Vivere insieme come fratelli e sorelle
2019/3, p. 20
Fin dagli inizi della nostra storia abbiamo evitato di andare
dietro a ideologie, semplicemente cercando un modello di
vita secondo il vangelo. Il nostro obiettivo è stato ed è
quello di condurre seriamente una vita umana cercando di
farne un’opera d’arte.
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Una comunità che vuol essere un laboratorio
VIVERE INSIEME
COME FRATELLI E SORELLE
Fin dagli inizi della nostra storia abbiamo evitato di andare dietro a ideologie, semplicemente cercando un modello di vita secondo il vangelo. Il nostro obiettivo è stato ed è quello di condurre seriamente una vita umana cercando di farne un’opera d’arte.
“Siamo una comunità di uomini e donne che credono in Gesù Cristo e che nel mondo di oggi ricreano la comunità cristiana di Atti 2,42 e ss.” (da “Scritti fondatori di Bose”, ed. Qiqajon 2017).
Con queste parole inizia la prima stesura delle nostre “Tracce di vita comune” a Bose del 1968. Cerchiamo allora di capire qualcosa di più sulla vita monastica. Innanzitutto il monachesimo non sta al cuore della vita istituzionale della Chiesa, ma ama stare ai bordi, in quella zona di frontiera tra il deserto e la città per poter lì fiorire. Come diceva Pacomio, il grande fondatore della vita monastica, “noi monaci siamo dei poveri laici”. Ancora, i monaci non sono preposti ad una precisa funzione all’interno della Chiesa, né a uno specifico servizio o ministero. Noi monaci e monache non abbiamo uno scopo, ma semplicemente tentiamo di vivere l’Evangelo e nient’altro, praticando il celibato in una vita comune. La nostra presenza è e vuole restare gratuita. La vita comune proposta dal monachesimo si definisce con una parola che mai dovremmo dimenticare: comunione. Nella vita comune si tratta di mettere in comunione con gli altri tutto quello che siamo, tutto ciò che possediamo. Tutto questo richiede sottomissione e partecipazione di quanto è nostro all’altro e la volontà di costruire insieme. Tutto in me deve tendere alla reciprocità, senza però pretenderla dall’altro: io la affermo come mio dovere verso l’altro, ma non potrò mai pretenderla da lui. Questo è quanto di più difficile richiesto dalla vita monastica. Non è però una sorta di utopia irrealizzabile perché la comunione si riesce a realizzare con la fatica del giorno dopo giorno lottando contro i nostri personali egoismi che continuamente la minacciano. Si sperimenta l’amore reciproco che non ha nulla a che fare con quell’amore psichico che determina asservimento, dipendenza, indurimento (cfr. D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, 2010), si può gioire della beatitudine dello stare insieme, dell’essere non solo accanto ma con l’altro- “ecco come è bello e dolce vivere insieme fratelli e sorelle (Sal 133) -, si diventa protagonisti di quell’avventura straordinaria del perdono e della riconciliazione. Certo non si escludono ferite personali e comunitarie che possono non diventare l’ultima parola sulla vita comune se si lascia che ogni conflitto sia superato con la misericordia.
Il dono di vivere insieme
da fratelli e sorelle
Il vivere insieme fratelli e sorelle è da custodire con un lavoro che richiede l’impegno di tutto ciò che siamo, con l’aiuto della nostra intelligenza e del nostro cuore. L’esistenza di difficoltà nelle relazioni è ovvia a tutti noi, anche nelle relazioni tra uomini e donne, esiste una sorta di ferita congenita: già il libro della Genesi identificava questa conflittualità nel rapporto tra l’uomo e la donna. Se rileggiamo quel racconto antichissimo vediamo che dopo la creazione dell’uomo il pensiero di Dio è che non è bene che sia solo. Il terrestre deve entrare in relazione, ha bisogno di un partner con cui confrontarsi. Ed ecco che il Signore Dio lo divide, taglia in due il terrestre come a dire che l’umano è nato dal terrestre quando è apparso come uomo e donna, quando è nato un essere in relazione. Uno di fronte all’altro, uno per l’altro, uno contro l’altro. Come a dirci che l’uomo e la donna sono fatti l’uno per l’altro e al contempo sono un problema l’uno per l’altro: c’è una differenza conflittuale che abita l’alterità, l’altro può essere contro e quindi portatore di un possibile conflitto. Infatti non appena l’uomo vede la donna non le parla, parla di lei ma non a lei. Parla a se stesso e parla del suo possesso: “osso delle mie ossa e carne della mia carne”. Subito la volontà e il progetto di Dio sono traditi e il dramma che segue è già abbozzato in questa alterità negata.
Un laboratorio
relazionale
Eppure, solo nella relazione l’umano trova vita e felicità. La relazione va dunque imparata, ordinata, esercitata. La nostra comunità, nata come comunità di uomini e donne non per nostra volontà, ma per un dono di Dio, può essere dunque un laboratorio relazionale non solo per noi ma per i rapporti tra i due sessi che si vivono all’interno della chiesa e della società stessa. La diversità del ritmo, la diversità del sentire, diventa causa di conflitto. Occorre una grandezza d’animo per non finire a concludere semplicemente con frasi fatte: “l’uomo ragiona così …” o “sono donne, sono fatte in questo modo …”. È necessario perseverare nel dialogo, nel confronto che rispetta l’alterità. L’essere gli uni di fronte agli altri ci può insegnare molto: a noi sorelle il deporre una sorta di conflittualità interna al nostro gruppo, dall’altro canto per i fratelli la capacità a sentirsi maggiormente insieme, a fare corpo gli uni con gli altri.
Fin dagli inizi della nostra storia abbiamo evitato di andare dietro a ideologie, semplicemente cercando un modello di vita secondo il vangelo. Il nostro obiettivo è stato ed è quello di condurre seriamente una vita umana cercando di farne un’opera d’arte. Questo ha fatto sì che ciò che spesso è auspicato nella chiesa ma è ancora disatteso, come la possibilità di una maggiore valorizzazione della donna e più in grande dei laici all’interno di essa, fosse vissuto in maniera direi “naturale”. La possibilità della presa di parola dei laici nell’assemblea liturgica ad alcune condizioni precise (vedi articolo di Enzo Bianchi comparso sull’Osservatore Romano – Donne Chiesa Mondo del 1 marzo 2016); l’idoneità a fare incontri biblici e di spiritualità, lectio divine, l’accesso alla direzione spirituale, la possibilità di accedere a tutte le cariche istituzionali, così come la predicazione fuori dal monastero ha da sempre riguardato fratelli e sorelle indistintamente. Abbiamo vissuto riferendoci alla storia della chiesa che, fin dagli inizi, ha avuto periodi nei quali i laici, uomini o donne, erano parte attiva della chiesa. Non abbiamo costruito un progetto a tavolino di una comunità ideale, ma semplicemente aderendo alla realtà abbiamo cercato di vivere anche la quotidianità nel rispetto delle diversità e nel reciproco aiuto fraterno. Lavoriamo in équipe miste, svolgiamo i servizi giornalieri, ci ritroviamo a discutere in capitoli, assemblee e riunioni senza esenzioni né discriminazioni: tutti e tutte hanno una parte essenziale nella costruzione della vita comune.
Il primato
del Vangelo
Nella nostra vita monastica il primato assoluto spetta al Vangelo: “L’evangelo sarà la regola, assoluta e suprema” (RBo 3) e proprio a quell’unica fonte attingiamo esempio per vivere insieme come sorelle e fratelli. Gesù ha vissuto in una comunità non solo di uomini ma anche di donne, alcune sono menzionate nei vangeli con un nome, di loro non si racconta poi molto, di certo si sa che c’erano ed erano trattate da Gesù come delle vere e proprie discepole, destando scandalo per il tempo e il contesto in cui lui visse perché non era lecito che delle donne seguissero un maestro. Nei vangeli sono narrati inoltre degli incontri precisi con alcune donne e forse riandare a quegli incontri e vedere gli atteggiamenti di Gesù nei loro confronti e di riflesso cogliere come esse rispondono può aiutarci ad imparare a camminare insieme nella diversità. “Sarebbe soprattutto necessario che la Chiesa, le chiese, senza paura tornassero semplicemente a ispirarsi alle parole e al comportamento di Gesù verso le donne, assumendone i pensieri, i sentimenti, e gli atteggiamenti umanissimi e, nello stesso tempo, decisivi anche per la forma della comunità cristiana e dei rapporti in essa esistenti tra uomini e donne, che ormai sono tutti una sola cosa in Cristo Gesù” (da Enzo Bianchi, “Gesù e le donne”, Einaudi 2016, p.124).
Attraverso questo confronto concreto possiamo essere aiutati a iniziare un cambiamento effettivo che porti ad una conversione delle nostre relazioni. Innanzitutto Gesù ci invita ad una inversione del nostro modo di guardare. Spesso in una persona noi vediamo ciò che già abbiamo visto e conosciuto, e quanto più l’altro ci è estraneo tanto più lo releghiamo in generiche categorie. Il vangelo ci mostra che Gesù non ha paura e guarda l’altro, la donna, con uno sguardo più complessivo e sempre nuovo, con uno sguardo libero, libero da pregiudizi, stereotipi, non sottoposto al controllo della cultura dominante dell’epoca che considerava le donne come soggetti subordinati e marginali. Uno sguardo che sa mettere la legge in secondo piano perché questa è solo a servizio dell’uomo come della donna (cfr. l’episodio della donna emorroissa in Mc 5,25-34). Uno sguardo altro che implica anche un nuovo modo di ascoltare e ascoltarsi.
Un cammino attraverso
l’ascolto reciproco
La necessità di un ascolto reciproco profondo purificato da pregiudizi. Un ascolto non prevenuto che accetta linguaggi differenti: Gesù, che non si scandalizza di essere anche toccato fisicamente perché di quel linguaggio corporale coglie l’intenzione, sa riconoscere l’espressione di un amore che va al di là delle parole che si possono pronunciare. Un ascolto che ha la capacità di rimetterlo in discussione, di fargli cambiare idea, punto di vista (la donna pagana di Tiro e Sidone in Mt 15,21-28), un ascolto che lo porta a operare a favore di tutti senza distinzioni, e a riconoscere il più povero tra i poveri, gli esclusi per dare loro la possibilità di esprimersi, come con la vedova di Nain (Lc 7,11-17). Con Gesù l’amicizia diventa possibile senza fraintendimenti a partire dall’ascolto della Parola, che crea legami che superano il limite di ciò che il sangue, o il ceto sociale impongono. Mi ha sempre colpito nel leggere i vangeli l’episodio della guarigione della donna curva (Lc 13,10-17) perché l’ho sempre percepito come un invito, rivolto non solo a lei ma a tutte le donne lettrici di ogni tempo, a stare in piedi in una postura diritta di fronte all’uomo, come a riconoscere con forza l’essere entrambi figli e figlie di pari dignità e che solo in questo modo possiamo vedere la ricchezza di ciò che siamo l’uno per l’altro. Gesù è uomo attento, che sa discernere, che sa guardarsi intorno, aderente perfettamente alla realtà tanto da leggere non solo le condizioni materiali ma anche il cuore di coloro che di volta in volta sono protagonisti in questi eventi. In un certo senso le parole di Gesù, come il suo comportamento, portano a riconciliare quella frattura dell’in principio tra uomo e donna e ci testimoniano che una convivenza altra è possibile.
Ciascuno e ciascuna di noi è invitato a seguire questo cammino semplicemente stando dietro a Lui, perché solo in questo andare ogni piccola o grande comunità cristiana acquista un valore, esprime in maniera significativa ed evangelicamente sensata una via, un modo, una strada di vita che può essere buona notizia anche per gli altri.
Antonella Casiraghi