Ferrari Matteo
Quale bellezza per la liturgia?
2019/3, p. 17
La bellezza della liturgia non è lo sfarzo, non è una bellezza “forte”, che si impone, ma la “debole bellezza” delle cose semplici.

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Testimoni
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Tre icone dei Vangeli che possono farci da guida
QUALE BELLEZZA
PER LA LITURGIA?
La bellezza della liturgia non è lo sfarzo, non è una bellezza “forte”, che si impone, ma la “debole bellezza” delle cose semplici.
Spesso parliamo di bellezza nella liturgia. Ma di quale bellezza parliamo? Infatti, per bellezza si possono intendere tante cose. Allora quale bellezza per la liturgia?
Nobile
semplicità
Si potrebbe pensare, in un primo tempo, a quanto ci dice il Vaticano II in modo molto stringato quando afferma: «I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni» (SC 34).
Il testo, nella sua estrema brevità e sintesi, è molto bello e denso. Il Concilio definisce la bellezza nella liturgia come «nobile semplicità». La bellezza della liturgia quindi non è lo sfarzo, non è una bellezza «forte», che si impone, ma la «debole bellezza» delle cose semplici.
È la bellezza di gesti veri, fatti di realtà estremamente umane, legati come sono alle dimensioni fondamentali della vita: il mangiare, il bere, il lavarsi, l’accendere una luce o profumare un ambiente. Nella liturgia non ci sono mai gesti forti, gesti prepotenti, ma sempre gesti «umili» e «deboli», che facilmente si possono sciupare o rovinare. Si mangia, ma non ci si sfama; si beve, ma non ci si disseta. I gesti della liturgia rimandano sempre ad altri, non sono mai unicamente fine a se stessi. Sono gesti «sacramentali» dal momento che rimandano ad un oltre, che è «il gesto di Dio».
La liturgia riveste di bellezza lo spazio, perché gli dona un senso, gli dona vita. Lo spazio della liturgia non è mai uno spazio inabitato, è sempre uno spazio vissuto: non c’è spazio liturgico che non viva della presenza di un’assemblea. È l’azione che vi si compie a dare forma allo spazio liturgico. Lo spazio è quindi determinato dal gesto, dall’azione.
La liturgia riveste di bellezza il tempo, dandogli un ordine e facendolo corrispondere al tempo di Dio. La scansione del tempo liturgico, sia nel ritmo annuale che in quello quotidiano, è «ordinata» dal mistero pasquale di Cristo, da ciò che Dio ha compiuto nella storia, dalle meraviglie con cui siamo stati salvati e liberati. Il tempo nella celebrazione liturgica esce da ogni finalità produttiva, per essere unicamente in attesa di un dono che viene da Dio.
La liturgia riveste di bellezza la parola umana, perché la rende voce di Dio e per Dio. Una parola che a volte può essere violenta e pericolosa, nella liturgia diventa proclamazione della misericordia di Dio e canto della sua lode. Nella liturgia la parola umana è rivestita della bellezza del canto. La parola umana, con le sue fragilità e le sue possibili ambiguità, diventa voce della Parola stessa di Dio, che primariamente è Cristo stesso. La Scrittura proclamata nell’assemblea liturgica ritorna ad essere «parola viva», rivolta agli uomini e alle donne; la Parola ritorna nella sua condizione originaria di «dialogo» di alleanza, che Dio ha voluto intraprendere con il suo popolo.
La bellezza
della gratuità
Se volessimo individuare su cosa si fonda quella bellezza della liturgia della quale, nel rito, vivono i gesti, il tempo, lo spazio, la parola, potremmo far riferimento a tre scene evangeliche. Se interroghiamo i Vangeli a proposito di cosa sia la bellezza per Gesù, incontriamo nel Vangelo di Luca tre «icone» che ci possono fare da guida: Marta e Maria (Lc 10,38-42), una povera vedova (Lc 21,1-4)), una peccatrice (Lc 7,36-50). Tre donne che diventano «maestre di bellezza».
Innanzitutto, Gesù si pronuncia su cosa sia la bellezza quando incontra due amiche, due donne che lo accolgono nella loro casa a Betania, Marta e Maria. Lì, in quella casa amica, mentre Gesù parla, Maria è seduta «come discepola» ai piedi di Gesù per ascoltarlo. La sorella Marta invece è presa da molte cose per servire, come si deve, l’ospite che è entrato nella sua casa. Alle rimostranze di Marta, che si sente lasciata sola nel servizio, Gesù risponde: «di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,42). Gesù afferma che una cosa è l’essenziale nell’accoglienza di lui e tale realtà è l’ascolto. Quindi il primo volto della bellezza nel Vangelo è l’ascolto. La liturgia è uno spazio di bellezza, perché è spazio di ascolto di quella Parola, che «crea» tutto bello, come nell’«in principio» della creazione.
Il secondo episodio evangelico a cui possiamo fare riferimento è quello che riguarda una povera vedova che getta due spiccioli nel tesoro del tempio (Lc 21,2). Gesù posa lo sguardo su questa donna e coglie la bellezza che si mostra in un gesto così discreto, rispetto a quello dei molti ricchi che gettavano grandi somme nel tesoro del tempio. Gesù commenta così il gesto della povera vedova: «In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere» (Lc 21,3-4). La bellezza per il Vangelo è racchiusa nel gesto di questa povera vedova, in due monetine gettate nel tesoro del tempio che sono simbolo di una vita donata interamente: esse sono la vita di quella povera vedova, tutto quanto essa ha per vivere. La bellezza secondo il Vangelo si fonda sul dono della vita, non del superfluo. Potremmo dire che la bellezza della liturgia ha il suo fondamento «sullo spreco», nel non trattenere nulla, ma nel donare tutto.
Infine, un terzo episodio riguarda una donna peccatrice che, avvicinato Gesù durante una cena importante (Lc 7,37), gli lava i piedi con le lacrime, li asciuga con i suoi capelli e li unge di prezioso olio profumato. Nel Vangelo di Giovanni si dice che il profumo di quell’olio riempì tutta la stanza nella quale si svolgeva il banchetto. Di fronte allo sdegno dei commensali e del padrone di casa che sa che quella donna era una peccatrice (Lc 7,39), Gesù afferma nel Vangelo di Luca: «Simone, vedi questa donna? (…) sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,44-47). Nei racconti paralleli di altri evangelisti si afferma che il gesto compiuto dalla donna sarà narrato ovunque si predicherà il Vangelo (Mc 14,9). Anche in questo gesto per Gesù si rivela il volto della bellezza. La bellezza, quella che non passa con il passare del tempo e che sempre sarà narrata, in fondo è un gesto di vera e provocante gratuità. Nel Vangelo la vera bellezza vive di gratuità.
La bellezza
della Pasqua
Volendo fare un passo in più, alla domanda «quale bellezza per la liturgia?», potremmo rispondere: «la paradossale bellezza del Servo del Signore». Nel libro del Profeta Isaia si parla del Servo come uno davanti al quale ci si copre il volto: il Servo «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (Is 53,2). Eppure, se leggiamo il testo di Isaia, quest’uomo «senza bellezza», diviene il «più bello tra i figli dell’uomo», secondo l’espressione del Salmista: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò Dio ti ha benedetto per sempre» (Sal 45,3). La sua vita è e diventa benedizione perché «offre se stesso» (Is 53,10), fa della propria vita un dono per gli altri. Proprio per questo «avrà una discendenza», la sua bellezza non sarà come quella umana, che è effimera e cancellata dall’inesorabile scorrere del tempo.
Nella tradizione cristiana, i tratti del Servo del Signore sono diventati i tratti del volto di Gesù il Messia. In lui possiamo dire che la vera bellezza davanti a Dio è quella della Pasqua, che riassume in sé tutti i tratti dei tre episodi evangelici che abbiamo brevemente percorso. Nella Pasqua di Gesù, possiamo trovare l’«ultima parola» sulla bellezza della liturgia. La liturgia assume la sua bellezza dalla conformità alla Pasqua del Signore: la bellezza del dono e della gratuità. La liturgia provoca una «pasqua del senso estetico», la sua bellezza consiste nell’essere «trasparenza ai gesti stessi del Signore» (F. Cassingena-Trévedy).
Una bellezza
«straniera»
Il carattere pasquale della bellezza nella liturgia ci conduce necessariamente all’idea di una bellezza «altra», rispetto al nostro comune modo di pensare la bellezza. Per definire tale «alterità» potremmo citare un detto dei Padri del deserto:
«Abba Pietro, discepolo di abba Lot, raccontò che si trovava un giorno nella cella di abba Agatone, quando un fratello venne a dirgli: «Voglio abitare insieme ad altri fratelli. Dimmi in che modo devo vivere con loro». L'anziano gli rispose: «Tutti i giorni della tua vita considerati straniero come il primo giorno in cui ti sei unito a loro, per non avere mai con essi troppa familiarità». Il padre Macario gli chiese: «Ma a cosa porta questa troppa familiarità?». Gli disse l'anziano: «La troppa familiarità è simile a un violento scirocco che, quando arriva, tutti lo fuggono e distrugge i frutti degli alberi». Abba Macario gli disse ancora: «È dunque così nociva la troppa familiarità?». E abba Agatone: «Nessun'altra passione è più nociva della troppa familiarità: è la madre di tutte le altre; il monaco operoso deve guardarsene, anche se vive solo nella propria cella!» (Detti dei padri, Serie alfabetica, Agatone I)».
A partire da questo testo, potremmo fare un paragone tra l’estraneità di cui si parla, in riferimento alla vita monastica, e la bellezza «altra» della liturgia. Occorre salvaguardare, nella gestione dei gesti, dello spazio, del tempo e della parola-canto quella «estraneità» che è necessaria, affinché l’azione liturgica risplenda della bellezza della Pasqua di Gesù. Infatti, rispetto all’evento pasquale, noi siamo sempre stranieri. Il crocifisso risorto è sempre per noi «uno straniero», che, come i due di Emmaus, facciamo fatica a riconoscere (Lc 24,16). Occorre custodire questa «estraneità» perché i gesti di Cristo possano condurci, allo spezzare del pane, a riconoscerlo: «non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).
Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli