Chiaro Mario
DONNE E PENA CAPITALE
2019/5, p. 34
Un recente documento dell’associazione Nessuno tocchi Caino ha portato alla ribalta il tema della “pena di morte nei confronti delle donne”. Le legislazioni sono però diverse tra di loro e variano da luogo a luogo, come è diversa la motivazione della condanna.

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Dati internazionali recenti
DONNE
E PENA CAPITALE
Un recente documento dell’associazione Nessuno tocchi Caino ha portato alla ribalta il tema della “pena di morte nei confronti delle donne”. Le legislazioni sono però diverse tra di loro e variano da luogo a luogo, come è diversa la motivazione della condanna.
Con riferimento al 2016, si evidenzia che sono state giustiziate almeno 17 donne in 7 Stati: Iran (10), Arabia Saudita (3), Somalia (1), Egitto (1), Giappone (1) e Indonesia (1). Le donne giustiziate rappresentano lo 0,6% del totale mondiale e le loro esecuzioni si concentrano in paesi che applicano strettamente la sharia. Il principale reato per cui le donne sono andate al patibolo è il traffico di droga. La legge esclude il ricorso alla pena di morte nei confronti delle donne in 5 paesi: Bielorussia, Guatemala, Russia, Tagikistan e Zimbabwe.
Da alcune ricerche risulta che la Thailandia è il primo paese per donne detenute: almeno 50 donne, su un totale di 427 detenuti, si trovano nel braccio della morte, soprattutto per reati legati alla droga. Negli Stati Uniti, ci sono 2.848 uomini (98,14%) e 54 donne (1,86%) nei bracci della morte: dal 1977 sono state giustiziate 16 donne (4 nere e 12 bianche) su un totale di 1442 esecuzioni al 31 dicembre 2016. In Pakistan, secondo il Ministero degli Interni, vi sono 44 donne nel braccio della morte su un totale di oltre 6mila condannati a morte. Nello Sri Lanka, ad aprile 2016, c’erano 28 donne nel braccio della morte su un totale di un migliaio di condannati a morte (informazioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). In Tanzania sarebbero 20 le donne in attesa di esecuzione su un totale di 491: dal momento dell’indipendenza del paese, 6 donne sono state mandate a morte su un totale di 238 giustiziati per omicidio. In Uganda, nel 2016 c’erano 11 donne nel braccio della morte su un totale di 208 detenuti. In Ghana, al 10 ottobre 2016 c’erano 3 donne su 137 detenuti nel braccio della morte. In Kuwait, ad agosto 2016 c’erano 36 prigionieri, tra cui 6 donne, condannati a morte per vari reati (omicidio premeditato, traffico di droga, sequestro di persona e stupro); tre donne sono state giustiziate nel gennaio 2017, mentre nel luglio 2016 una donna dello Sri Lanka è stata condannata a morte dalla Corte d’Appello del Kuwait per traffico di eroina. Nello Zambia ci sono 170 detenuti passibili di pena capitale, di cui 2 sono donne.
Donne incinte
o con bambini piccoli
Il diritto internazionale pone dei limiti, legati alla maternità, all’applicazione della pena di morte nei confronti delle donne. Il Patto internazionale sui Diritti civili e politici vieta l’esecuzione di una donna incinta e il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc) dal 1984 ha esteso il divieto nei confronti delle neo-madri. È esclusa per legge l’esecuzione di donne in quasi tutti i paesi che ancora la prevedono nei propri ordinamenti. In particolare in Afghanistan, le donne che vengono condannate a morte quando sono già al sesto mese di gravidanza, non sono detenute fino a quattro mesi dopo il parto. A Papua Nuova Guinea, le donne incinte evitano l’esecuzione se lo chiedono. L’unico paese al mondo in cui una donna incinta può essere legalmente giustiziata è Saint Kitts e Nevis (due isole delle Piccole Antille).
Gli Stati che vietano l’esecuzione delle donne in stato di gravidanza si dividono in due categorie: quelli che ritardano l’esecuzione a dopo il parto e quelli che commutano la pena di morte in una pena detentiva a vita o inferiore. In alcuni paesi la legge specifica il periodo del rinvio (Marocco, Egitto, Bahrein, Thailandia e Repubblica Centrafricana); in altri l’esecuzione è rinviata per un periodo indefinito dopo il parto (Burkina Faso, Ciad, Iran, Giappone, Libano e Corea del Sud). Vi sono paesi che hanno ratificato la Carta africana sui diritti e il benessere del fanciullo, che vieta di imporre la pena di morte alle “madri di neonati e di bambini piccoli” (Repubblica Democratica del Congo, Mauritania, Niger e Tunisia). Tra i paesi che prevedono una commutazione della condanna a morte quando riguarda donne incinte vi sono: Bahamas, Botswana, Ghana, India, Kenya, Kuwait, Laos, Malawi, Malaysia, Singapore, Sri Lanka, Uganda e Zambia. In quasi tutti questi paesi la condanna a morte della donna incinta è commutata in carcere a vita. In Belize, la commutazione è al carcere a vita con lavori forzati. In Malesia, la condanna può essere al massimo a 20 anni di reclusione. In 6 altri paesi (Bangladesh, Eritrea, Etiopia, Iraq, Myanmar e Pakistan) è il tribunale che decide se rinviare l’esecuzione a dopo il parto o commutare la condanna.
Ci sono poi paesi che vietano l’esecuzione di donne con bambini piccoli. In Mali, la legge prevede che una madre non sia giustiziata finché i suoi figli non saranno allontanati. In Vietnam, una condanna a morte pronunciata nei confronti di una donna con un figlio al di sotto dei 3 anni viene commutata alla pena dell’ergastolo. In Iran, la legge prevede che una donna non sia giustiziata se accudisce il figlio e la sua esecuzione mette in pericolo la vita del bambino. Anche trattati internazionali a dimensione regionale vietano l’esecuzione in questi casi: sono la Carta africana sui diritti e il benessere del bambino e la Carta araba dei diritti dell’uomo. In particolare, la Carta araba all’articolo 12 afferma che non può essere giustiziata la donna incinta prima del parto né la “madre fino ai due anni del figlio” (aderiscono Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen e l’Autorità palestinese, mentre non hanno ancora recepito questo divieto: Kuwait, Qatar, Siria e Tunisia).
Discriminazione di genere
e di orientamento sessuale
In alcuni Stati, la pena di morte può essere imposta per adulterio e per relazioni sessuali extraconiugali. Si tratta di casi che riguardano soprattutto le donne che vivono in società in cui sono ancora radicate convinzioni discriminatorie nei loro confronti. Alcuni studi rilevano che la questione di genere è spesso alla base di un uso discriminatorio della pena di morte. Le Nazioni Unite si sono più volte pronunciate per la de-criminalizzazione dell’adulterio, ritenendo che sia prevalentemente utilizzato nei confronti delle donne. Frances Raday (ex presidente del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla discriminazione sessuale) ha scritto: “Le disposizioni nei codici penali spesso non trattano ugualmente donne e uomini e stabiliscono norme e sanzioni più severe per le donne”. Queste pratiche sono una violazione del principio di diritto internazionale per cui la pena di morte deve essere limitata nella sua applicazione ai reati più gravi i quali, in base all’interpretazione elaborata dall’Onu, sono i reati intenzionali con conseguenze letali. In questo senso, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che “l’imposizione della pena di morte per reati che non possono essere caratterizzati come i più gravi, tra cui l’apostasia, l’omosessualità, il sesso illecito, l’abuso di pubblico potere e il furto, è incompatibile con l’articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici”.
L’adulterio può essere punito con la pena di morte (per lapidazione) in 13 paesi: Afghanistan, Arabia Saudita, Brunei Darussalam (Brunei), Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Mauritania, Nigeria, Pakistan, Qatar, Somalia, Sudan e Yemen. In questi stessi paesi si può andare al patibolo per omosessualità. Per l’esattezza, la pena di morte è praticata “legalmente” (in base alla legge ordinaria e/o della sharia) in solo 5 dei paesi summenzionati: Arabia Saudita, Iran, Mauritania, Sudan e Yemen. In Iraq, non è prevista dal codice ordinario, ma vi sono giudici e milizie che emettono condanne a morte in questi casi. Come “esecuzioni extragiudiziarie” vanno invece classificate le decine di uccisioni decise da autoproclamati ‘tribunali della sharia’ ed effettuate dallo Stato Islamico (IS) in Siria e Iraq e da Al-Qaeda in Yemen. Infine va sottolineato che in Iraq molte donne detenute sono state condannate al posto di un loro parente maschio, mentre in Pakistan, una donna stuprata, per non essere condannata per adulterio, deve provare, con testimoni, la violenza subita. Nello stesso Pakistan, in alcune aree, la donna è considerata proprietà degli uomini; l’accusa di infedeltà è punita con la morte; l’onore (in nome del quale vengono uccise centinaia di donne all’anno) richiede che un membro della famiglia la ammazzi.
a cura di Mario Chiaro