Brambilla Rossana
ANDARE AL CUORE DEI PROBLEMI
2019/5, p. 15
Bisogna aiutare le istituzioni a riflettere e a riaggiustare le proprie pratiche quotidiane, partendo da una lettura concreta delle situazioni descritte nell’Evangelo, perché possano diventare testimonianze di una vita più umana e luminosa, alla quale il mondo possa ispirarsi.

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Nuova formazione nelle istituzioni religiose
ANDARE AL CUORE
DEI PROBLEMI
Bisogna aiutare le istituzioni a riflettere e a riaggiustare le proprie pratiche quotidiane, partendo da una lettura concreta delle situazioni descritte nell’Evangelo, perché possano diventare testimonianze di una vita più umana e luminosa, alla quale il mondo possa ispirarsi.
In molte scuole cristiane, la parabola del “buon pastore” non rappresenta una misura e un criterio effettivo per le decisioni ‘sugli’ studenti. Di fronte a un ragazzo particolarmente difficile, che chiamerebbe a oltrepassare i ristretti confini della didattica ordinaria e a mettere in campo ulteriori sforzi di lettura e comprensione della situazione, ci si orienta spesso verso il suo allontanamento. Generalmente preoccupati per se stessi e per le famiglie delle ‘novantanove pecorelle’, e abbastanza rassegnati sul ‘destino’ della ‘pecorella smarrita’.
Altre volte, a livello di rapporti interpersonali, succede che persone in difficoltà si rivolgano a singoli religiosi, ricevendo l’indicazione di affidarsi alla Provvidenza, o la promessa di una preghiera, senza che il religioso si senta chiamato a fare anche altro, in prima persona. Come se la fede venisse confusa con la deresponsabilizzazione; come se il “buon samaritano”, incontrando un uomo “mezzo morto”, avesse assicurato a quell’uomo la sua preghiera e fosse passato oltre, senza che egli stesso si fosse fatto Provvidenza per l’uomo ferito che aveva incontrato.
Sta qui, secondo me, uno dei peggiori rischi che corrono le istituzioni religiose oggi: vivere giornate disseminate di riti, momenti di preghiera, lettura e interpretazione della Scrittura, eppure drammaticamente distanti dallo stile evangelico.
La nuova sfida
della formazione
La formazione è chiamata a rispondere promuovendo un legame più concreto con la Scrittura, e anche un rapporto più vivo tra la Scrittura e le scelte quotidiane.
Non è più pensabile che i temi (ascolto, comunione, corresponsabilità, discernimento…) vengano trattati in modo esclusivamente intellettuale o ‘spirituale’, come se avessimo a che fare con questioni ‘mentali’ o relegabili alla sola interiorità delle persone. E nemmeno che gli argomenti vengano presentati unicamente tramite incontri frontali, nei quali i religiosi si limitino a ‘udire’, senza un’ulteriore richiesta di elaborazione e declinazione di quanto ascoltato. Perché questo continuerebbe a perpetuare la frattura tra discorsi teorici e una vita pratica mai rimessa veramente in discussione alla luce della Parola.
Bisogna invece aiutare le istituzioni a riflettere e a riaggiustare le proprie pratiche quotidiane, partendo da una lettura concreta delle situazioni descritte nell’Evangelo, perché possano diventare testimonianze di una vita più umana, e luminosa, alla quale il mondo possa ispirarsi.
I singoli temi affrontati nelle formazioni (tematiche spirituali, azioni umane fondamentali, valori importanti…) devono dunque intersecare e aiutare a interrogare la quotidianità dei religiosi: il rapporto col lavoro, il rispetto per la libertà e l’espressione delle persone appartenenti all’istituzione, la cura delle liturgie, il modo di pensare e vivere gli spazi, ecc. Si tratta di ragionare su tempi di lavoro che esprimano equilibrio col resto della vita, ma anche dedizione, volontà di miglioramento, desiderio di contribuire al progresso spirituale e materiale della società. Si tratta di capire il senso del lavoro, e di quel lavoro particolare all’interno di una precisa istituzione (anche in rapporto al nostro momento storico-sociale), di avere rispetto per i diritti dei lavoratori, di avere cura del rapporto con l’ambiente.
Si tratta di verificare quanto, all’interno di un’istituzione, vengano rispettate alcune pratiche vitali per l’essere umano: lo spazio della parola, del confronto, dell’espressività, dell’ascolto, del rapporto con la natura, della cura della bellezza (delle proprie cose, delle proprie attività…), della condivisione e della comunione. Ancora, di interrogare la cura delle liturgie, chiedendosi se le celebrazioni riescano davvero a parlare di vita – nell’espressione, nel canto, nella lettura, nel modo di tenere la Parola al centro, nell’essere mezzi di creazione e ricreazione dell’essere comunità – oppure se rappresentino solo dei rituali spenti e stanchi, e magari anche esteticamente brutti.
E anche di verificare che gli spazi dell’istituzione riescano a parlare di un luogo discreto, protetto, ma non autocentrato, e anzi aperto al rapporto con l’esterno, o comunque al servizio del mondo.
Così è nata l’idea di progettare e attuare, in diversi monasteri e in altri istituti religiosi d’Italia, nuovi percorsi di formazione, in forma laboratoriale. Proverò adesso a entrare nel merito di alcune coordinate fondamentali di questi interventi.
Dall’evangelo per trovare
il taglio degli argomenti
Davanti alla richiesta di un particolare argomento da trattare, prima di attingere al sapere delle scienze umane, attingo sempre alla Scrittura, e in particolare all’Evangelo, che ha il potere di indicare le attenzioni e la chiave con le quali affrontare le differenti tematiche.
Innanzitutto, non manca di mettere in guardia da alcune derive tecniciste o semplicistiche dei nostri saperi scientifici, riportando continuamente alle radici e al senso più profondo delle azioni umane fondamentali. Così avviene, solo per fare un esempio, col tema dell’ascolto. Mentre le cosiddette scienze umane pongono l’accento su tante attenzioni tecniche da avere nei confronti dell’interlocutore (posizione, postura, tono di voce, ecc.), il modo di ascoltare di Gesù richiama innanzitutto alla capacità di restare sensibili ad alcuni bisogni fondamentali delle persone che incontriamo nella vita quotidiana, anche per caso, insegnandoci a saper distinguere, sui volti e nell’atteggiamento, la fame, il sonno, lo smarrimento, la paura…
Altre volte, l’Evangelo mette in guardia dal trattare alcuni temi in una chiave lontana dalla vita concreta di Gesù. Come nel caso del discernimento. Preparando una formazione su questo tema, mi sono accorta che i termini ‘discernimento’ e ‘discernere’ nell’Evangelo non compaiono mai, quasi a indicare che la chiave per trattarlo non sia quella di provare a definirlo, a concettualizzarlo, anche perché in fondo si tratta di un processo interiore. Così ho capito che ciò che serve è aiutare le persone a entrare in rapporto e a familiarizzare coi modi di discernere di Gesù nelle diverse situazioni.
Progettare percorsi
laboratoriali, attivi
Le formazioni alternano quindi spunti teorici a momenti più pratici, nei quali i partecipanti e le partecipanti vengono chiamati a mettersi in gioco in termini di riflessività personale, lavori in piccolo gruppo, dialoghi e confronti tra tutti, spunti filmici, ipotesi di cambiamenti possibili per le differenti realtà.
Occorre scegliere con grande cura le tappe e le attività. Queste non devono rispondere solo al bisogno manifesto (es. approfondire un determinato tema), ma anche a bisogni spesso inespressi o inconsapevoli che ho potuto osservare in anni di lavoro con le realtà religiose. Come la necessità di essere aiutate ad alimentare la riflessività in rapporto alla propria vita, personale e comunitaria. Non è raro infatti che, nel tempo, la ripetitività delle pratiche, la protezione istituzionale, l’isolamento tra un dentro e un fuori, e a volte persino la possibilità di contare su guide forti e illuminate, portino le persone a delegare progressivamente il pensiero e la riflessività su se stessi e sulla vita dell’istituzione, di cui esse restano corpo vivo.
Altro bisogno spesso inespresso è la necessità di tenere aperto il rapporto tra la vita religiosa e la libertà personale (di pensiero, di emozioni, di talenti, di attitudini…) dei singoli. Occorre infatti continuare a leggere e verificare in modo intelligente questo confine, trovando forme di umano equilibrio all’interno delle differenti istituzioni. In modo che l’identità e la creatività personale, non solo non vengano soffocate, ma possano addirittura diventare occasione di miglioramento per la vocazione stessa dell’istituzione.
Promuovere il dialogo
e il confronto
Un’altra tappa importante delle formazioni consiste nel mettere a confronto e in dialogo scelte e stili di diverse istituzioni, proprio a partire da dimensioni molto concrete: la gestione dell’accoglienza degli ospiti, le pratiche che possono alimentare una comunione reale all’interno della comunità, le modalità di cura delle liturgie, come supportare il discernimento continuo dei membri della comunità religiosa, o di chi vi fa riferimento, ecc.
Concretamente, nei percorsi fin qui realizzati, questo confronto e questo dialogo sono stati resi possibili grazie agli interventi di sr. Antonella Casiraghi, monaca di Bose. La realtà del Monastero di Bose non è mai presentata come perfetta, o come esempio assoluto di buone pratiche. Il proposito è invece quello di testimoniare un modo di mettere in rapporto alcune pratiche e alcune scelte di gestione con la Parola. Il fine quindi non è, come a volte superficialmente si fa, copiarne alcune scelte. Si tratta invece di confrontarsi con un processo di pensiero e di discernimento, per arrivare poi a delle proprie decisioni, autonome e originali.
Continuare a studiare
i bisogni inespressi
Questo tipo di percorso lascia spesso emergere anche altre necessità delle realtà religiose. Attualmente sto lavorando anche a formazioni che vadano oltre i temi ‘classici’.
Ad esempio, ho compreso l’urgenza di aiutare alcune istituzioni a reinterrogare i rapporti purtroppo usurati con le proprie radici carismatiche, o con le figure dei santi o dei fondatori di riferimento (assieme alle motivazioni profonde che animarono la genesi della loro opera). C’è una fatica nel porsi, con continuità, queste domande radicali: perché, nella sua epoca particolare, il nostro santo, o il nostro fondatore, decise di rispondere a quel bisogno particolare, e anche di dare una certa forma (architettonica, istituzionale, di posizione, di stile,ecc.) alla sua opera? E quali sono, oggi, i bisogni che quello stesso santo o fondatore potrebbe ritenere più urgenti?
Ancora, ho colto la necessità di aiutare a trovare un rapporto maggiormente generativo e costruttivo con il particolare territorio nel quale le realtà sono inserite. Non si tratta ‘solo’ di leggere, di informarsi (anche criticamente), o di aspettare che siano alcune persone o realtà esterne a mettersi in contatto con l’istituzione, ma di capire quale possa essere il ruolo specifico della propria istituzione all’interno di un preciso territorio, di una precisa comunità, quali siano i legami possibili e sostenibili. Si tratta di pensare sensatamente il rapporto tra lo spazio dell’istituzione e il territorio nel quale essa è fisicamente inserita, nell’ottica di generare vita per quel territorio (e per se stessa).
La finalità generale di queste formazioni resta la stessa. Aiutare le istituzioni religiose, per usare un’espressione cara a fr. Roger di Taizé, a rianimare la loro vita dall’interno.
Rossana Brambilla, pedagogista