Prezzi Lorenzo
Interrogativi alla vita consacrata
2019/3, p. 40
Relazione tenuta da p. Lorenzo Prezzi, direttore di “Testimoni”, all’assemblea dei religiosi/e di Bologna, il 2 febbraio, in occasione della giornata della vita consacrata.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
Sinodo dei giovani
INTERROGATIVI
ALLA VITA CONSACRATA
Relazione tenuta da p. Lorenzo Prezzi, direttore di “Testimoni”, all’assemblea dei religiosi/e di Bologna, il 2 febbraio, in occasione della giornata della vita consacrata.
A tre mesi dall’assemblea sinodale sui giovani (I giovani, la fede e il discernimento vocazionale), qual è la recezione di noi consacrati? Non è solo l’interrogativo consueto di ogni elaborazione del magistero (anche se manca ancora l’esortazione apostolica post-sinodale). L’attenzione al sinodo si raccomanda per la distanza della nostra esperienza credente dalla condizione giovanile. Sono pochi i giovani e le giovani presenti nell’assemblea e sono pochi, sempre meno, i giovani che partecipano alla vita della Chiesa. Almeno in Occidente. Se il cambiamento di mentalità delle generazioni ha assunto ritmi vorticosi cosa potranno dire le nostre attempate comunità in merito? Vi è la tentazione di delegare ad altri l’intera questione e di starsene tranquilli nel proprio guscio. È una reazione comprensibile, ma che sconta una duplice fragilità: da un lato lo sperpero dei carismi che lo Spirito ha diffuso nelle nostre vite come non avessero più nulla da dire e, dall’altro, la sordità nei confronti del mondo giovanile e delle sue ricerche spirituali.
I giovani si allontanano
Tutte le indagini sociologiche degli ultimi lustri convergono nel mostrare la continuità dei processi di secolarizzazione delle nostre società anche se l’esito non è tendenzialmente né l’ateismo né l’agnosticismo. La domanda religiosa ha preso altre vie e come l’acqua nei percorsi carsici non sgorga più là dove uno se l’aspetterebbe. Armando Matteo sottolinea l’intuizione di Charles Taylor quando costata il movimento «da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio, a una in cui la fede, anche per il credente più devoto, è solo una possibilità umana tra le altre. Posso magari ritenere inconcepibile l’idea di abbandonare la mia fede, ma esistono altre persone, ivi comprese alcune che mi sono particolarmente care, e il cui stile di vita non posso in tutta onestà respingere come semplicemente depravato, cieco o indegno, che non hanno fede (o quanto meno non hanno fede in Dio o nel trascendente)». Purtroppo però la novità di quest’ora della storia non si annuncia unicamente in questa trasformazione della scelta del credere, in una delle tante possibilità dell’esistenza umana; quella del credere diventa, in verità, giorno dopo giorno, una scelta minoritaria; di più, diventa una opzione di cui non essere più orgogliosi e fieri. Se ci fu un tempo in cui era la professione di ateismo ad essere guardata con sospetto, oggi è quella di fede che attira su di sé una valutazione sinistra. È una scelta possibile, ma sospetta.
Il distacco o la diffidenza verso ogni forma di autorità religiosa è un distacco dal modo prevalente in cui le Chiese e le istituzioni religiose hanno sin qui gestito il sacro. È l’insofferenza verso una proposta religiosa e morale che sembra negare la libertà e lo sviluppo personale. Ne consegue il disaccordo con l’etica sessuale predicata dalla Chiesa, il rigetto della funzione disciplinante della religione, la non accettazione dell’approccio autoritario della Chiesa ecc. Commentando l’ultima indagine Istat sulla pratica religiosa (2015) Franco Garelli sottolinea non tanto i 29% di coloro che hanno una pratica regolare, ma quello che succede nelle diverse età. Nell’arco di un decennio il gruppo che si è più assottigliato è quello dei giovani fra i 18 e i 24 anni (un -30%). Lo stesso è avvenuto per gli adulti dai 55 ai 59 anni mentre le altre coorti di età hanno cali fra il 20% e il 10%. La disaffezione giovanile è più scontata, ma non lo è il mancato ritorno alla fede delle generazioni più adulte. Come a dire che i giovani smettono di frequentare e lo fanno per sempre. È per certi tratti emblematico il racconto autobiografico di Emmanuel Carrére nel volume Il Regno (Adelphi 2015) in cui racconta il suo ateismo, la scelta successiva di credere dentro la Chiesa cattolica e poi la scelta di andarsene verso sponde agnostiche. Termina con una espressione suggestiva: «Ti abbandono Signore, tu non abbandonarmi».
Vita consacrata: non pervenuta
Non credo ci sia bisogno di molte parole per costatare la scarsa presenza di giovani (alcuni e alcune davvero eccellenti) fra le nostre file consacrate. Dopo una significativa crisi alla fine dell’800 e una lenta ripresa all’inizio del ‘900 le famiglie religiose hanno conosciuto una formidabile crescita nei decenni a metà del ‘900 fino agli anni ’70 quando è cominciato un calo che non è occasionale ma di sistema. Le religiose hanno perso in 50 anni la metà dei loro effettivi e quelle che restano hanno una età media assai alta. Così i religiosi anche se i numeri sono un po’ meno severi. Giovanni Dal Piaz ne ha studiato in profondità le motivazioni. È del tutto insufficiente pensare che la crisi sia di carattere congiunturale nella speranza che il flusso vocazione possa riprendere come prima o similmente a prima. In realtà il panorama è assolutamente nuovo, una svolta nella sensibilità religiosa destinata a durare a lungo. Vi è anzitutto un profondo mutamento della dinamica demografica. Le famiglie hanno meno figli (con problemi crescenti per la stabilità dell’intero sistema) e lo stato realizza un percorso pubblico di formazione scolastica che sostituisce i seminari e le scuole apostoliche. Un secondo fattore è l’affermarsi di una visione secolarizzata della vita che già abbiamo accennato in precedenza. Il credere ha oggi un carattere probabilistico, leggero e incerto. Un giovane crede “probabilmente” in Dio, ma è poco interessato alle appartenenze ecclesiali, soprattutto quelle più profilate e impegnative come appunto la consacrazione religiosa. Inoltre la Chiesa è percepita come una istituzione opaca, mentre è assente la sua comprensione sacramentale, misterica e spirituale. A tutto questo si aggiungono mutamenti interni alla Chiesa, come il venir meno dello stato di perfezione per quanto riguarda la vita consacrata e il ruolo sacrale per quanto attiene alla scelta presbiterale. Si è moltiplicato il ventaglio di vocazioni possibili. Oltre alla famiglia, al sacerdozio e alla vita religiosa vi sono gli impegni nel volontariato, nell’Ordo virginum, nell’eremitismo, nel diaconato permanente, nel movimentismo laicale, nelle fraternità diocesane. In ogni caso, anche nei giovani più vicini alla vita ecclesiale lo spazio per una vocazione religiosa sembra mostrare più ostacoli che opportunità. Pesa in particolare il celibato, la solitudine e la definitività della scelta. C’è una evidente ritrosia a riconoscersi in una ipotesi vocazionale classica, mentre se si pensa a una partecipazione ecclesiale la si ipotizza piuttosto nel volontariato, nella flessibilità dell’impegno, nelle reversibilità delle scelte limitando al massimo lacci e laccioli giuridici e vincoli istituzionali.
Assemblea pre-sinodale
Anche il sinodo dei giovani, come tutti i precedenti, ha una sua scansione. Annunciato il 15 ottobre 2016, si avvia con il documento preparatorio (Lineamenta) il 13 febbraio 2017, con un successivo incontro dei responsabili della pastorale giovanile (5-7 aprile 2017), un seminario di esperti (10-15 settembre 2017), l’Instrumentum laboris (8 maggio 2018) e poi la celebrazione assembleare a Roma 3-28 ottobre 2018. Gli elementi più originali sono stati i due seminari internazionali e il coinvolgimento di alcune decine di migliaia di giovani grazie ai social, ma in particolare l’assemblea pre-sinodale dei giovani (19-24 marzo 2018) che ha raccolto 300 giovani da tutto il mondo, facendo fare a loro una «prova» del sinodo di qualche mese dopo. Hanno concluso con delle «proposizioni» come si usa nei sinodi il cui peso è visibile nella ripresa dentro il documento finale del sinodo.
Se il primo guadagno è stata l’apertura a tutti i giovani (credenti e no), il secondo è il riconoscimento della nuova dislocazione della coscienza giovanile. Pur nell’enorme diversità dei luoghi, delle culture e delle storie, la percezione dell’insufficienza dei percorsi formativi tradizionali è diventata evidenza. L’azione della famiglia, della scuola e della Chiesa non basta più. «Ho l’impressione – ha detto un giovane al papa – di non aver realmente costruito una colonna vertebrale, mentre vorrei costruire una fortezza nel mio cuore. Voglio poter scegliere e avanzare, ho questa volontà nel profondo, ma non so da dove cominciare. Può indicarmi un cammino da prendere?». La coscienza, «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio» (GS, 16) viene certo alimentata dalle tradizionali agenzie, ma è messa alla prova dalle fragilità delle famiglie, dalla distanza della scuola rispetto al compito educativo, dall’insofferenza verso l’istituzione ecclesiale. Essa trova conforto nei gruppi dei pari, nelle filosofie alternative, nei social networks. Lì si affrontano i momenti cruciali: «decidere il nostro indirizzo di studi, scegliere la nostra professione, decidere ciò in cui credere, scoprire la nostra sessualità e fare le scelte definitive per la vita». Nelle reti non c’è alcuna parola d’autorità; ciò che convince è il dialogo e il consenso. I gestori delle reti trasformano le informazioni raccolte nella materia prima più preziosa, commerciabile, redditizia, ma sono indifferenti al destino del singolo. Se i social hanno il potere senza precedenti di unire persone geograficamente distanti e di offrire una formazione altrimenti irraggiungibile, favoriscono anche l’isolamento, la pigrizia, la desolazione. «Gli spazi digitali ci rendono ciechi alla fragilità dell’altro e ci impediscono l’introspezione». Se all’autorità si sostituisce il dialogo e il consenso, temi di particolare urgenza come l’aborto, la sessualità, la convivenza, il matrimonio richiederebbero «che la Chiesa cambiasse i suoi insegnamenti o, perlomeno, che fornisse una migliore esplicazione e formazione su queste questioni».
Quattro temi del documento finale
A distanza di qualche mese dalla conclusione del sinodo non si registra una particolare attenzione, non comparabile quantomeno a quella che ha seguito i sinodi sulla famiglia e alle attese riguardo al prossimo sinodo sull’Amazzonia. Il tema, invece, lo merita. Credo anzi che una certa afasia sia legata alla difficoltà di mettere mano alla questione giovanile e al «non detto» su alcuni punti di carattere culturale e morale. Lo sfondo del documento finale del sinodo è l’icona dei discepoli di Emmaus. «Abbiamo riconosciuto nell’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35) un testo paradigmatico per comprendere la missione ecclesiale in relazione alle giovani generazioni». Gesù cammina con loro, li interroga, ascolta e li introduce alla interpretazione di quanto è accaduto in base alle Scritture. L’insieme dei lavori e il testo finale hanno una triplice scansione: il riconoscimento del contesto in cui i giovani sono inseriti evidenziandone i punti di forza e le sfide; una seconda parte interpretativa che fornisce alcune chiavi di lettura (la giovinezza come dono, la vocazione, l’accompagnamento, il discernimento); la terza raccoglie le scelte per una conversione spirituale, pastorale e missionaria.
Sulla scorta dell’assemblea semestrale dei superiori generali (Testimoni 1/2019 p. 1) sintetizzerei in quattro elementi l’interesse del sinodo per la vita consacrata: la vocazione, il discernimento, l’accompagnamento e il protagonismo giovanile.
1. La vocazione è un singolare intreccio fra scelta divina e libertà umana. Va pensata fuori da ogni determinismo e da ogni estrinsecismo. Non è un copione già scritto né per quanto riguarda la vocazione familiare né per le altre (da quella professionale a quella civile). La vocazione è la vita stessa così come si struttura in relazione con Dio e gli altri. «Il dono della vita consacrata, nella sua forma sia contemplativa che attiva, che lo Spirito suscita nella Chiesa ha un particolare valore profetico in quanto è testimonianza gioiosa della gratuità dell’amore» (n 88). La fraternità è scuola di comunione, centro di preghiera, luogo di testimonianza e di dialogo fra le generazioni e le culture. «Se in alcune regioni sperimenta la riduzione numerica e la fatica dell’invecchiamento, la vita consacrata continua ad essere feconda e creativa anche attraverso la corresponsabilità con tanti laici». Tutte le vocazioni prendono forma nella Chiesa. Se lo Spirito è quello che le crea, il compito della Chiesa è di riconoscerle e alimentarle. Una chiesa sacerdotale, mistica e profetica, non può non essere solidale con il mondo, lasciandosi ferire da ciò che ferisce tutti e rallegrandosi da ciò che tutti rallegra. Purtroppo la parola vocazione oggi gode di cattiva fama. Ma proprio per questo va riscattata aiutando i giovani a cogliere la dimensione fondamentale di sentirsi amati da Dio. Questo impone alla vita consacrata una chiara comprensione della reciprocità delle varie vocazioni nella Chiesa. Ciascuna vive in relazione alle altre e grazie ad esse. Altro compito per noi è quello di chiarire quanto attiene al carisma e quanto appartiene alla funzione, cioè al servizio. La vita consacrata diventa segno se custodisce e alimenta la priorità del carisma ed elabora anticorpi in relazione al pericolo di un funzionalismo, cioè l’esaurimento della propria vita in un servizio o professione. Un delicato equilibro che regola anche il rapporto con la Chiesa locale. Siamo del tutto interni alla Chiesa locale e ne respiriamo la vita, ma per essere davvero utili, dobbiamo custodire la nostra specificità e il nostro carisma spirituale. Una tensione salutare che dovrebbe abilitare i religiosi e le religiose ad un annuncio kerigmatico, a una testimonianza diretta e immediata di ciò che Gesù e l’Abbà rappresentano per noi. Vissuto, carisma, fraternità e fede adulta si impastano. Il contatto coi giovani, a partire dai giovani religiosi, ridefinisce l’impasto e apre a sfide anche generose e «impossibili».
2. Un secondo nucleo è attorno al compito dell’accompagnamento. Se la formazione della coscienza giovanile si forma anche fuori delle tradizionali agenzie formative (famiglia, scuola, gruppi) diventa importante ogni forma di accompagnamento. L’accompagnamento è un elemento chiave della spiritualità. Non è una tecnica, è piuttosto un’arte, un atteggiamento di vita spirituale che spinge a uscire, ad andare verso le periferie, anche a costo di sbagliare. Il riferimento ai discepoli di Emmaus apre a un nuovo modo di essere Chiesa e di essere comunità. La piegatura individualista e narcisista del nostro tempo ha qualche riscontro anche nelle nostre pratiche di vita e nella conseguente scarsa disponibilità ad accompagnare altri e a farci accompagnare noi stessi. Il documento finale parla della comunità come «il soggetto primo dell’accompagnamento» (n. 92). Sappiamo quanto la preghiera, la fraternità e il servizio ai poveri facilitino la fedeltà e il discernimento. Non dobbiamo perseguire un accompagnamento immediatamente finalizzato al reclutamento. Solo se è libero e liberante sviluppa una attrazione positiva, senza diventare proselitismo. Accompagnare significa da subito abilitare gli altri e in particolare i giovani a coinvolgersi positivamente con i loro coetanei. «Nell’accogliere i giovani nelle case di formazione o seminari è importante verificare un sufficiente radicamento in una comunità (cristiana), una stabilità nelle relazioni di amicizia con i pari, nell’impegno di studio e di lavoro, nel contatto con la povertà e la sofferenza. Nell’accompagnamento spirituale è decisivo iniziare alla preghiera e al lavoro interiore, imparando il discernimento prima di tutto nella propria vita, anche attraverso forme di rinuncia e di ascesi» (n. 100). L’accompagnamento non è tecnica, ma arte artigianale. Volendo seriamente cambiare certi atteggiamenti ci si dovrebbe chiedere anche quanti giovani laici e laiche sono presenti normalmente nell’équipe formativa. Ci si dovrebbe interrogare su quale tipo di formazione permanente per i formatori, i direttori spirituali, gli stessi superiori.
3. «Il termine discernimento è usato in una pluralità di accezioni, pur collegate tra di loro. In senso più generale discernimento indica il processo in cui si prendono decisioni importanti; in un secondo senso, più proprio della tradizione cristiana, corrisponde alla dinamica spirituale attraverso cui una persona, un gruppo o una comunità cercano di riconoscere e di accogliere la volontà di Dio nel concreto della loro situazione». «Durante il sinodo abbiamo riconosciuto alcuni elementi comuni, che non eliminano le diversità dei linguaggi: la presenza di Dio nella vita e nella storia di ogni persona; la possibilità di riconoscerne l’azione; il ruolo della preghiera, della vita sacramentale e dell’ascesi; il confronto continuo con le esigenze della parola di Dio; la libertà rispetto a certezze acquisite; la verifica costante con la vita quotidiana; l’importanza di un accompagnamento adeguato» (n. 104). Il discernimento ha a che fare con il cuore, con la coscienza e la sua formazione. Per certi tratti discernere implica pregare, impegnarsi in una lotta spirituale. «Il discernimento come dimensione dello stile di vita di Gesù e dei suoi discepoli permette processi concreti che puntano ad uscire dall’indeterminatezza, assumendo la responsabilità delle decisioni. I processi di discernimento non possono quindi durare indefinitivamente, sia nei casi di percorsi personali, sia in quelli comunitari e istituzionali. Alla decisione segue una fase altrettanto fondamentale di attuazione e di verifica nella vita quotidiana» (n. 113).
4. Il quarto nucleo è quello del protagonismo giovanile. «La partecipazione responsabile dei giovani alla vita della Chiesa non è opzionale, ma un’esigenza della vita battesimale e un elemento indispensabile per la vita di ogni comunità. Le fatiche e fragilità dei giovani ci aiutano ad essere migliori, le loro domande ci sfidano, i loro dubbi ci interpellano sulla qualità della nostra fede. Anche le loro critiche ci sono necessarie, perché non di rado attraverso di esse ascoltiamo la voce del Signore che ci chiede conversione del cuore e rinnovamento delle strutture» (n. 116). I giovani «sono portatori di una inquietudine che va prima di tutto accettata, rispettata e accompagnata, scommettendo con convinzione sulla loro libertà e responsabilità. La Chiesa sa per esperienza che il loro contributo è fondamentale per il suo rinnovamento. I giovani, per certi aspetti, possono essere più avanti dei pastori» (n. 66), anche se non possono fare a meno di loro e delle comunità. Vi è l’urgenza di passare dal “fare per i giovani” al “fare con i giovani”. Il sinodo è stato un continuo appello a guardare con simpatia e a coinvolgersi con i giovani, fino a riconoscerli come luogo teologico, come realtà da cui partono autentici appelli di Dio per la sua Chiesa. L’ansia di un loro ostinato indottrinamento perseguito nel passato e ancora vivo in molti atteggiamenti deve lasciare lo spazio a un camminare assieme, ad una condivisione di gioie e fatiche. Per noi religiosi e religiose è un appello ad alleanze intergenerazionali che sono di importanza capitale per il futuro. Anche per sfuggire da atteggiamenti clericali e di potere.
Provocanti e provocati
Il confronto con il mondo giovanile sollecitato da uno dei più radicali cambiamenti antropologici innestato dalla triplice biforcazione globalizzante, numerica e genetica può trovare nella vita consacrata, estranea e quasi contrapposta a ogni forma di sapienza contemporanea, un corrispettivo intrigante. Noi religiosi e religiose siamo «fuori del mondo», non supportati da alcuna plausibilità della comunicazione globale. Per molti siamo semplici epigoni di un mondo tramontato. Sappiamo dalla nostra tradizione cosa significa «volare nel vuoto». Già Lutero aveva con rigore e durezza annullato anche il legame più solido, quello con la Scrittura e la vita cristiana. Per il riformatore i voti dei consacrati sono opposti alla Parola di Dio, sono contro la fede e contro la ragione: un monumento alla volontà luciferina di meritare la grazia. A cinque secoli di distanza certo il giudizio suona superato, ma esso rimane l’attacco più radicale che la vita religiosa abbia conosciuto. Una storia e una condizione che permette una vicinanza simpatetica con i volteggi plurimi e senza rete a cui sono soggette le generazioni più giovani. Faccio tre esempi.
Anzitutto il rapporto con la propria sessualità. Anche senza considerare le deduzioni più radicali della teoria di genere, la sessualità per i giovani non è solo un destino biologico ma anche un condizionamento storico e, almeno in parte, una scelta. Nessuna delle generazioni precedenti l’ha vissuta così. Noi, come religiosi, scegliamo di modellare una sessualità, accettata e ricevuta come dono, ad un esito di infecondità e a un «non esercizio» di relazione fisica. Noi comprendiamo i diversi sbocchi e le molte inquietudini che accompagnano le domande sul proprio fisico e il suo significato scommettendo sui simboli (segno del Regno che viene) piuttosto che sugli impulsi. Liberi quindi, ma senza per questo essere prigionieri di nuove ideologie, come mostra un giudizio provocatorio, netto e discusso di sr. Noelle Hausman: «Nel momento in cui le donne rassomigliano sempre più agli uomini e gli uomini alle donne ci si può domandare se i dinamismi narcisistici, omosessuali e infantili di onnipotenza che è necessario rapire all’altro (parlo in quanto donna) non abbiano investito in molti aspetti la vita consacrata. Ora uno dei problemi più difficili per la Chiesa di domani non sarà la questione del ruolo delle donne, ma quella del posto ancora lasciato agli uomini per essere se stessi secondo Dio». «Per essere come l’uomo la donna impone così all’uomo di essere meno che se stesso. E l’uomo, per una sorte di affezione al contrario dona alla donna di accedere con lui al mondo narcisistico ove ciascuno rende l’altro infecondo a forza di rassomigliargli». Un secondo esempio è quello della convivenza interreligiosa. Per i giovani è un dato e la normalità. Senza l’interrogazione sul significato. In particolare del fondamentalismo islamico. È evidente l’intollerabilità della violenza in nome della fede, ma quello che l’Occidente non capisce e teme è che la fede rappresenti quell’incondizionato della coscienza che può chiedere anche l’offerta della vita come il martirio. L’assolutezza avvicina e divide le due fedi. Il religioso sa che la propria scelta incondizionata attinge a una verità sempre perfettibile perché essa è la persona di Gesù e il suo insondabile mistero. Prende quindi sul serio l’assolutezza altrui e ne alimenta lo scavo interiore convinto che i semi del Verbo e l’onesto confronto con le culture del moderno possa favorire il meglio della loro tradizione.
Un terzo esempio è sul versante dei modelli familiari. Dopo l’approvazione della legge sui pacs (in Italia, le unioni civili) ci si chiedeva in Francia se le comunità religiose non andassero collocate dentro i pacs nell’anagrafe civile. Conviventi i primi, conviventi anche i religiosi. Una forma di vita evangelica nata al finire del terzo secolo diventava nella grammatica burocratica una delle forme più recenti di vita familiare. I difficili e complicati rapporti amorosi delle nuove generazioni hanno alimentato la pluralità dei modelli di convivenza familiare. La forma «paradossale» di una famiglia – comunità religiosa che non nasce dalla carne e dal sangue dovrebbe evitarci lo spavento davanti alla nuova realtà sociale. In qualche maniera la vita consacrata potrebbe interpretarla per accompagnarne gli sviluppi di maturazione a partire dalla propria identità: forma altra e compatibile rispetto alla famiglia cristiana. Una distanza e una intenzionalità, fra comunità religiosa e matrimonio cristiano, capace di ridare alla famiglia tutta la sua potenza di progetto e di sogno.
Esempi paradossali certo, ma credo utili per farci capire che la lontanissima esperienza delle giovani generazioni è meno estranea di quanto possa apparire e dialogare con essa può essere utile ad apprezzare il dono che il Signore ci ha fatto. «Spazio alla legge delle beatitudini – suggerisce papa Francesco – alla gioia e alla libertà che la novità del Vangelo ci porta. Il Signore ci dia la grazia di non rimanere prigionieri, ma ci dia la grazia della gioia e della libertà che ci porta la novità del Vangelo».
Lorenzo Prezzi