Ferrari Gabriele
UNA STRANA FORMA DI PACE
2019/5, p. 10
In questo servizio da Bujumbura del 20 marzo scorso, p. Gabriele Ferrari riflette sull’attuale situazione del Burundi, tracciando un quadro di un paese dove non regna più la violenza degli anni passati, ma che si sta isolando dal mondo e consegnando alla Cina.

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Il Burundi visto da vicino
UNA STRANA
FORMA DI PACE
In questo servizio da Bujumbura del 20 marzo scorso, p. Gabriele Ferrari riflette sull’attuale situazione del Burundi, tracciando un quadro di un paese dove non regna più la violenza degli anni passati, ma che si sta isolando dal mondo e consegnando alla Cina.
Ormai verso la fine del mio soggiorno in Burundi cerco di raccogliere le mie impressioni su questo Paese che conosco da oltre cinquant’anni (1966) e che mi è molto caro, anche se, proprio per l’affetto che a esso mi lega, il parlarne e più ancora il riflettere sulla sua situazione mi causa anche una certa sofferenza. Ma è l’affetto che mi spinge a scriverne.
Guardando indietro nella storia devo riconoscere di non aver avuto occasione di vivere fisicamente in questo Paese molti anni, ma ho potuto visitarlo a parecchie riprese soprattutto nei suoi momenti più critici e quindi di partecipare ai suoi drammi. L’ho visto crescere nella sua identità politica attraverso tempi entusiasmanti ma anche nei momenti difficili, qualche volta tragici, e sempre complicati che non è semplice far capire a chi non ci è vissuto. Viaggiando sulle strade del Burundi vedi molta gente in cammino; non sono ben vestiti, non tutti possono prendere i mezzi pubblici, perché “non ci sono più soldi”, dice la gente. C’è calma, ma è una calma che non è del tutto reale. Si direbbe che il Burundi viva una stagione di strana ma anche pericolosa sospensione, come se il tempo si fosse fermato in attesa dell’ennesima tornata elettorale che avrà luogo nel 2020. Nel corso di essa l’attuale Presidente della repubblica potrebbe essere rieletto per la quarta volta, a conferma di una permanenza al potere che non è secondo lo spirito democratico di questa repubblica, nata dopo la guerra del 1993-2000. Ormai però sembra che tutto porti alla sua quarta rielezione, avviando una permanenza al potere sine die. È vero che l’attuale Presidente ha affermato di non sapere se si ripresenterà candidato alla suprema magistratura. Ma delle elezioni del 2020 ormai si parla come di un evento alle porte e in vista di esso si sta mettendo in piedi un altro partito… ma quale sarà il suo esito?
Le mani
della Cina
Alla vigilia ormai delle elezioni, si può dire che il Paese vive una strana forma di pace. La violenza degli ultimi anni si è progressivamente spenta, così pure il banditismo urbano ed extra urbano, il Paese è sotto controllo. Ma è altrettanto chiaro che il Burundi si sta progressivamente isolando dal resto del mondo. Poche le visite di stato da parte dei “grandi” paesi, quelli che contano sullo scacchiere internazionale. Il Presidente di qui, da quando c’è stato il fallito colpo di stato del 2015, non esce più dalle frontiere; le sanzioni economiche e finanziarie imposte dall’Unione Europea e da altri stati occidentali nel 2015, stanno portando il Burundi non solo all’isolamento internazionale ma anche al soffocamento economico e finanziario. Solo la Cina – tra i grandi – è rimasta al fianco del governo, con la triste conseguenza di trasformare il Burundi in un vassallo di quella grande potenza che sta affermandosi nel mondo e sta comprando, pezzo a pezzo, il continente africano. I cinesi hanno offerto e stanno offrendo al Burundi quell’aiuto che gli altri stati gli rifiutano: molte infrastrutture e opere pubbliche sono state finanziate e costruite in questi ultimi anni, ultima un sontuoso palazzo presidenziale costruito sulle colline sovrastanti la città di Bujumbura proprio mentre il Governo decideva di trasferire la capitale a Gitega nel centro del Paese. In cambio di tali opere offerte gratuitamente al Paese, il Burundi permette alla Cina di prendersi il settore industriale e commerciale e minerario di questo Paese, povero e ormai isolato, che però interessa alla Cina per la sua posizione strategicamente importante nel cuore dell’Africa.
È difficile dire quanto la gente si renda conto dove stia andando il Paese. Si sa che ci sono ancora persone che lo lasciano per ragioni di sicurezza. La povertà, il caro vita, i prezzi alle stelle, la mancanza o la ripetuta penuria di carburante che manca perché il governo non dispone di divisa forte per importarlo, i trasporti pubblici che diventano inaccessibili per la gente… rendono la vita cara e difficile. Chi ascolta la radio e guarda i notiziari televisivi può avere l’impressione di un Paese il cui governo è, come si suol dire, “un governo del fare”, il cui parlamento approva – sempre rigorosamente all’unanimità – leggi e decreti di facciata ma dove non si vede crescere il benessere della popolazione.
L’atteggiamento
della Chiesa
E la Chiesa? I vescovi si sono espressi molto chiaramente in un messaggio alla fine dello scorso anno a proposito della crisi del Paese e dell’urgenza di riaprire il dialogo inter-burundese per trovare una strada per far uscire il Paese dalla crisi che l’affligge. Ma il governo non ha reagito a questa proposta, segno di un inusuale stallo nelle relazioni chiesa-stato che sono sempre state mantenute e improntate al dialogo anche in anni più burrascosi del presente. Della crisi e del dialogo inter-burundese non ha voluto parlarne neppure la recente 22a sessione dell’Unione africana del mese di febbraio. Il Presidente spende tempo nel fare meeting e incontri popolari non solo civili, ma anche di formazione e di preghiera alla maniera delle sette religiose (egli e sua moglie sono rispettivamente capi di una “chiesa”). A tali meeting convoca la popolazione per ribadire l’importanza della cultura e della religione e insieme scaricare sul passato coloniale la responsabilità dei mali attuali. Si direbbe che si sia assunto il compito che normalmente riviene alle autorità ecclesiastiche, cosa che imbarazza non poco la gerarchia cattolica che in qualche modo si vede sorpassata. Un sacerdote amico con cui ho potuto parlare mi ha fatto notare che oggi nel Paese sta crescendo una pericolosa crisi di valori, soprattutto attorno ai valori della famiglia e dell’educazione, di quel sano pudore che accompagna la crescita dei giovani e che oggi sembra essere finito … nell’archeologia culturale. Scelte inimmaginabili per la cultura tradizionale del paese si stanno affermando senza che nessuno riesca a far argine. Forse il problema è legato alla scuola che si trova alle prese con le nuove istanze scientifiche e tecniche, ma che è incapace di rimettere in valore quei principi di umanesimo africano che sono alla base dell’educazione. Le aule scolastiche sono state moltiplicate in questi anni per far fronte alle folle di scolari – ormai tutti i ragazzi del Paese devono andare a scuola – ma non è stato possibile trovare il numero proporzionato di insegnanti ed educatori che evidentemente non si possono improvvisare. La scuola non ha solo il compito di insegnare a leggere e scrivere …
Non solo la scuola, ma anche e prima ancora la famiglia è, come si sente dire, débordée, incapace cioè di far fronte al problema educativo, perché non in grado di offrire uno spazio veramente educativo per dare una mano alla famiglia nella ricomposizione del tessuto educativo in un mondo che è corrotto a tutti i livelli, dove non si fa più nulla senza chiedere un compenso monetario, oltre tutto non dovuto, con il risultato che nulla si fa più né per senso civico né per senso di fraternità clanica. L’educazione dei giovani è sfuggita dalle mani della famiglia e anche della Chiesa per finire in quelle della politica. Questi – tutti lo sanno – non sono problemi esclusivamente del Burundi, ma certo qui si sentono e non possono che far nascere serie preoccupazioni in chi guarda al futuro di questo Paese.
p. Gabriele Ferrari
Alcuni pensieri prima di lasciare il Burundi
Scrivo queste righe mentre attendo che venga l’ora di andare all’aeroporto di Bujumbura per prendere l’aereo che mi condurrà ad Addis Abeba e a Milano.
Tra poche ore lascerò questo Paese, un Paese che amo, anche se e forse perché insieme alle molte gioie del ministero missionario mi ha dato anche una certa serie di fastidi e … tante paure. Quando si soffre per una persona ci si accorge di amarla. L’aeroporto di Bujumbura è stato per questi 53 anni il punto di arrivo e di partenza della mia missione … Non riesco a contare le volte che sono venuto per stare o per far visita a questo Paese spesso in occasione di emergenze nazionali (guerre, persecuzione o espulsioni) o comunitarie (per le riunioni dei confratelli o per le bizzarrie di qualcuno di loro) oppure per insegnare come in questi ultimi 19 anni. Ci sono venuto ogni anno senza interruzione dal 2001, dopo esservi stato in modo permanente e - per quello che mi concerneva - anche definitivo, dal 1966 al 1971 e poi dal 1997 al 2000. Troppo poco tempo … ma per fortuna ci sono venuto molte volte nel mio servizio alla direzione generale e ci sono venuto quando la terra scottava … Proprio per questo mi sento legato a questa terra. È il mio primo amore missionario.
Un misto
di sentimenti
Ma sento che questa è l’ultima volta e vivo questo momento con mixed feelings. Gli anni passano e la resistenza fisica si è progressivamente ridotta. Ormai devo confessare che viaggiare mi pesa e mi costa molto più del solito. Anche il mio servizio non è più così necessario. Ragioni affettive, che mi hanno quasi obbligato a venire in Burundi in questi ultimi anni, oggi sono superate dagli avvenimenti. Per questo mi sento pronto a ritenere che faccio bene a chiudere a questo punto il mio servizio, anche se questo passo mi costa. Un servizio che finalmente è stato un bene anche per me, un autoservizio, se così posso dire. All’inizio non riuscivo ad accettare quello che il Nunzio e l’Arcivescovo mi chiedevano. Ricordo l’insistenza con cui nel 1998 mi fu chiesto di andare a insegnare in Seminario maggiore nazionale di Gitega-Songa: mai avevo insegnato in una scuola. Poi mi sono affezionato a quel lavoro e ho insegnato tutto e di tutto. Alla fine, quando avevo finito il servizio perché richiamato di nuovo in Italia, quasi mi dispiaceva di lasciare l’insegnamento. Fui quindi lieto quando il rettore mi chiese di ritornare – con il consenso dei miei superiori – a insegnare come visiting professor. Ora avendo lasciato spontaneamente l’insegnamento in Seminario per non deresponsabilizzare il clero locale in un compito che è anzitutto suo proprio, in questi ultimi quattro anni ho insegnato solo alla propedeutica dei miei confratelli a Bujumbura.
Lascio il Burundi
con più serenità
Ogni volta che ho dovuto venire in Burundi ci sono sempre venuto volentieri, anche se qualche volta, in questi ultimi anni, l’essere qui con i confratelli e soprattutto con la comunità degli studenti mi è stato un po’ pesante; ho provato la solitudine e il vuoto attorno a me in una comunità di confratelli super-impegnati nei loro studi. Quest’ultima volta lo è stato meno di altre volte, però sento che una permanenza più lunga mi peserebbe troppo. Una cosa che questa volta mi ha confortato e fatto piacere è stato vedere che i formatori sono più presenti in mezzo ai giovani e più attenti alla loro formazione che tuttavia essi sanno non è né semplice né scontata.
Lascio il Burundi quindi con più serenità delle altre volte. Mi pare che sia suonata ormai per me la campana dell’ultimo giro, quello finale. Sono vecchio, lo dico anche se con poca convinzione, perché dentro di me mi sento e mi pare di essere ancora il Gabriele di cinquantatre anni fa, quando arrivai qui per la prima volta, quando avevo appena venticinque anni. Ero giovane e pieno di entusiasmo per la missione in questo Paese da tutti considerato una missione fuori serie, per la sua gente e la sua evangelizzazione. La casa in cui abito oggi è ancora quella in cui ho vissuto il primo mese e mezzo di permanenza in questo Paese. È stata ampliata e ingrandita, ma essa mi ricorda quella che ho visto quel giorno, il 7 luglio 1966. Vedo la stanza dove passai quelle prime settimane prima di andare alla scuola di lingua kirundi nel seminario minore di Buta (Bururi), dattilografando la grammatica di kirundi. Mi pare ancora di vedere le facce dei padri che la abitavano e la dirigevano. Eppure quanti anni sono passati! Quasi tutti quei confratelli sono morti e insieme con gli ultimi “resti” sono anch’io diventato uno degli “antenati” della comunità. Questo mi fa riflettere sul tempo e sulla storia, una storia che non interessa ai giovani di oggi, ma che quando è evocata sembra risvegliare in loro una nostalgia di qualcosa che neppure sarebbero capaci di immaginare. Ti ascoltano con interesse, ma per loro è un passato tutto sommato misterioso e quindi affascinante.
Vedo i miei confratelli anziani, i pochi italiani rimasti degli oltre trentasei che sono passati per questa missione. Oggi ce ne sono ancora quattro, il più giovane dei quali è il Superiore regionale. Sono anziani e certi anche malati, ma resistono … con i denti. Io non condivido questa resistenza a oltranza che è contro la storia, ma li capisco: è per loro una questione di vita e di morte e qualcosa che dà senso alla vita, ma quando si è vecchi non è forse bene accettare di esserlo? Quanto potranno ancora durare? Io ho deciso di fare quello che per tanti anni ho insegnato: riconoscere la propria povertà esistenziale.
Una comunità giovane
con molti mah!
Il resto della comunità dei confratelli sono giovani di diverse nazionalità, messicani, camerunesi, congolesi, burundesi ai quali sono affidati compiti pastorali e formativi. Sono evidentemente diversi da noi italiani, hanno degli atout che noi non abbiamo, ma faticano a tenere gli impegni con la nostra precisione e puntualità, faticano a compierli a tempo o nel tempo fissato, hanno una maniera diversa di vivere la vita comunitaria che a noi sembra disordinata … un disordine che a me personalmente dà molto fastidio ma nel quale essi vivono e prosperano. Quando vedo le loro scrivanie cariche di carte e di note d’ogni specie, di penne e telefonini, di fatture, di libri e di quaderni lasciati lì alla rinfusa, mi domando come faranno a ritrovarsi e a dare resoconto delle loro attività… Eppure essi ci vivono dentro ed è proprio a loro che noi dobbiamo passare questo campo di lavoro una volta - e ancora oggi - ben organizzato. Saranno in grado di portarlo avanti? Che cosa resterà di quello che abbiamo incominciato e portato avanti? Ad essi consegniamo un lavoro organizzato alla maniera occidentale ma non possiamo garantire loro gli aiuti economici che hanno accompagnato il nostro lavoro di missionari della vecchia generazione che hanno alle spalle la generosità delle comunità cristiane italiane. Come faranno a continuare?
Lascio un paese
cambiato
Lascio il Burundi e una realtà sociale ed ecclesiale molto diversa da quella che io ho conosciuto ed è normale che così sia. Lascio qui una comunità con prospettive di futuro che non è facile immaginare nei dettagli. Mi sorprendo spesso con una domanda imbarazzante e fondamentalmente ingiusta, ma inevitabile: sarà ancora una comunità saveriana, in altre parole, una comunità come la penso io? Non ho diritto di farmi queste domande, ma non posso sfuggirle. Vedo questi giovani in formazione e non mi sento in grande sintonia con loro. Saranno miei confratelli, ma saranno veri fratelli, veri missionari come io li ho sempre pensati? Mi paiono molto diversi da noi, da me. Tanto per noi essere missionari era una sfida gioiosa e gloriosa altrettanto questi giovani mi sembrano indifferenti e quasi abulici, preoccupati solo dell’esito dei loro esami di filosofia … Vogliono proprio essere missionari? Se fosse vero, mi parrebbe che dovrebbero schiattare di gioia o di sofferenza a seconda delle situazioni che si presentano, invece li vedo entusiasti e impegnati … solo quando c’è da preparare una festa, quando c’è la prospettiva di passare del tempo a chiacchierare o davanti a una birra o al massimo per andare a giocare a basket. E questo mi fa davvero pensare.
Un’altra mia paura è che qui si vada costituendo una comunità saveriana locale chiusa in se stessa e senza sbocchi missionari fuori delle frontiere nazionali dove Cristo ha bisogno di noi. C’è il rischio di costruire una regione saveriana autoreferenziale, che si gestisce in vista di essere a vantaggio di se stessa. Mi pare che si pensi troppo in termini di promozione vocazionale e di formazione dei futuri Saveriani per averne da utilizzare qui sur place e questo temo sia sinonimo di voglia di potere, possibilità di vivere in città dove c’è tutto o quasi tutto, internet compreso. E insieme mi pare di intravvedere la tendenza a rimanere in casa propria, a trattenere i giovani ordinati locali al servizio delle opere di questa regione in questa terra. Questo non dovrebbe accadere perché è contro la natura della nostra Famiglia missionaria che, per natura nostra, esiste per inviare i suoi figli a lavorare fuori delle sue frontiere.
Ecco una serie d’interrogativi e di paure che io sento nel lasciare questa circoscrizione. Inquietudini che vengono dall’amore che sento per questo popolo e per questa Chiesa che sento di amare per il molto bene che essi mi hanno dato.
Gabriele Ferrari s.x.
Bujumbura, 23 marzo 2019.