Chiaro Mario
L’ANIMA DI UN PASTORE
2019/5, p. 22
È da poco uscito il libro L’anima di un pastore: una raccolta di messaggi scritti da don Andrea a comunità parrocchiali, superiori, parenti e amici. Sono una fonte di ispirazione soprattutto per presbiteri-discepoli che intendono mettersi in continua ricerca e di tornare alle sorgenti della fede.

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Testimoni
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A 13 anni dalla morte di don Andrea Santoro
L’ANIMA
DI UN PASTORE
È da poco uscito il libro L’anima di un pastore: una raccolta di messaggi scritti da don Andrea a comunità parrocchiali, superiori, parenti e amici. Sono una fonte di ispirazione soprattutto per presbiteri-discepoli che intendono mettersi in continua ricerca e di tornare alle sorgenti della fede.
“Eroico testimone dei nostri giorni” è la definizione di papa Bergoglio riferita a don Andrea Santoro. Egli è stato dal 2000 al 2006 il “prete di Roma in Anatolia”, prima a Urfa poi a Trabzon, dove venne ucciso il 5 febbraio 2006 mentre pregava con la Bibbia in lingua turca fra le mani, attraversata anch’essa da uno dei due proiettili che lo colpiscono ai polmoni. Pochi giorni prima del suo assassinio, ha scritto queste righe: «Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne. Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, assorbendolo nella propria carne fino in fondo, come ha fatto Gesù».
In occasione del tredicesimo anniversario della sua morte, è uscito il libro L’anima di un pastore:una raccolta dei messaggi scritti dal sacerdote romano a comunità parrocchiali, superiori, parenti e amici nell’arco di più di un ventennio (la maggior parte tra il 1980 e il 2006). Sono lettere scritte non per essere pubblicate e che quindi conservano la massima autenticità: possono essere davvero una fonte d’ispirazione e uno specchio per presbiteri-discepoli che hanno il coraggio di mettersi in continua ricerca e di tornare alle sorgenti della fede: «Io sono in ascolto di quello che mi viene dal di dentro» (p.5).
Lo spirito
di Nazareth
Il volume ci presenta una persona che ha bandito la mediocrità dalla sua vita, un prete diocesano che viveva con un cuore di monaco. Capace di una lettura sapienziale della vita attraverso la Scritture, don Andrea era molto vicino alla spiritualità dei Piccoli Fratelli di Gesù, congregazione ispirata a Charles de Foucauld, da cui aveva mutuato la “spiritualità di Nazareth”: «Gesù visse grandi parole perché visse grandi silenzi», scrive in una lettera indirizzata alla parrocchia Gesù di Nazareth, da lui fondata nel 1981, in cui sottolineava l’importanza di riscoprire i trent’anni di Gesù vissuti nella dedizione all’ordinario (pp.24-28). Nazareth come scuola dei credenti, scuola dei bambini, culla di nuove vocazioni a vivere come Gesù. Il suo desiderio di imitare la vita di Gesù a Nazareth si traduceva nel silenzio e nella preghiera, nella masticazione della Parola di Dio, nell’accoglienza e nella vicinanza alla gente.
Alcuni aspetti del suo stile di preghiera emergono nella trama delle relazioni intessute dal sacerdote. La sua è una preghiera di continua ricerca e purificazione interiore per essere più completamente offerto al Signore; una preghiera intrisa di carità pastorale, animata dal desiderio di spendersi non tanto per costruire strutture esterne e programmi organizzativi quanto per edificare la comunità fatta di pietre vive; una preghiera evangelizzatrice per non restare mai “esterno” rispetto alla vita delle persone, alla cultura del posto e alle diverse sensibilità religiose.
La passione
comunitaria
Nella prima sezione del libro, quella delle ‘Lettere pastorali’ (1981-2005), si evidenzia il frutto più maturo della spiritualità di comunione vissuta da don Santoro. «I discepoli di Gesù, prima di aver bisogno di costruirsi una chiesa, hanno bisogno di una chiesa… casa di Dio non sono gli edifici materiali, ma le comunità che in essi si radunano. Una bella chiesa con brutti cristiani è un’offesa a Dio (un inganno per se stessi e per gli uomini)… La cosa più semplice è tirar fuori i soldi e ammucchiare mattoni. La cosa più difficile è tirare in ballo se stessi e unire le proprie persone» (pp. 21-22). Per tirare in ballo le persone, chiedeva sempre di studiare e di realizzare insieme il progetto di una chiesa-comunità. A questo scopo, con le lettere ai suoi collaboratori pastorali, sottolineava di non voler fare programmi in dettaglio ma piuttosto «delineare una visione d’insieme nei suoi pilastri fondamentali» (p.58). Senza remore, comunicava le cose ‘risolutive’ della propria vita delineando in tal modo per le sue comunità un cammino spirituale che doveva essere connotato da una esperienza di silenzio, dal contatto con la Bibbia, dalla guida di un padre spirituale, dal sostegno di alcuni fratelli. In questo cammino sottolineava che per lui «un’altra cosa è stata importante: accettare il travaglio interiore per venire alla luce. Infatti guardare in faccia la realtà, riconoscere l’insufficienza di tutto quello che uno ha fatto e che il mondo ti offre è doloroso. Ma un istante dopo è liberatorio ed è l’inizio di un cammino di luce. Anche voi… non abbiate paura di mettervi alla scuola di Dio e di qualcuno che vi parli di Lui. La chiesa ci è stata lasciata da Gesù come maestra e madre. Anche la nostra parrocchia può farvi da “scuola” e da “madre”, offrendovi un cibo spirituale e una parola che viene da Dio, aiutandovi a sviluppare una vita nuova, quella di Gesù in voi e mettendovi vicino dei fratelli» (p.138).
La lontananza dalla parrocchia che ha fondato (“Gesù di Nazareth”, a Verderocca nella periferia di Roma) diventa per don Andrea l’occasione per responsabilizzare ogni membro della comunità nella perseveranza al cammino di comunione ed evangelizzazione. Così nella lettera scritta dalla Turchia, durante un pellegrinaggio nelle terre del Medio Oriente (1993), egli ricorda di tenere saldo in mano e nel cuore il Vangelo ed esorta a mantenere un ampio respiro spirituale lontano da una visione burocratica della vita cristiana: «Siate l’unica cosa bella che vale la pena di essere: cristiani. Siatelo in tutto, siatelo insieme, aiutatevi a esserlo… Siate uniti tra voi, al nuovo parroco, al Vescovo…. Ogni occasione è buona per gettare un seme di Vangelo: fatelo. Anzi siate voi questo seme e fatevi buttare da lui dove vuole. Il nostro mondo, i nostri figli, la nostra generazione, la gente che ci sta intorno, la nostra Europa ha bisogno del Vangelo, anzi di Gesù: è lui il Vangelo prima ancora che la sua parola» (p. 83).
Il tormento
del pastore
Le ‘Lettere ai Superiori’(1958-2006) mostrano con tutta evidenza un giovane sacerdote che si interroga coraggiosamente, chiedendo aiuto per chiarire e rafforzare la vocazione a cui si sente chiamato. Al cardinale Poletti, il Vicario della diocesi di Roma che l’ha ordinato nel 1970, confida il suo affetto per il popolo insieme all’inquietudine su come incarnare un’autentica qualità di pastore tra la gente: «mi chiedo se debbo lasciarmi travolgere, se debbo correre con loro senza nessuna direzione o se invece debbo stare a riva facendo da richiamo per loro, gettando l’amo, una rete, tirandoli a riva per uscir fuori da una corsa senza senso. Mi chiedo se li amo perdendomi con loro o se invece salvarli salvando anche me stesso. Gesù ha detto che devo fare il pescatore di uomini. Il pescatore sta a riva o dentro una barca per tirarvi dentro i pesci. Io ho a volte la sensazione di non servire a niente perché sto dentro l’acqua travolto anch’io con la gente. E infine è la gente che perde me piuttosto che io salvare loro. E se si perde il pescatore i pesci sono perduti ancor più di prima. Cosa fare?» (p. 194 ss.). Tre anni dopo, nel 1989, sempre al card. Poletti, confida di trovarsi «stretto in un mondo che ha bisogno di organizzazione, di binari, di una struttura ferma e chiara, di un pastore che sia capo, manager e leader… Non voglio abbandonare il gregge ma servirlo in un modo diverso: dal di dentro, in un modo nascosto, occupando il cuore delle persone» (pp. 201-202).
Una finestra
sempre aperta
Tocca al nuovo Vicario di Roma, il cardinale Ruini, affrontare l’ormai forte insistenza con cui don Santoro dichiara la sua chiamata a servire come pastore nella chiesa di Turchia. Straordinaria e fondamentale la missiva del 23 agosto 1996, nella quale si dispiega la sua ferma visione dell’evangelizzazione globale: «Di una cosa mi rendo conto: esiste una finestra missionaria (il Medio Oriente e la realtà musulmana) molto importante ma poco conosciuta, poco apprezzata e appena socchiusa. Una terza finestra, accanto alla realtà africana e latino-americana. È una realtà complessa, dura, poco gratificante… una chiesa che è stata nostra madre e ora ha bisogno di sua figlia».
Il prete romano, con lucidità, vede il mondo musulmano come una realtà non cristiana che attende un’evangelizzazione inedita, «legata soprattutto alla presenza, alla testimonianza, alla preghiera, allo studio spirituale, alla carità umile e quotidiana, ai rapporti di ospitalità, di accoglienza, di fraternità, alla parola discreta ma chiara e forte». La sua richiesta al cardinale è precisa: «Io vengo a chiederle di prendere in seria considerazione questa possibilità, questa finestra missionaria della chiesa di Roma, tanto più che proprio Antiochia (oggi in Turchia) fu la prima cattedra di Pietro… C’è una chiesa che soffre ed è povera in ogni senso; c’è un mondo musulmano enorme, complesso e anche, in tante sue pieghe, assetato di Cristo…Io ho conosciuto questo mondo da 15 anni a questa parte, soprattutto nei miei due periodi di lunga permanenza: L’ho scoperto non per mia iniziativa, ma per circostanze volute dal Signore. Sono disposto ad aprire questa finestra, ad aiutare la mia chiesa di Roma a guardare dentro questa finestra e, se Dio vuole, ad approdare in questa terra con la propria carità missionaria» (pp. 221-223).
Il 4 settembre dell’anno 2000 don Andrea scrive a papa Giovanni Paolo II di essere in procinto di partire per Urfa (Edessa)-Charran, patria di Abramo. Con cuore felice gli confida di andare «per accendere, se il Signore vorrà, un piccolissimo lume e gettare un piccolissimo granello di sale» (p. 240). E nella piccolezza evangelizza fino alla fine in una zona del Mar Nero che è un incrocio di popoli: la sera prima di essere ucciso scrive a Valdo Bertalot, segretario generale della Società biblica in Italia, chiedendo Bibbie tradotte per “pecorelle di ogni dove”: «cerco di parlare la lingua di ognuno, anzi di dare la possibilità a Dio di parlare a ognuno con la propria lingua, in mancanza di una chiara e manifesta pentecoste!» (p. 369). In questo modo ha testimoniato fino in fondo il suo anelito di “lasciarsi usare continuamente come una porta”:«Non esiste amicizia se non è sostenersi nello sforzo di passare oltre, farsi coraggio nel mettere un piede al di là di certe soglie, di mille soglie, raggiungere insieme nuove stanze, nuovi mondi, nuove mete sostenendo insieme lo sforzo del terrore della morte insita nel gettarsi oltre una porta. L’amicizia significa sentirsi comunicanti e legati da vincoli, attraverso questa porta… Da sé soli non si può comunicare, andare all’altro e far venire: occorre una porta: ed è Cristo» (dal Diario 1977-78, Fonte Colombo 13/10/77).
Mario Chiaro