La Mela Maria Cecilia
Verità con Dio e se stessi
2019/3, p. 26
Non si può capire davvero cosa sia la vita cristiana se non si torna a un’autenticità di fondo nell’esperienza del proprio cuore. Bisogna imparare a dire la verità a se stessi e a Dio.

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Per un fecondo cammino quaresimale
VERITÀ CON DIO
E SE STESSI
Non si può capire davvero cosa sia la vita cristiana se non si torna a un’autenticità di fondo nell’esperienza del proprio cuore. Bisogna imparare a dire la verità a se stessi e a Dio.
In una società come la nostra contrassegnata dalla fretta, dal frammentario e dall’evasione da se stessi, le nostre comunità di Vita consacrata e le Società di Vita apostolica sono chiamate più che mai a manifestare il volto bello e sereno della pace interiore quale risposta concreta e convincente. Alla base di tante depressioni e incertezze c’è spesso questo continuo oblio di sé che lascia la persona avvolta in una sfera di indeterminata evanescenza. È sempre valido l’insegnamento degli antichi Padri del deserto dal chiaro rimando alla saggezza antica; ad esempio Evagrio Pontico (+399) così esorta: «Se vuoi conoscere Dio, conosci prima te stesso». Abba Nilo (+450) non nasconde lo sforzo di questo impegno: «Nulla è più difficile che conoscere se stessi, nulla più faticoso, nulla richiede un lavoro maggiore. Tuttavia, quando hai conosciuto te stesso, potrai conoscere anche Dio».
Un’immagine
deformata di Dio
L’immagine deformata che oggi si ha spesso di Dio è un campanello d’allarme sulla perdita d’identità dell’uomo, sulla tendenza a proiettare sul piano spirituale – spesso generico e indistinto – distolte percezioni o eccessivi psicologismi che rendono spesso pesante e difficile la relazione con se stessi e con gli altri. Lungi dall’essere un pio rifugio o una devozione consolatrice, la preghiera è uno tra i preziosi strumenti che la pratica cristiana ci offre per alimentare e maturarci lungo le vie dello spirito. Il salmo 36 contiene un versetto che può farci da guida: «Sta in silenzio davanti al Signore, e spera in Lui».
Come ha detto papa Francesco durante l’incontro con i sacerdoti e i consacrati nel duomo di Milano il 25 marzo 2017, «ci sono fili molto sottili, che si riconoscono solo davanti al Signore, esaminando la nostra interiorità». La certezza che Dio è presente dappertutto e nel nostro cuore fa proprio leva su questo stare davanti alla maestà divina che è non solo del monaco, ma di ogni fedele.
La preghiera è lode, adorazione, ringraziamento, richiesta, intercessione, ma anche introspezione, lavorio. È quell’orazione fatta nel “segreto” a cui Gesù invita ogni discepolo: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,6). Nel segreto, nell’intimità del nostro essere incontriamo Dio e ciò che veramente siamo. Come afferma san Beda il Venerabile, «magnifica il Signore l’anima di colui che volge a lode e gloria del Signore tutto ciò che passa nel suo mondo interiore, di colui che, osservando i precetti di Dio, dimostra di pensare sempre alla potenza della sua maestà».
Costruire l’unità
intorno al primato di Dio
Un aspetto ricorrente, dunque, nella spiritualità cristiana, vissuta in modo radicale nella vita consacrata, è – come delineato da san Giovanni Paolo II nel suo messaggio in occasione della festa di san Benedetto nel luglio 1999 – «costruire l’unità della propria vita intorno al primato di Dio», ossia «lo sforzo di “fare la verità” risalendo continuamente al dono iniziale della chiamata divina che è all’origine della propria esperienza religiosa». Un’ascesi che aiuta a vivere in modo liberatorio tutto ciò che scaturisce dalla propria personalità, anche l’inevitabile debolezza e fragilità. «Non si può capire davvero cosa sia la vita cristiana se non si torna a un’autenticità di fondo nell’esperienza del proprio cuore. Bisogna imparare a dire la verità a se stessi e a Dio». Si tratta del coraggio di non cedere alla smania di perfezione, ma ricercare la propria identità, giungere alla schiettezza, alla semplicità evangelica del proprio equilibrio umano. «Quante battaglie inutili per cercare di accreditarci per mezzo di faticosissime operazioni di plastica esistenziale, fatte di competizioni, di comparazioni, di sconfitte certe in partenza! Contro chi, alla fin fine? Contro la realtà. Contro la vita». Occorre guardarsi in faccia e conoscersi senza paura di scoprirsi diversi da quello che si credeva di essere.
Si può imparare a far chiarezza partendo da se stessi e poi anche dagli altri senza scandalizzarsi di fronte alle proprie e altrui debolezze. Lo esprime bene il grande Leopardi nei Pensieri (LXXXII): «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo statuto suo nella vita». Tutto questo oggi sembra seguire un indirizzo contrario. Lo dimostra il bisogno di evasione connaturato nella nostra società dispersa e disgregata. Una società avvilita, artificiosamente satura di benessere ma povera di valori, di speranza, pigramente adagiata su falsificazioni e traslazioni virtuali. Il problema è che il silenzio fa paura, guardarsi allo specchio richiama a responsabilità scomode e la conoscenza di sé è falsata o evitata. Nonostante tutto dobbiamo essere sereni e abbandonarci con fiducia tra le braccia del Padre: la gratuità misericordiosa di Dio ci sprona alla verifica radicale e liberante della verità di noi stessi.
Nel Messaggio per la Quaresima 2018 papa Francesco così esortava: «Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi». L’orazione, così fatta, getta una luce nuova, o meglio ci aiuta ad accettare con maggiore visibilità interiore quello che siamo e che viviamo. È come un puzzle i cui elementi si vanno ricomponendo: dal caos e dall’indistinzione iniziale ecco l’immagine che si avvia e si conforma sempre più verso la sua completezza. Siamo un tutto armonico. Ed è a questa armonia e unitarietà che la nostra psiche, la nostra anima e il nostro corpo tendono continuamente. E ogni situazione, persone ed eventi diventano occasione perché possiamo pervenirvi. Anche gli intoppi, gli imprevisti, il non progettato, persino a volte pure l’assurdo e la contraddizione, sono impulsi vitali che ci ridisegnano in quanto unico e meraviglioso dipinto. Non colori a casaccio, ma ogni tinta nel suo giusto assetto, perché ogni parte contribuisca alla bellezza del tutto. Siamo un’opera d’arte, un capolavoro unico e irripetibile.
Scriveva Gregorio Magno: «Nessuna anima deve avere preoccupazione più grande che di conoscere se stessa». Anche San Bernardo affermava che tra tutte le scienze coltivate dagli uomini, nessuna è migliore della scienza con cui l’uomo conosce se stesso. Infatti Thomas Merton evidenziava del suo Fondatore: «Ho compreso che la base di tutta la sua dottrina che è esposta con la massima chiarezza nella Lettera 18, è l’affermazione che Dio è Verità e Cristo è Verità Incarnata, e che la Salvezza e la santità per noi significano essere sinceri con noi stessi e sinceri con Cristo e sinceri con Dio […]. La gioia può essere vera solo se fondata sulla verità, per questo san Bernardo ha ragione a condurci alla gioia attraverso l’amore della verità».
Entrare nella propria cella
come in un sacrario
È l’invito a dimorare nella sancta sanctorum del cuore in modo da esaminare autenticamente la propria vita. Per noi monaci tutto questo trova espressione nel risiedere anche nella propria cella come in una sorta di sacrario, un rientrare nel centro della nostra essenza, un luogo dove veramente si chiude la porta ad ansie, rammarichi, problemi, situazioni irrisolte. E dove soprattutto si incontra Dio come Signore e Datore della pace vera. La cella quale icona della propria interiorità; infatti ovunque portiamo con noi un cantuccio segreto: la nostra anima.
Solo se prendiamo coscienza di quello che siamo e del nostro nulla, allora possiamo iniziare quel cammino di conversione che, sorretto dalla grazia battesimale, ci spinge alla perfezione per la gloria di Dio, senza però mai farci sentire degli arrivati. È l’ardito atto di introspezione per scrutare la verità di se stessi, lavorando affinché l’io profondo emerga senza condizionamenti. Ciò opera delle vere guarigioni, specie quando si è capaci di affrancarsi, con l’aiuto divino, da forme di egoismo, rivalità, invidie che avvelenano la gioia di vivere e rendono sterile ogni gesto di apertura e di incontro con gli altri. Questo ci sollecita a intensificare sempre più il nostro rapporto con il Signore e a lavorare su noi stessi per setacciare tutto ciò che è di ostacolo e, così, accettare anche la sofferenza nella prospettiva del dono e della fecondità spirituale. In questa direzione il limite diventa un mezzo depuratorio dalle passioni – soprattutto l’orgoglio – che ci presentano a noi stessi in maniera distorta o filtrata da meccanismi di difesa innescati dal bisogno di autostima e approvazione. Bisogna imparare “l’arte di essere fragili”, per dirla con lo scrittore Alessandro D’Avenia: «Nessuno conosce la propria profondità se non scende uno a uno i gradini del silenzio, per trovarsi faccia a faccia con se stesso, senza maschere, finzioni, menzogne, dove si annida la verità più nuda».
È come quando i monaci, prima di andare processionalmente tutti insieme in coro, sostano in uno spazio adiacente per raccogliersi e prepararsi alla preghiera, per chiudere la porta a distrazioni senza briglia e a ricentrarsi sull’Essenziale, sullo stare insieme oltre la propria individualità fondendosi come unica voce corale. «Chi custodisce, contiene, scende nel cuore della sua verità, in dialogo con Dio si incontra, si trova, si scopre per quel che è dentro, andando, per tutta la vita, di scoperta in scoperta. Così, il coraggio del silenzio, l’audacia del silenzio di sé, e con sé, è una continua avventura. Chi non vive il silenzio non impara a conoscersi, a riconoscere la sua identità profonda, la sua faccia più bella».
Con tutti
i nostri limiti
Le miserie personali sono illuminanti in quanto senza di esse non si potrebbe mai possedere solidamente la verità di se stessi. Santa Teresa d’Avila riteneva una maggiore grazia di Dio passare un solo giorno in umile conoscenza di sé, sia pure a prezzo di grandi “afflizioni e travagli”, che non più giorni in orazione.
Nella comunione dei Santi e con chi ci vive accanto, attenti alle vicende della storia, sperimentiamo di essere tutti fratelli e sorelle in cordata. Siamo insieme, adesso e qui, con i nostri tanti limiti ma soprattutto con le tante potenzialità che il Creatore ci ha dato perché ciascuno possa contribuire a rendere più bello il mondo. Ci si sente ricchi di Lui e della bellezza d’animo di tante persone. È come se continuamente respirassimo aria ossigenata che rinnova e rinforza. Anche l’amicizia, l’empatia, la condivisione, lo scambio positivo concorrono al nostro bene e ci fanno scoprire con stupore e meraviglia lo spessore della nostra umanità. Smarrendo invece la coscienza delle proprie responsabilità personali e collettive, l’uomo si trova in uno stato di confusione che, spesso, lo porta ad evadere da una reale familiarità con il proprio io. Oggi la parola d’ordine è finzione, evanescenza, inconsistenza e via dicendo. La lotta quotidiana si svolge nella tensione di mantenere alto il primato dell’efficienza, nelle sofisticate pretese di offrire un’immagine di sé competitiva, sempre al passo con la moda. Eppure la sete di autenticità, di trasparenza, è un bisogno vitale! Il cristianesimo, più che mai, è chiamato a proporre l’eterno e unico Modello, Gesù Cristo che, con la sua Parola, sa essere per ogni uomo certezza di vita vera. Il Risorto ci guida in questo processo di uscita dal sepolcro delle false considerazioni sul nostro io per far rinascere ciò che di più profondo e veritiero si trova dentro di noi.
Sono le prove che mettono al vaglio noi stessi, come oro provato nel crogiuolo, e nella misura in cui esse si superano allora si può operare un processo di conoscenza reale della nostra personalità. È come il seme caduto in terra: se non marcisce, non può portare frutto; così l’uomo, se non si scrosta di dosso valutazioni, aspirazioni, proiezioni, se non muore a se stesso, non potrà mai conoscere veramente ciò che è. La morte, nel linguaggio dei mistici, non è distruzione, ma pienezza dell’essere. Non si tratta di un misticismo retorico, né di un complesso di inferiorità o senso di colpa: questa morte è per la vita, questa demolizione è per la ricostruzione.
Un cammino che richiede
un impegno serio
Un cammino non privo di difficoltà che richiede un impegno serio e costante, soprattutto al principio. Anche San Benedetto, nella Regola, prospetta al novizio la durezza degli inizi, mettendogli davanti, tuttavia, la futura soavità che segue a tanto lavoro di cesellamento. Il cammino da fare è sempre tanto lungo e non immune da delusioni e momenti di arresto in questo viaggio per riappropriarsi del giusto equilibrio, della stabilità interiore. Non bisogna arrendersi, anzi mantenersi ottimisti e fiduciosi, attenti ad ascoltare il cuore, a non avere paura dei sentimenti e a considerare le crisi e i dubbi come un tunnel da attraversare per uscirne vittoriosi.
Bisogna familiarizzare con il nostro io e cogliere la vera essenza di quello che siamo. Ogni cristiano è invitato ad andare verso di sé e, nel suo profondo, riconoscere che l’esistenza dell’uomo è tale solo se è in relazione a Dio.
Ecco che, concludendo, vogliamo così pregare insieme all’oblata benedettina, ora beata, Itala Mela: «Fa’ che io dimentichi tutto e tutti per rimanere sola con Te e vedere nella luce della tua verità Te e me, la tua volontà e la mia anima, le tue esigenze e le mie resistenze».
E allora inizia il viaggio perché ogni cosa ritorni al suo posto.
Sr. Maria Cecilia La Mela OSBap