensì “uomini”, figli di Dio. Senza un futuro speciale: niente campagne per postulanti. Senza alcuna reputazione o fama particolare. Un monastero nascosto, magari non conosciuto come tale. Magari senza nemmeno indossare abiti speciali. Senza edifici visibilmente distinti» (A search for solitude. Pursuing the Monk’s life, Harper&Collins, N.Y., 1965, pag. 208-210).
Pensieri affascinanti, penso, dove possiamo scorgere il desiderio e la inconsapevolezza di una certa “profezia”, riproponendoci quelle contraddizioni di quegli anni nella vita monastica, religiosa e sociale, dove si sentiva “testimone colpevole” e che anche oggi ci interrogano profondamente.
Tutto ciò potrebbe consegnarci quella carica giusta di provocazione e di inquietudine che non si devono perdere nella testimonianza del nostro essere discepoli di Cristo e che potrebbe consentirci di riprendere il filo della “giusta profezia”, alla quale tutti siamo chiamati, quali battezzati, così da permettere alla vita di fiorire e alla fede di ancorarsi.
Non è possibile comprendere a fondo l’evoluzione spirituale di Thomas Merton se non si guarda, seppur velocemente, ma con attenzione, ai fatti rilevanti del suo crescere come uomo, a quegli eventi che lo hanno segnato nella sua vita. È utile prestare attenzione al tessuto umano e culturale che genera la sua esperienza spirituale. Inoltre, il dialogo con il mondo contemporaneo del suo tempo, può dare delle risposte anche alle esigenze odierne della vita religiosa o monastica.
La vita
Thomas Merton nasce a Prades, nel sud della Francia, il 31 gennaio 1915. Suo padre, Owen (1887 – 1931), neozelandese, e sua madre, Ruth (1887 – 1921), americana, si conobbero a Parigi presso la scuola del pittore Percyval Tudor-Hart, di origine canadese e si sposarono a Londra nel 1914. Nel 1915 nasce Tom e il 2 novembre del 1918 nasce John Paul. Molto presto la famiglia Merton affronta la morte e nel 1921, quando Tom (come la madre preferiva chiamare Thomas) ha solo sei anni, la madre muore per un tumore e, successivamente, quando Thomas ha sedici anni, anche il padre lascia i due fratelli. Così nel 1931, Thomas e John Paul si trovano ad affrontare la solitudine parentale che fortemente segnò l’esistenza del futuro monaco trappista. Successivamente, Thomas conosce anche la tristezza della perdita del fratello John Paul (Mert come veniva affettuosamente chiamato dai familiari), avvenuta nel 1943 durante una esercitazione con l’aereo dell’Aeronautica militare canadese, nella quale si era arruolato nel 1940, schiantandosi nel mare inglese e, Thomas, ormai monaco al Gethsemani, si trova completamente solo. Una solitudine triste che comunica con una sorta di poesia-epitaffio dedicata al fratello e pubblicata nel suo libro più famoso La montagna dalle sette balze, edito nel 1948, che riporta il titolo: “A mio fratello deceduto in missione di guerra nel 1943”.
Gli studi di Thomas si sviluppano tra la Francia e l’Inghilterra, e, dopo un lungo peregrinare seguendo il padre a Cuba, nelle Bermuda e Stati Uniti, si laurea presso la Columbia University in New York con una tesi su William Blake. La gioventù viene vissuta come una continua crescita, a volte disordinata, ma assiduamente protesa alla comprensione degli “eventi”, caratteristica umana ed intellettuale che contrassegnò tutte le scelte future della vita da monaco di Thomas Merton. Gli incontri significativi, tra i quali citiamo per brevità solo i più importanti: Daniel Walsh ( professore alla Columbia University che indirizzò Merton a conoscere i Trappisti dell’Abbazia del Gethsemani nel Kentucky nella quaresima del 1941), Jacques Maritain (conosciuto nel 1939 ad una conferenza in New York e successivamente incontrato al Gethsemani nel 1966), e il Dalai Lama (nel 1968 durante il suo viaggio a Bangkok), hanno segnato intensamente il valore della ricerca in Merton di quel “significato” profondo della vita spirituale che l’ha contraddistinto e fatto amare da milioni di persone nel mondo. Il Battesimo (ricevuto nel 1938 presso la Chiesa cattolica di Corpus Christi in New York), l’ingresso al Gethsemani il 10 dicembre 1941, la prima professione monastica nel 1944, i voti solenni nel 1947, l’ordinazione sacerdotale il 25 maggio del 1949, gli incarichi di maestro degli studenti professi (1950) e dei novizi (1955), l’inizio del suo vivere da eremita, dopo molti anni di richiesta ai superiori, nell’agosto del 1965, sono altre tappe della vita che l’hanno forgiato ed educato all’apertura verso la comprensione degli eventi sociali che sono stati coincidenti alla sua crescita umana e spirituale. Soprattutto gli anni ’60 hanno impresso una svolta intellettuale e spirituale molto decisa allo scrivere, al pensare e all’affetto verso la vita monastica in Merton, al punto tale che, divenne per molti, una figura monastica a cui guardare e da cui prendere suggerimenti significativi alla crescita propria di cristiano o di semplice essere umano che vuole posizionarsi responsabilmente nel tempo storico in cui vive. Purtroppo, la vita di Thomas Merton si è interrotta troppo presto, a Bangkok in Tailandia il 10 dicembre 1968, non dandoci il tempo di “leggere” tutto il libro e i capitoli successivi della sua vita ma, alla fine del libro più famoso ed ancora oggi più letto tra tutta l’ampia produzione di testi di diverso genere, è riportata una frase che ci aiuterà e stimolerà sempre verso un continuo scrutare ed interpretare i segni che Gesù ci ha lasciato attraverso il suo vivere: «sit finis libris, non finis quaerendi».
Lo scrittore “profeta”
Gli scritti di Thomas Merton in riferimento al rinnovamento monastico e alle sue idee e proposte per una vita religiosa diversa, partono spesso dalle esperienze personali nella vita del monastero e dalle esperienze precedenti prima al suo ingresso all’Abbazia del Gethsemani. Sicuramente tanto è stato valorizzato dal suo enorme dono ricevuto: essere uno scrittore. Sì, perché, la spiritualità di Merton è espressa meglio in tutte le dimensioni che compongono la persona nella sua interezza: spirituale, psicologica, culturale e corporale. Un fondamentale principio, da cui partire per comprendere l’idea di Thomas Merton di rinnovamento del monachesimo e della vita religiosa in sé, parte dalla convinzione che queste esperienze di vita non devono legarsi alle strutture, al ripensare la struttura ma bisogna prendere sempre più in considerazione la persona come individuo, come immagine e somiglianza di Dio, come icona, come erede di Dio. In altre parole: dove le strutture e i sistemi spirituali e teologici di pensiero non servono l’interesse al meglio delle persone, esse stesse necessitano di una trasformazione. Laddove gli usi monastici diventano artificiosi e sono lontani dal lavoro del cuore, questi cessano di essere vera tradizione Cistercense o dell’Ordine religioso e, quindi, devono essere rivisti. In una lettera a Fr. Roloff Ronald, monaco dell’Abbazia Benedettina St. John, in CollegevilleTownship, Minnesota, il concetto è ben chiaro: «Mi sembra che qui siamo concentrati sul cambiamento che vogliamo fare, sulle nuove prospettive dell’osservanza, sulla liturgia e così via, piuttosto che prestare attenzione alle persone che sono coinvolte. In una comunità (monastica), la nostra prima preoccupazione dovrebbe essere quella di guardare ai monaci come persone, come loro sono, non astrattamente della natura dell’osservanza e della configurazione di un desiderio del nuovo ordine. Sacramenta propter homines e regulae anche «I sacramenti sono per le persone e così anche le regole» (Thomas Merton, The school of charity, Farrar Straus & Giroux, N.Y., 1990, pagg 198-199).
Merton è apprezzato non solo come uomo spirituale ma anche come scrittore con una vena poetica come possiamo notare dalle sue molteplici poesie. È uno scrittore che si fida maggiormente delle proprie intuizioni, percezioni ed esperienze piuttosto che di categorie di pensiero. Il suo dono di scrittore giace nel saper parlare di sé con grande arte. Questa caratteristica la imparò molto presto anche se dovette faticare molto per mantenere questa convinzione. Imparò, a proprie spese, quanto fosse importante avere uno stile personale che comunicasse il messaggio di rinnovamento della forma di vita che stava vivendo perché intrinseca alla sua vocazione. Era sostanzialmente una integrazione alla sua chiamata alla vita monastica. Questo suo modo di proporsi come scrittore gli fece guadagnare molte critiche ma ne divenne anche la chiave del suo successo. Quando scrisse La montagna dalle sette balze, pensò di scrivere la propria autobiografia, passando da quando aveva 24 anni fino all’età di quando entrò al Gethsemani, cioè a 27, sintetizzando gli anni successivi fino al 1947 circa, cercando di dar voce alla propria convinzione che egli aveva un messaggio profetico da consegnare al mondo. La convinzione di raccontare la sua evoluzione spirituale fu una idea molto forte non solo per l’Ordine Cistercense ma anche per la Chiesa stessa. Scriveva: «Perché dovrei scrivere se non per essere letto? Questo diario è scritto per essere pubblicato… Se un diario è scritto per essere pubblicato, tu puoi strapparne le pagine, correggerlo, scriverlo meglio. Se, invece, è un documento personale, ogni pensiero rimanderà ad una crisi di coscienza e ad una confessione, non ad una artistica manifestazione. Se scrivere è una questione di coscienza e non di arte, diventerà una imperdonabile confusione, una perdita di tempo (Thomas Merton, Run to the mountain, edito da Fr. Patrick Hart OCSO, HarperSanFrancisco, San Francisco 1996, pagg 271-272).
Questo passaggio è fondamentale per capire Merton scrittore perché risulta molto meno sofisticato di altri artisti. In altre parole la sua vita era pienamente vissuta e comunicata nello scrivere. Dobbiamo però far notare che Merton aveva un carattere non conformista.
Così scriveva: «La vocazione del monaco nel mondo moderno, in particolar modo quello marxista, non è la sopravvivenza ma la profezia (Thomas Merton, The school of charity, Farrar Straus & Giroux, N.Y., 1990, pag. 392).
Il messaggio di Merton continua ad avere una valenza profetica sia dal punto di vista spirituale sia dal punto di vista sociale. Diverse sono le ragioni per cui possiamo considerare Merton con le valenze di profeta. Soprattutto guardando alla fama che ebbe al di là del chiostro e che continua ad avere nella Chiesa in rapporto alle varie tematiche che trattò soprattutto dopo il Concilio Vaticano II. In un testo, non ancora tradotto in italiano, The springs of contemplation, quale trascrizione di una serie di ritiri, tenuti al Gethsemani, poco prima di partire per il suo ultimo viaggio, si trova questa sua propensione profetica. Merton ha quella non comune abilità di andare al cuore della problematica sociale e capacità di leggere i segni dei tempi che restano oscuri a molti. Potremmo dire che Thomas Merton si è lasciato usare dalla Grazia divina che cerca di condurci alle azioni fattive per salvare tutti. Un tema sicuramente profetico e, per quanto ci risulta, Merton ha cercato sempre di restargli fedele.
Le lettere della Guerra Fredda
Uno dei periodi più particolari della vita di Merton, come già accennato, è all’inizio degli anni ’60. Il periodo che comunemente viene chiamato: l’anno delle lettere della guerra fredda e il pacifismo. Un momento che lo stesso Merton in una lettera a Hildegard Goss – Mayr nell’ottobre 1962 definisce così: «Il grande pericolo della Guerra Fredda è la progressiva morte delle coscienze» (Lettera a Hildegard Gross – Mayr, ottobre 1962). È il periodo nel quale Merton, attraverso i suoi scritti e la sua corrispondenza, partecipa alla discussione sulla Guerra Fredda a fianco di intellettuali e pensatori vari di quel momento particolare della storia mondiale. Non è facile, oggi, comprendere la scelta dura compiuta da Merton, e da altri come lui, in quel periodo, di schierarsi contro i soprusi e le ingiustizie operate nel campo sociale, etnico e religioso. La domanda probabilmente che lacerava il pensiero di Thomas Merton fu se schierarsi contro ogni sorta di violenza che sarebbe potuta sfociare in una guerra planetaria o se mantenere il discreto silenzio monastico. Il monaco trappista scelse di rompere il silenzio e di parlare a suo modo, con le sue caratteristiche di uomo di preghiera e di cultura. Nel 1961 pochissimi preti e vescovi cattolici fecero sentire la loro voce.
Probabilmente, questo silenzio, diventò un grido che inquietò la sua coscienza. Capì che il suo compito era quello di parlare, spiegando in toni decisi, la possibilità di un grave pericolo che stava minacciando l’intero mondo. Il 22 agosto 1961 scrisse a Dorothy Day, certo di essere almeno ascoltato e letto se non altrettanto condiviso, la sua preoccupazione e la sua decisione di parlare contro la minaccia planetaria di una guerra mondiale, sapendo che, questa posizione, avrebbe scatenato la reprimenda da parte dei censori del suo ordine, in quanto: “un Trappista non dovrebbe occuparsi di questi temi, e neanche ne dovrebbe scrivere”. Concluse la lettera alla Day rimanendo convinto che si sentiva “obbligato di considerare molto seriamente il periodo che stava vivendo e che voleva risolutamente dire tutto ciò che la sua coscienza gli sembrava gli dettasse”.
Probabilmente, questa inquietudine potrebbe far bene anche a noi in questi nostri giorni. Conseguentemente, nell’ottobre 1961, rompe definitivamente il silenzio e rende noto al pubblico, almeno quattro scritti che rivelano la sua presa di posizione, insieme a 111 lettere, da Merton stesso scelte, mandate a vari personaggi politici e spirituali di quel periodo per coinvolgerli nel “levar la voce” contro il periodo di un inizio di un possibile Terzo conflitto mondiale. I lavori sono: la poesia Il carme da usarsi in processione nell’approssimarsi al sito chiamato fornace; il poema-prosa La nascita della bomba atomica; la lettera Al poeta sudamericano Pablo Antonio Cuadra; l’articolo La radice della guerra è la paura.
Questa produzione ci consegna la linea del pensiero di Merton contro la guerra che parte sempre da una preghiera che sgorga nella propria coscienza al fine di rimettere al centro la legge naturale dell’uomo creato originariamente in Cristo e ristabilito in Cristo stesso. Non è possibile, secondo Merton, negare l’importanza di una pace, cioè un’assenza di guerra, qualunque essa sia, perché ogni tipo di fede è contro ogni tipo di violenza. Il disarmo, di conseguenza, per il monaco trappista, passa attraverso il rinnovamento del senso morale e la ripresa costante, continua ed incessante di una genuina responsabilità dell’esperienza umana. In quel periodo, che si estende sommariamente tra l’ottobre 1961 e il giugno 1962, Thomas Merton pubblica circa una dozzina di articoli, lettere, poesie, carmi sul tema guerra e pace. È proprio questa produzione di scrittura che nell’aprile 1962, fa intervenire l’abate James Fox a nome dell’abate generale dom Gabriel Sortais, proibendogli ogni sorta di pubblicazione sul tema guerra e pace. Pochi giorni dopo, Thomas Merton scrive a Jim Forest, suo grande amico, confidandogli che la scure della censura aveva colpito e che gli era stato chiesto di smetterla di scrivere su quei temi in quanto il suo scrivere “falsificava il messaggio monastico”. Così, a malincuore, la produzione di Merton finì. Ma a difesa del suo lavoro a favore della pace e a difesa delle sue idee, l’11 aprile 1963, il pontefice Giovanni XXIII, pubblicò la lettera enciclica Pacem in Terris, dove è possibile riconoscere molte intuizioni che Merton espresse in modi diversi nei suoi scritti sulla pace contro la guerra.
Da quel “silenzio imposto” fino ai giorni della morte di Merton, quasi ogni anno, la voce del monaco trappista, attraverso i suoi scritti, se non in modo diretto, si fece sentire sempre a favore e a sostegno di coloro che lottavano per la pace. Mi piace evidenziare uno di questi momenti, con un passaggio del messaggio scritto a Charles S. Thompson, editore del periodico inglese Pax, nel novembre 1962, in occasione di un incontro per la pace svoltosi a Spode House in Inghilterra: «Il grande tema che dobbiamo affrontare è la difesa dell’uomo, la difesa della verità, la difesa della giustizia. Ma il problema nel quale siamo immersi nasce dal fatto che la maggioranza degli uomini ha una totale, inadeguata ed addirittura rudimentale idea di quello che possa significare effettivamente una “difesa dell’uomo”. Da qui l’assurdità palese di una situazione nella quale la società di massa prepara seriamente e sobriamente la difesa dell’uomo stesso cancellandolo in modo totale. Il nostro primo compito è di liberarci dai pregiudizi e dalle certezze che viziano il nostro pensiero su quelle idee fondamentali dell’umanità, e dobbiamo aiutare gli uomini a fare lo stesso. Tutto ciò comporta non solo idee chiare, discorsi non ambigui, ma altrettante azioni sociali positive. E, siccome crediamo che il significato migliore ed unico sia la non-violenza, dobbiamo impararla e praticarla. In tutto questo una profonda purificazione spirituale risulta fondamentale. Invochiamo di ricevere da Dio la grazia e la forza necessarie ad iniziare questo compito che da Lui abbiamo ricevuto. Proseguiamo nella nostra povertà per compiere tutto ciò nella misura adeguata che ci è stata donata per mezzo del Suo Spirito.» (Thomas Merton, The Hidden Ground of Love, Farrar Straus and Gireaux, New York 1985, pag. 575).
La non violenza e la lotta
contro ogni sorta di razzismo
Se si vuole sintetizzare in un concetto chiave, il pensiero di Thomas Merton in riferimento alla pace, che possa inglobare il suo amore per il monachesimo, ma che illumini anche le sue altre “battaglie” a sostegno di coloro che furono “maltrattati socialmente” nell’America di quel tempo e che probabilmente potrebbe aiutarci oggi a ridare forma al nostro essere cristiani ed evangelici, quel termine, quel concetto potrebbe essere il concetto e la parola di “non violenza”. Merton spiega che la Chiesa: “deve condurre il cammino sulla strada verso il non violento aggiustamento delle difficoltà e verso la graduale abolizione della guerra”. Probabilmente il concetto di non violenza dal quale Merton prende ispirazione è la vita e le opere del Mahatma Gandhi. Già in Inghilterra, negli anni del liceo ad Oakham nel 1931, Merton si interessò del pensiero di Gandhi. Questo perché vedeva in lui quella giusta sintesi tra le motivazioni religiose e spirituali che conducono l’individuo a difendersi attraverso un uso lecito e responsabile della non violenza verso chi, violando le più comuni leggi del vivere umano e dei principali diritti di natura, vuole imporre il proprio pensiero e stile di vita.
L’atteggiamento di rispondere alla violenza con la passività o la inerzia, che significa chiudere i propri occhi di fronte al sopruso e alla violenza, non è proprio un atteggiamento cristiano. Se noi ci estraniamo dal contesto, lasciamo crescere la violenza ed è questa una forma di collusione con chi è violento. L’altro atteggiamento, condannato da Merton per reagire all’ingiustizia è quello di rispondere con la contro-violenza. No, questo non è accettabile, perché conduce ad una frattura insanabile o difficile da ricompattare con la pace perché lascia strascichi di vendetta ed odio inespresso. Per Merton, l’unica forma di non violenza contro ogni forma di razzismo e di violenza è l’atteggiamento della nonviolenza attiva. In altre parole, non si può pensare che ci sia sempre una sola forma di soluzione al problema. Non ci può neanche essere la debolezza o la codardia che mettono a tacere, rinunciando al combattere, le varie forme di guerra e di maltrattamento. C’è sempre una via che conduce alla attiva resistenza non violenta e questa è la via della persona forte, del cristiano. Bisogna usare l’energia spirituale e la persuasione morale per vincere le forze opposte della violenza. Non umiliando l’oppositore ma cercando di stabilire una comprensione vicendevole e una amicizia che possa portare beneficio ad entrambi. È l’unità basata sull’interiorità che contraddistingue l’uomo da ogni altro essere vivente. Per questo bisogna coltivare e continuamente allenare le radici della spiritualità. Da qui si vede l’altra faccia della non violenza che è l’atteggiamento di amore, di beatitudine che il cristiano, il monaco, l’uomo di buon senso è chiamato a vivere e a proclamare. È l’amore che nasce da un cuore educato al rispetto e all’inclusione che esce la capacità di costruire una società non violenta e avversa ad ogni forma di guerra palese od occulta. È questo il Merton del sociale. Il monaco che condivide Gandhi e che fa della integrità spirituale il modello di ogni battaglia contro ogni ingiustizia.
Il Concilio Vaticano II e il rinnovamento monastico
Thomas Merton ricorda così il suo arrivo all’Abbazia del Gethsemani: “Fui rinchiuso nelle quattro mura della mia nuova libertà”. Dopo ventisei anni e mezzo così si esprimeva: “Come Trappista, posso dire di aver vissuto per venticinque anni in una situazione nella quale NON ebbi diritti umani e civili di ogni sorta. Di ogni cosa che necessitavo dovevo elemosinarla in modo ignobile”. Due visioni diverse, probabilmente forzate per illustrare l’idealismo e il basso relativismo. Ma, quello che più colpisce è la sua capacità di saper riconoscere i due estremi e di sintetizzarli in una affermazione che, probabilmente, solo oggi, anche se non ancora in modo completo, possiamo accettare che fu questa: “Ma tutto sommato fui fortunato, e non accade a tutti”.
Gli anni dal 1962 al 1965 sono gli anni del Concilio Vaticano II. Papa Giovanni XXIII indice questo momento ecclesiale mondiale tra non poche polemiche. Pone all’attenzione di tutti, i temi di un aggiornamento teologico che ormai era obsoleto, fuori dal tempo e pone la nuova questione della convivenza nella fratellanza che ancora oggi, nelle sue diverse sfaccettature, risulta difficile da scorgere. Nel 1963, viene eletto pontefice il cardinale Montini, amico in corrispondenza di Merton fin da quando era arcivescovo in Milano. Nel 1965 Merton vive una sorta di “epifania” in Louisville, che lui stesso sintetizza quale esperienza di evoluzione del proprio pensiero che comporta il passaggio dal pensare in modo glorioso ed autoreferenziale la propria esperienza di uomo e di monaco all’ essere e sentirsi membro di quella infinita razza umana con tutte le sue contraddizioni, ricchezze e virtù che le sono proprie. Sono gli anni in cui Merton inizia a rivedere molte sue posizioni inerenti la propria vocazione monastica e porta il suo pensiero verso una evoluzione più concreta ed articolata per una nuova idea di comunità contemplativa monastica proiettata verso una vocazione più profetica invece che evocativa e ripetitiva.
Sull’onda di questi pensieri, Merton inizia a riflettere sempre più con frequenza ad un rinnovamento monastico che parta da sé e che si sviluppi verso gli altri. Probabilmente, ciò che conobbe nel 1933 in Roma, visitando le diverse chiese che avevano in sé i mosaici che aprirono in lui il desiderio di conoscere Cristo e, successivamente, di abbracciare la vita di speciale consacrazione, ora, a distanza di anni, gli si ripresenta, interrogandolo in modo più profondo e sincero. Probabilmente trovò ciò che aveva sempre cercato. L’esigenza di una sorta di vita monastica “diversa” continua a crescere in Merton. Il desiderio di un eremo dove vivere all’interno del territorio dell’Abbazia del Gethsemani, si concretizza nel 1965. È una nuova dimensione dove non c’è distrazione come nel monastero, dove veramente Merton sente di cercare Dio perché lui è stato trovato da quel Lui. Ecco cosa significa cercare Dio: riconoscere di essere stati trovati da Lui. Passa dal cenobio all’eremo con la convinzione che il monaco è precisamente un uomo che non ha un compito specifico. È libero dalla routine e dalla schiavitù delle attività umane organizzate. È libero per vedere, pregare, comprendere, amare. Merton pensa anche che il monaco, nella notte del barbarismo tecnologico, deve essere come un albero che vive silenziosamente e che per mezzo della sua vitale presenza purifica l’aria. Così, il monaco, è qualcuno che assume questa attitudine critica verso il mondo e verso le strutture. Idee queste che trovano riscontro nei suoi libri dedicati alla riflessione sulla domanda di chi è il monaco e che cosa fa un monaco e chi cerca. I testi The Monastic Journey e Contemplation in a world of action, sono fondamentali per comprendere questa evoluzione spirituale.
Il suo viaggio in Oriente e…oltre
Nel viaggio in America, nel settembre del 2015, parlando al Congresso, Papa Francesco disse che Merton: “resta una risorsa di ispirazione spirituale e una guida per molte persone, in quanto fu soprattutto un uomo di preghiera, un pensatore che sfidò le certezze del suo tempo e aprì nuovi orizzonti a tutti gli uomini e alla Chiesa, oltre ad essere un uomo di dialogo, un promotore di pace tra le genti e le religioni”.
Nel testo Diario asiatico, uscito dopo la sua morte, Merton annuncia il motivo del suo viaggio che non fu solo per partecipare alla Conferenza degli Abati e Abbadesse dell’Oriente dove tenne anche un discorso e successivamente trovò la morte, ma anche per un percorso di apprendimento. Così appuntò: «Ho lasciato il mio monastero per venire qui, non come un ricercatore o un autore. Sono venuto qui come un pellegrino che è ansioso di ottenere non solo informazioni, non solo fatti circa le loro tradizioni monastiche, ma per abbeverami alle antiche tradizioni della visione ed esperienza monastica. Cerco non solo di imparare la religione e la vita monastica, ma di diventare un monaco migliore ed illuminato» (Thomas Merton, The Asian Journal, New Direction, N.Y. 1973, pag. 313).
Traspare, da queste parole, la bellezza del viaggio interiore. La bellezza della voglia di aprirsi ad un mondo ancora poco conosciuto ma percepito come una fonte di enorme saggezza e tradizioni antichissime. Nella lettera circolare agli amici del settembre 1968 già si intravede la curiosità spirituale che l’accompagnerà nel viaggio in Oriente: “Il nostro vero viaggio è un viaggio interiore: è un impegno di crescita, di approfondimento, e un abbandonarci sempre più all’azione creativa dell’amore e della grazia nei nostri cuori. Mai come oggi è stato così necessario rispondere a questa azione. Io prego perché tutti noi possiamo farlo”.
In questi ultimi anni che hanno segnato la vita di Thomas Merton possiamo tranquillamente affermare che il monaco trappista stava vivendo una sorta di “esplosione creativa spirituale”. Sentiva il bisogno di una integrazione nella sua vita per non finire disperso in brandelli spirituali che lo avrebbero condotto lontano dal focus a cui aveva donato tutta la sua esperienza ed energia spirituale ed intellettuale. Merton, percepiva questa integrazione come uno stato di maturità trasversale, nella quale, ognuno di noi, non viene limitato dalla propria cultura ma dove si può abbracciare l’intera esperienza della vita, quale è veramente: una interiore crescita che dovrebbe essere lo scopo e il fine di ogni vita monastica ed umana. Per Merton essere integrati significa aver sperimentato diverse esperienze e qualità della vita come l’ordinaria esistenza, la vita intellettuale, la creazione artistica, l’amore umano e la vita religiosa. È, in altre parole, una nuova via di comprensione, una nuova conversio morum. Non è solo un cammino psicologico, è soprattutto una “nuova e personale Pentecoste” è una esperienza escatologica.
Vorrei lasciare due passi importanti e significativi, almeno per me, quale conclusione di questo percorso all’interno della vita di Merton, a distanza di cinquant’anni dalla sua salita al cielo e a centoquattro anni dalla sua nascita.
Il primo. Il 23 luglio del 1968 scrivendo a Jean Leclercq, disse: “ho familiarizzato con il pensiero di Herbert Marcuse. Le idee di quest’ultimo sono molto influenti nella “rivolta degli studenti”, in questi tempi. Devo ammettere che ho trovato il suo pensiero molto più vicino al monachesimo di quello di molti altisonanti teologi. Coloro che mettono in dubbio le strutture della società odierna guardano ai monaci con una prospettiva critica e con una certa distanza che ha poco fondamento. La vocazione del monaco nel mondo moderno, specialmente marxista, non è la sopravvivenza ma la profezia. Siamo troppo impegnati a salvare la nostra pelle”.
Il secondo. Alla fine del suo discorso, il 10 dicembre 1968 a Bangkok, prima di morire, così sollecitava i presenti: “da oggi in poi, ognuno di noi deve imparare a stare ben radicato con i propri piedi per terra e stare diritto sulle proprie gambe”.
Mario Zaninelli