Cozza Rino
La sfida del fare verità
2019/3, p. 34
Occorre cercare per sé una figura storica più congruente con l’odierno orizzonte umano dell’esperienza, perché l’attuale non è più in tutto comprensibile nelle sue motivazioni e scelte apostoliche.

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Serve una nuova immaginazione
LA SFIDA
DEL FARE VERITÀ
Occorre cercare per sé una figura storica più congruente con l’odierno orizzonte umano dell’esperienza, perché l’attuale non è più in tutto comprensibile nelle sue motivazioni e scelte apostoliche.
Senza l’attuale crisi, nella vita religiosa non si farà verità; crisi necessaria, perché non si possiede mai la verità in modo assoluto, dato che non possiamo esaurire tutta la sua ricchezza in un solo momento essendo questo una modalità provvisoria di abitare il tempo.
La grande sfida che oggi la VC ha davanti, è quella di cercare per sé una figura storica più congruente con l’odierno orizzonte umano dell’esperienza perché l’attuale non è più in tutto comprensibile nelle sue motivazioni e scelte apostoliche. Dire nuovo secolo e millennio non significa dire soltanto cambiamento di date ma significa dire cambiamento di schemi esemplari, specialmente quelli che riguardano la persona, la spiritualità, i servizi di apostolato, il modo di sentire l’istituzione, l’autorità, e i modi di rendere esplicita e feconda la koinonia. A tal fine – disse papa Francesco – «serve una Chiesa capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale in cui si trova»: stagione di potatura e di alleggerimento. Da qui l’invito ancora del papa: «Mi aspetto che ogni forma di vita consacrata si interroghi su quello che Dio e l’umanità di oggi domandano», con il coraggio di lasciarsi alle spalle le vie già frequentate e avventurarsi su strade sconosciute, senza lasciarsi tentare dalla «conservazione tranquillizzante di una vita fatta di tradizioni, formule, devozioni ormai ripetitive e di routine, piuttosto di impegnarsi a reimpiantare i carismi nel terreno dell’odierna cultura.
Da qui l’urgenza – è detto in “Per vino nuovo otri nuovi” -«di intraprendere nuovi passaggi affinché sistemi, strutture, diaconie, stili, relazioni e linguaggi prendano carne nella vita».
Mi soffermo a riflettere su queste ultime istanze che vanno a dire ciò che serve alla VC nell’intento del fare verità.
«Gli ideali prendano carne in nuovi sistemi, strutture, diaconie»
Già lo strumento di lavoro del congresso mondiale della VC (Roma 2004) diceva: «La VC ha strutture e organizzazione che rispondono alla sua storia gloriosa». La maggior parte degli Istituti che specie dal 1700 al 1900 sono nati per promuovere una causa e servire un ideale, oggi si ritrovano «ad essere servi di ciò che doveva loro servire: ossia i servizi sono divenuti padroni.
La consapevolezza di ciò «domanda ora un cambiamento di mentalità profondo, che renda possibili nuove forme di presenza nelle quali la vita non si veda soffocata». Veniamo dal tempo in cui il surplus numerico di religiosi e religiose poteva far sì che si potesse rispondere a una molteplicità di «desiderata sociali», ma successivamente, «questa funzione è andata a essere sempre più tollerata dallo Stato come funzione supplente, in sostituzione di specializzazioni laiche, precedentemente non ancora sufficientemente attrezzate».
Oggi il problema sta nello sperimentare che ogni sistema stabilizzato tende a resistere al cambiamento. È il caso della VC la quale nella sua storia è andata creandosi un tipo di pensiero che non l’ha facilitata a imparare qualcosa di nuovo, per cui non è stata in grado di promuovere qualcosa di diverso costringendola a strategie di sopravvivenza non atte a traghettarci al futuro. D’altronde è giusto – scrive S. Abruzzese, noto sociologo della VC – che gli ambiti tradizionali dell’aiuto alle povertà attraverso scuole, ospedali, strutture di vario tipo, abbiano trovato ormai i propri professionisti e il proprio sapere specialistico.Tutto questo porta alla consapevolezza che una istituzione a fine apostolico non può essere pensata prevalentemente come organizzatrice di servizi – specie in un tempo in cui la società, sempre meno chiede alla vita religiosa di essere utile in ciò – ma richiede piuttosto d’essere utile principalmente in termini di «senso» in riferimento all’essere comunità di «memoria» e di «racconto» di ciò che Gesù disse e fece, non accontentandosi di offrire di sé un'immagine etico virtuosa, incapace di catturare l'interesse e la passione in particolare delle giovani generazioni. Ai religiosi/e spetta saper raccontare, anche attraverso l’azione apostolica, un’esperienza dello Spirito, mostrare la ricchezza, la bellezza di una particolare eredità spirituale, attraverso cui suscitare il desiderio di condividere la medesima esperienza con altri che guidati dal di dentro - perché abitati dalla stessa interiorità di un fondatore - scoprono una sintonia, una consonanza vocazionale e carismatica infusa dallo Spirito Santo.
Dunque la VC non può che manifestarsi innanzitutto come una chiamata all’interiorizzazione rimettendo in circolo la capacità di entrare nelle profondità del cuore, da far dire: dove altro potrei cercarmi se non entro di me? Se questo viene meno non rimane che una vita religiosa senza «mistica, demotivata e annoiata, abitudinaria; che produce vite a metà, asfissiate dall’inerzia di un ordine immutabile e di tradizioni che non si mettono in discussione; vite che vita non sono, per il loro essere assoggettate al funzionamento delle istituzioni».
«Gli ideali prendano carne in nuovi stili di vita»
Gli stili di vita dei religiosi e religiose rispondono alla nuova domanda antropologica e teologica?
«La VC con i suoi stili standardizzati (troppo spesso fuori contesto culturale), e l’affanno per la gestione delle opere rischia di non intercettare il desiderio più profondo dei giovani», specie di quelli capaci di “sognare”, i quali, nell’attuale situazione, vedono poca possibilità di realizzarsi sulla linea del sognato. Dopo il Concilio, il desiderio di «più vangelo vissuto», è venuto da laici per i quali originalità e tradizione non erano affatto ritenuti tra loro incompatibili; infatti secondo l’etimologia, «originale» non è ciò che è del tutto nuovo, ma ciò che è più vicino alle origini e dunque capace di generare, attingendo alla forza delle radici, all’energia della fonte. È, secondo l’espressione di Kierkegaard, un retrocedere avanzando. Per questi christifideles l’eredità del passato non andava conservata, ma riscoperta e diversamente rigiocata con coraggio, per ospitare la ricchezza plurale della vita che viene.Presero le mosse dall’aver compreso che non era più il tempo di progettare la vita sulla base di un’identità data per acquisita, ma che era giunto il tempo di impegnarsi nella promozione di «nuovi processi per nuovi orizzonti».Avevano preso coscienza che il nuovo stile di testimoniare il Dio della vita non passava attraverso le risposte misurate su quell’efficienza che fa sviluppare burocrazie che assorbono una grande quantità di energie; non passava dall’attivismo spesso alienante, lontano dal favorire la creatività ma che anzi offusca il carattere simbolico della vita evangelica, portando sovente a un indebolimento motivazionale, alimentato da frustrazione, astio, delusione, indifferenza.
Inoltre la vita religiosa non potrebbe essere una immagine privilegiata di sequela, nel suo cammino verso Dio, se il suo stile di vita non è anche trasparenza di alcune dimensioni dell’esistenza, quali l’umanità, il sentimento, la tenerezza, la bellezza, la passione, il desiderio, la fraternità, l’amicizia, la corporeità. Sono questi – ma non solo questi – gli aspetti che hanno bisogno di essere detti con atteggiamenti dal sapore nuovo per poter entusiasmare le persone nelle fasi migliori della loro vita, e trasformare poi l’entusiasmo in progetti di esistenza, in grado di offrire considerevolmente di più, in termini di senso, di prospettiva e di speranza.
«Gli ideali prendano carne in nuovi linguaggi»
Molte parole che hanno portato ai grandi concetti su cui si faceva leva nel trattare di vita religiosa stanno subendo la fine, non solo per incomprensione, ma soprattutto per insignificanza nell’attuale cultura. È la stanchezza delle parole la prima povertà nell’ età degli attraversamenti dei guadi.
È da vedere anche in questo la causa per cui l’idea della vita religiosa sta svanendo nell’immaginario, finendo per essere un tesoro nascosto sotto il grigiore di parole e di frasi fatte per altre stagioni culturali.
Simon Weil diceva che si può morire anche di fame di parole, perché le parole illuminanti e capaci di dare senso alle cose, sono necessarie quanto l’acqua di fonte e il pane quotidiano. Anche la vita religiosa, oggi, per non morire ha bisogno di parole nuove che sappiano cogliere e dare forma ai sogni che Cristo aveva – questa è la sua funzione – e che prendevano forma ove si palpa la fragilità dell’esistenza. Parole che in questo tempo di rivolgimento – direbbe J.F.Hölderlin – devono essere sperimentate come “venti” (ruah), respiri, brezze del mattino. Da qui la domanda: sono così le parole dominanti nella vita religiosa, oppure nei nostri linguaggi c’è poca vita perché tanto ripetitivi, invadenti, sempre più incapaci di parlarci davvero, tendenti in tutti i modi a far sembrare vivo ciò che è morto? Parole che danno corpo a «discorsi che risuonano un qualcosa di stanco, di polveroso, di inadeguato, e quindi ancora una volta impotenti»?
Per essere trovata credibile e desiderabile la VC deve trovare parole nuove nel proporre inediti schemi di vita non «sigillati», aperti a Dio, al mondo, alla storia, ma per poterlo fare deve trovare innanzitutto un determinato linguaggio che dica la distanza da un certo stile, da un dogmatico quanto inattuale universo concettuale. Ogni linguaggio porta con sé tutta intera la cultura che lo ha espresso, con il suo ethos, i suoi criteri di valutazione, l’insieme dei suoi valori e della loro gerarchia. Tradurre la fede nel linguaggio della cultura moderna significa quindi non solo rivestirla di nuove parole ma inserirla, con giusto discernimento nei nuovi valori che questa cultura ha fatto emergere. Nel passato J.Maritain ed E.Mounier, si adoperarono in questo per l’uscita della Chiesa da una forma di cristianità e conseguente linguaggio di stampo medioevale-sacrale. Questo è anche il compito di fronte al quale ora si trova la vita religiosa: svestire il proprio pensiero da una cultura etica arcaica farcita di astratti idealismi, espressi in linguaggi non all’altezza della coscienza morale cui lo spirito critico è giunto.
Per poter guardare con fecondità verso il futuro
Faccio sintesi di quanto fin qui detto. La VC non è data dalla fossilizzazione delle sue espressioni storiche e delle sue formulazioni dottrinali, ma è data dall’essere un organismo animato dallo Spirito che cresce e si arricchisce in comprensione, strada facendo su nuovi percorsi.
Una domanda generatrice di nuove possibilità è: quali sono i presupposti sottesi ai nostri codici giuridici, etici e di pensiero, che noi per troppo tempo abbiamo lasciato pigramente invecchiare, senza verifiche, sotto la polvere delle abitudini?
È tempo di una vita consacrata animata dalla ricerca costante di un Dio che si lascia incontrare e che ci coinvolge nel suo farsi presente nel mondo d’oggi; dunque di una vita consacrata (donata) in tensione dinamica, disposta a lasciarsi rifare, ricreare da Dio. Una vita consacrata non insediata in una abitazione stabile, in un discorso asserragliato nella visione del mondo, in scelte operative (opere), proprie di un particolare momento storico, pena la stasi, la stagnazione, la morte.
Questo è il dono che i religiosi/e dovrebbero fare alla Chiesa perché in questo sta l’essenza della loro vocazione, essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica.
Rino Cozza csj